La dama rossa

La dama rossa di Giada Trebeschi
Il romanzo storico a enigma che vi porterà in una caccia al tesoro avventurosa e a perdifiato.

Nel 1938, l’anno in cui il duce promulga le vergognose leggi razziali, durante i lavori di restauro di un antico palazzo nobiliare vicino a Roma, la storica dell’arte Letizia Cantarini scopre una stanza segreta nella quale riposano i resti di una donna murata viva cinquecento anni prima.

Forse la murata viva è vissuta alla corte di Alessandro VI Borgia, forse è morta per amore, quello che è certo è che ha lasciato tutti gli indizi di un enigma che, inaspettatamente, interessa anche il governo. Così, a controllare Letizia e i suoi colleghi viene messo prima il seducente capitano del regio esercito Giulio de’ Risis e poi, la milizia fascista.

In un’epoca di crescente tensione bellica, separati dagli eventi e dalle leggi razziali, i protagonisti rischieranno la vita per proteggere uno straordinario segreto che, per preservare la verità, li porterà a compiere scelte coraggiose.

Un romanzo a enigma, una saga storica avvincente, ricca di intrighi, misteri e avventure, in un viaggio nel tempo, tra segreti inconfessabili e sfide di un’epoca travagliata.

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La dama rossa:

30 novembre 1938
Poggio Catino (Rieti), albergo Da Rosa, ore 18.00

Le ombre della sera avvolsero la stanza come se all’improvviso la finestra fosse stata oscurata da una pesante cortina nera. Letizia lasciò cadere i fogli sul letto; la lettura di quelle carte l’aveva stregata. Non si era accorta del passare del tempo e solo adesso sentiva di avere freddo, il corpo scosso da un leggero fremito. Andò a prendere lo scialle abbandonato sulla poltrona e se lo avvolse sulle spalle. Si accostò alla finestra, strofinandosi le mani gelide; il cielo era livido, attraversato da nuvole violacee. Si prepara la pioggia pensò distrattamente.

Passi pesanti calpestavano la ghiaia del cortile. Diede un’occhiata verso l’ingresso della locanda dove abitava ormai da alcune settimane, cioè da quando era stata incaricata di seguire i lavori di ristrutturazione di palazzo Biraghi, a Poggio Catino.

Alcuni uomini in divisa stavano entrando nell’albergo. Non le piacevano i soldati. Tirò bruscamente le tende e si avviò verso il bagno, presto sarebbe stata ora di scendere per cena.

Qualcuno bussò alla porta. Ebbe paura e d’istinto nascose le carte che stava studiando sotto la biancheria nell’armadio, si guardò velocemente allo specchio ravviandosi i capelli scuri acconciati alla moda e, armandosi di un sorriso innocente, andò ad aprire.

«Buonasera, dottoressa Cantarini, sono il capitano Giulio de’ Risis.»

Un militare, piuttosto attraente dovette ammettere, le stava tendendo la mano.

«Il console Morelli della milizia fascista vorrebbe farle qualche domanda. Potrebbe seguirmi nel salotto? Lì staremo tranquilli.»

Letizia si strinse nel suo scialle di lana e, senza parlare, scese al piano inferiore. In fondo alle scale incrociò la padrona dell’albergo, la signora Rosa, che le parve piuttosto nervosa, ma forse si trattava solo della sua immaginazione.

Nel salotto li stavano aspettando due civili molto ben vestiti e altrettanti militari che, al loro ingresso, si alzarono di scatto posizionandosi ai lati della porta. Il gesto la mise in allarme. Uno degli uomini in borghese le andò incontro.

«Finalmente ho il piacere di conoscervi, dottoressa Cantarini, ho sentito molto parlare di voi, ma non immaginavo che foste così giovane.»

Lo sconosciuto, un uomo alto e magro dai capelli brizzolati, aveva usato un tono ostentatamente gentile; sorrideva affabile, però a Letizia non piacque per niente.

Fin da piccola, aveva sempre dimostrato una straordinaria capacità di capire le persone a prima vista e di rado si era sbagliata. Sembrava dotata di un congegno che, come le vibrisse dei gatti, le permetteva di intuire quello che agli altri sfuggiva.

Ora, in quell’uomo percepiva qualcosa di negativo. Non che il suo aspetto fosse particolarmente ripugnante, ma lo sguardo torbido e sfuggente cozzava con i suoi tentativi di mostrarsi cordiale.

«Mi chiamo Ugo Morelli, console della milizia. Il nostro capitano l’avete già conosciuto, e questo è il mio assistente, il capo manipolo Luca Giacoboni» disse indicando l’altro civile che stava spegnendo la sigaretta: un uomo sulla cinquantina, piccolo e tarchiato.

«Mi dispiace avervi disturbata a quest’ora, ma si tratta di una questione molto importante.»

Letizia, d’istinto, fece un passo verso il capitano il quale, al contrario di Morelli, le aveva subito ispirato fiducia.

«Mi dica, signor Morelli, in cosa posso aiutarla?» chiese lui.

«Capitano, i vostri uomini.»

Il militare fece un cenno col capo ai due soldati, che uscirono dalla stanza e chiusero la porta.

«Bene, ora che siamo fra amici possiamo parlare liberamente. Sono settimane che voi state lavorando qui, dottoressa, e mi hanno riferito che pochi giorni fa, insieme al proprietario del palazzo, Vincenzo Biraghi, siete stata testimone di uno straordinario ritrovamento. È vero?» riprese Morelli.

«Sì, abbiamo scoperto una stanza ricavata all’interno della camera padronale. Con ogni probabilità risale alla fine del XV secolo.»

«Una stanza segreta dunque…»

«Se la vuole definire così… io direi piuttosto una prigione.»

«Una prigione?»

