Lo stampatore greco

Lo stampatore greco di Massimo Zenobi

La saga familiare di mercanti greci, profughi ad Ancona e stampatori visionari.

In un austero palazzo di ricchi mercanti di Ancona, fiorisce tra due bambini una profonda amicizia, destinata a durare per tutta la vita. Mikel, irrequieto e brillante, si scopre poeta, ma finirà per guadagnarsi il pane da mercenario mentre Kyriakos, spirito pratico e ingegnoso, dedicherà ogni sua energia all’arte tipografica ai suoi albori.

Le traiettorie dei personaggi si intersecano in base a una cronologia rigorosa, a cui sfugge solo il gatto Saladino. Fa da sfondo il mare, pervasivo e onnipresente, il liquido amniotico dal quale arrivano i profughi greci dopo la caduta dell’Impero Romano d’Oriente e la conquista turca di Costantinopoli. Migliaia di profughi cercano riparo sulle coste italiane, e Ancona in particolare diventa un importante crocevia della diaspora bizantina.

Più che una saga familiare, Lo stampatore greco è una storia di profughi, della loro lotta per ritrovare una propria identità, della lenta e faticosa assimilazione in un mondo alieno e conflittuale, tra antico e moderno, oriente e occidente, turchi e cristiani, greci e latini.


Acquista qui – Formato KindleCopertina flessibile

Comincia a leggere qui gratuitamente l’incipit del libro
Lo stampatore greco:

1

Adriatico centrale, 23 settembre 1459

Il soffio del garbino di terra gonfiava le grandi vele triangolari. Navigando di lasco, la galea fendeva veloce l’acqua increspata, mentre l’intera struttura gemeva sforzata dal vento. Somigliava a un pescespada, con quel lungo sperone di prua, e le file di remi come le costole del torace di un enorme animale marino, creatura viva e palpitante, lanciata in corsa tra sbuffi e sussulti, di cui lo scricchiolio degli alberi e delle antenne, i fischi tra le cime, lo sciabordare delle onde contro lo scafo erano il verso.

Manili Maruli era affacciato alla balaustra del castello di poppa e osservava come il bordo libero dello scafo fosse particolarmente basso per il carico di merci, di uomini e di dolore. Con un cenno del capo il sovracomito lo salutò scendendo la scaletta che portava al ponte di poppa, da dove comandò i subalterni a eseguire le manovre per l’avvicinamento. Mentre i marinai si occupavano di ammainare e serrare le vele, i vogatori non tardarono a prendere la cadenza sotto la sferza degli aguzzini. Sedevano sulle due file di panche, come in chiesa, osservava Manili, attratto dalla sincronica coreografia dei movimenti, che gli richiamavano alla mente quelli dei fedeli nella liturgia della Santa Messa.

«Come farete a incontrarlo, una volta sbarcati?» gli domandò Eufrosine, impettita al suo fianco, noncurante degli schizzi d’acqua sollevati dai vogatori.

«Mi ha dato appuntamento in un luogo preciso. E poi è una persona conosciuta,» rispose lui con ostentata sicurezza, «non sarà difficile rintracciarlo.»

«Parlate più forte, non vi sento!»

Quasi urlando per sovrastare il fischio del vento e il rumore delle onde spezzate dai remi, l’uomo ripeté:

«Ho detto che è un mercante molto noto in città, sarà facile trovarlo!»

Intanto, oltre la sagoma bruna del Conero, sullo sfondo scuro della notte in fuga a ponente, il chiarore dell’alba cominciava a illuminare in lontananza il profilo delle bianche, ripide falesie incastellate. Più avanti, il fuoco del Fanò, la lanterna, indicava la bocca del porto di Ancona. Era ormai giorno fatto quando la galea, tenendosi a distanza dalle ultime propaggini rocciose del colle Guasco affioranti a pelo d’acqua, disegnò un’ampia virata di prua e si dispose a entrare in rada. Investita dal sole ancora basso, la città dispiegava a ventaglio la sua magnificenza, scendendo dai colli ad abbracciare lo specchio del porto. In mare, una miriade di imbarcazioni sparse per tutto il golfo – galee affusolate, cocche panciute, fuste, tartane, legni, bastimenti di ogni genere – era a testimoniare l’opulenza della libera Repubblica di Ancona. Tra le vele, nel cielo reso terso da un temporale notturno, stormi di uccelli circondavano le barche dei pescatori, quasi a voler partecipare di tanta ricchezza. Una moltitudine brulicante di vita avvolgeva l’intera città come la danza di mille api attorno al favo.

Mentre osservava quello spettacolo, la donna inspirava l’aria salmastra e pungente del mattino.

«Ma è davvero così ricco come dicono?»

«La sua famiglia era già ricca da prima che arrivassero ad Ancona. È stato abile a conservare le relazioni commerciali e a espanderle, tanto che ora possiede agenzie in tutto il Mediterraneo.»

Manili colse un’espressione preoccupata sul viso della donna e provò a rassicurarla:

«Non temete, ci aiuterà.»

«Speriamo… In fondo lo conoscete appena, e non sarebbe la prima volta che vi sbagliate a giudicare qualcuno.»

Manili reagì irritato:

«Se non aveste schiaffeggiato l’intendente, saremmo ancora a Ragusa, e non avremmo di questi problemi!»

«Quel villano!» esclamò lei, ripensando all’accaduto, «rivolgersi con quel tono a una Tarcaniota, a una principessa di stirpe reale!»

 «E voi,» proseguì, «voi non avete alzato un dito per difendere il mio onore!»

«La vostra insolenza è pari solo alla vostra superbia» fu la replica stizzita con cui l’uomo liquidò la questione. «Piuttosto, andiamo a prepararci a sbarcare.»