«L’entrata era stata murata. E all’interno abbiamo trovato uno scheletro incatenato.»

«Un prigioniero punito con una morte atroce… chi mai poteva essere? E cosa doveva aver fatto per subire una tale punizione?»

«Ci sto lavorando.»

Morelli la fissava in maniera inquisitoria e Letizia si sentì rabbrividire.

«D’ora in avanti, mia cara, dovrete tenermi al corrente di ogni vostra scoperta, di ogni più piccolo dettaglio. nelle alte sfere sono molto interessati ai vostri studi. Mi auguro che sarete, diciamo… collaborativa, sebbene i vostri trascorsi non siano proprio definibili in tal senso, non è vero, mia cara?»

Perché mai qualcuno nelle alte sfere era interessato al suo lavoro? E chi era questo Morelli? Quanto le dava fastidio quel mia cara! Come si permetteva di chiamarla così? Con quale diritto veniva a dirle di collaborare, proprio lui, fatto della stessa pasta di quella gentaglia che le aveva brutalmente portato via il padre, reo di non essere stato collaborativo?

«Mi dispiacerebbe molto se una giovane bella e intelligente come voi dovesse ripetere gli stessi errori del padre» continuò Morelli. «Spero che voi abbiate fatto tesoro di quella terribile esperienza. Gli errori degli altri ci insegnano sempre qualcosa, non siete d’accordo con me, mia cara?»

Letizia non parlava. Fissava Morelli cercando di non far trasparire alcuna emozione.

«Da domani mattina, il nostro capitano e i suoi uomini seguiranno il vostro lavoro e ci informeranno di ogni cosa, nel malaugurato caso che voi dimenticaste di farlo. Mi è stato riferito che siete l’unica, per ora, a essere entrata nella stanza. Avete visto qualcos’altro oltre allo scheletro? E, scusatemi, perché dopo non avete lasciato entrare nessuno?»

«Deve sapere, signor Morelli, che il mio lavoro è paragonabile a quello di un investigatore. Se qualcuno dovesse cambiare anche un solo dettaglio della scena del delitto, sarebbe poi molto più difficile scoprire il colpevole. Tutto deve restare così com’è stato trovato, almeno per il momento. Dopo che avrò finito di fare i rilevamenti necessari, lascerò via libera anche al resto della squadra.»

«Qualcuno dice di aver visto dei fogli, e ora pare che non ci siano più…»

«L’apertura è ancora molto piccola e, data la sua ubicazione decentrata rispetto a dove ho ritrovato le carte, dubito che dall’esterno qualcuno abbia potuto vedere qualcos’altro oltre allo scheletro. Comunque, c’erano un paio di ciotole, del materiale da scrittura e tre fogli: due bianchi e uno con un sonetto, ma sono ancora al loro posto. Mi scusi, come mai le interessa tanto?»

«Pura curiosità e amore per la ricerca storica. Continuate il vostro lavoro, senza preoccuparvi di noi, l’importante è che ci teniate informati. Mia cara, è stato un piacere conoscervi. Ci rincontreremo presto. Capitano, vogliamo andare?»

Morelli si diresse verso la porta con passo deciso, mentre il suo assistente sussurrò un buonasera appena percettibile.

«A domani, dottoressa. Cercherò di non intralciare troppo il suo lavoro» disse il capitano con un sorriso gentile prima di seguire gli altri due uomini.

Il capitano, notò Letizia, al contrario di tutti gli altri, si prendeva la libertà di non usare il voi fascista.

Rimase immobile fino a quando non sentì i loro passi allontanarsi dall’albergo poi si avvicinò al caminetto e cercò di riscaldarsi. Fissando il crepitio delle fiamme, pensava alle carte che aveva nascosto. Erano una sua scoperta, ed era lei che doveva studiarle. Questa volta i risultati del suo lavoro sarebbero stati pubblicati con il suo nome, non con quello di un altro, come invece era capitato agli inizi della sua carriera di assistente all’università, quando aveva ricevuto l’incarico di scrivere un saggio sui pittori bolognesi Annibale, Ludovico e Agostino Carracci.

Ricordava benissimo l’istante in cui aveva trovato sulla scrivania di Boriello, il suo professore, un libro che gli era stato inviato in omaggio. Si trattava di una raccolta di saggi sui pittori emiliani di fine Cinquecento, fra cui quello firmato da un professore amico di vecchia data di Boriello, un certo Musone: Carracci. Umanità e arte sacra.

Il suo lavoro! E nemmeno una nota che quantomeno la citasse. Che meschinità, cadere così in basso per pochi spiccioli e farsi bello con la fatica di un altro! Giurò a se stessa che non avrebbe consegnato a nessuno le carte che aveva trovato a palazzo Biraghi, qualsiasi cosa ne fosse venuta fuori, anche se qualcuno nelle alte sfere sembrava ora così interessato alle sue ricerche.

Le tornò in mente che, nei giorni successivi al ritrovamento della stanza segreta, qualcosa era accaduto in effetti. Avevano improvvisamente sostituito parte del personale che lavorava con lei senza darle alcuna spiegazione, inoltre non riusciva più a trovare il suo quaderno di appunti. Forse erano solo coincidenze. O forse no. In ogni caso, spinta da un’istintiva prudenza, aveva subito nascosto le carte trovate nella stanza segreta senza farne parola con nessuno. Sapeva però che qualcuno poteva aver sbirciato dall’apertura notando il materiale per scrivere, e così non aveva toccato né la penna né il calamaio, e aveva lasciato al loro posto due fogli bianchi e quello con il sonetto.

«Signorina, mi scusi, è tutto a posto?» chiese una voce femminile.

«Sì grazie, signora Rosa, tutto bene» rispose Letizia distraendosi dai suoi pensieri.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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