La galea avanzava lentamente mentre i due nocchieri manovravano tra le navi alla fonda. A sinistra sfilò il bastione posto a difesa del porto, all’estremità delle mura lungo il molo di settentrione. In prossimità della banchina fu comandato di ritirare i remi, mentre gli ormeggiatori a terra e i prodieri a bordo si scambiavano le cime. Finalmente la nave diede fondo.

Una volta sceso a terra, il manipolo dei Maruli si avviò lungo la banchina verso la città.

«Jan, tieni per mano tuo fratello» disse Manili, ma il bambino, recalcitrante, non voleva saperne.

«Lascia, lo prendo io» intervenne Eufrosine. «Tu aiuta tuo padre con il bagaglio.»

«È troppo pesante per lui,» si fece avanti il più anziano del gruppo, «ci penso io.»

Il bambino dava la mano a sua madre mentre passava con la bocca spalancata sotto al monumento che si stagliava in fondo al molo:

«Madre, cos’è questa costruzione?»

«È un arco, fu fatto costruire da un imperatore della prima Roma» rispose la donna. «Dai tuoi antenati…», mormorò tra sé, con un tono velato di amaro sarcasmo.

«E a cosa serve un arco?»

Stava per rispondergli che era un monumento, edificato per celebrare la gloria di una conquista, ma pensò al calvario di patimenti e di sconfitte che era stata la sua esistenza, dove aveva imparato a proprie spese come non ci sia niente di più amaro ed effimero della gloria, per cui preferì rispondergli:

«A nulla, Mikel. Non serve a nulla.»

Il bambino non fece in tempo a notare la stranezza di quella frase. Si era già distratto e ora guardava il palcoscenico della città di fronte a sé.

 Sulla sommità del colle Guasco, sopra il porto, la chiesa cattedrale di San Ciriaco dominava sulla distesa di case alte e strette, addossate l’una all’altra, irta di torri, guglie, campanili, che si inerpicava fin sopra il colle Astagno sul lato opposto. Era come se l’intera città fosse adagiata su un lenzuolo, con i quattro lembi sul colle dei Cappuccini e sull’Astagno da un lato, e dall’altro sul colle Guasco e la punta meridionale del porto. Più volte nel passato il lenzuolo era mutato in un sudario di morte – per i saraceni, le pestilenze o altre iatture – ma sempre l’operosa caparbietà degli anconitani aveva rapidamente ricoperto le macerie, come una sana, rigogliosa, pervasiva gramigna.

Forse proprio l’incombere incessante di un nemico aveva spinto la cittadinanza a dotarsi di un sistema difensivo così imponente. Il Corridore, un alto muraglione che andava da un capo all’altro del porto, sembrava fatto apposta per impedire alle case di scivolare in mare, ed era separato dall’acqua solamente da uno stretto camminamento che univa tra loro le rare portelle, angusti passaggi ai quali si accedeva direttamente dal mare tramite una corta gradinata triangolare. In posizione arretrata, una fila di torri di guardia trovava spazio in mezzo all’abitato.

Dalla finestra di uno dei palazzi, a mezza costa, Demetrios Zenobios guardava verso il porto, mentre armeggiava con un coltello attorno a una mela. Dopo averla divisa in due, ne porse una metà al ragazzo che aveva di fianco.

«Ermete, poco fa ho visto entrare una galea che issava la bandiera di San Biagio. Scendi a controllare.»

«Vado subito, padrone», rispose prontamente l’altro, prendendo dalle sue mani la metà del frutto.

«Aspetta!»

«Dite.»

«Nella mia ultima lettera avevo scritto a Manili Maruli che lo avrei incontrato alla Loggia dei Mercanti. Cercalo lì.»

«Sarà fatto, padrone.»

Ermete stava per allontanarsi, quando Demetrios aggiunse:

«Un’ultima cosa: quando chiedi di lui, chiamalo Manilio Marullo, alla latina. Meglio essere prudenti.»

Il ragazzo restava fermo in attesa di altri ordini, invece l’altro gli fece un cenno con le mani:

«Vai, benedetto figliolo! Cosa aspetti?»

Nel frattempo, la famiglia Maruli avanzava in mezzo al vociare degli scaricatori, girando intorno a botti, casse, corde, reti da pesca e ogni altra sorta di intralcio. Seduti sull’orlo con le gambe a penzoloni, alcuni pescatori pulivano il pesce gettandone in acqua le viscere.

«Che odore insopportabile!» notò Eufrosine con un’espressione di disgusto.

«Ho fame!» si lamentava il bambino, mentre la madre lo trascinava via a viva forza, pur di allontanarsi da quel punto.

«Come fai ad aver fame in mezzo a un puzzo simile? A me dà il voltastomaco!»

«Dentro le mura, là in fondo, c’è una piazzetta con una taverna» disse Manili, ansimante per lo sforzo di trasportare insieme al padre Filippo il grosso baule contenente tutti i loro averi e documenti. «Potrete aspettarmi lì mentre vado a cercare Zenobios.»

Ricomparve poco dopo al cospetto della moglie.

«Mi sono fatto dire dove si trova la Loggia dei Mercanti. Non è molto lontano da qui. È un edificio nuovo, dicono sia bello come un palazzo di Venezia!»

«State attento a non perdervi, piuttosto» replicò seccamente Eufrosine.

«E voi tenete d’occhio il baule.»

«Temete di perdere le vostre patenti di nobiltà?»

Manili fulminò la donna con un’occhiata carica di risentimento, ma non disse nulla.

«Vengo con te» si fece avanti Filippo.

«Padre, è il caso di lasciarla sola con i bambini?»

«Non datevi pena, ho imparato da tempo a badare a me stessa» intervenne lei con una smorfia.

I due si incamminarono lungo la via Sottomare, uno stretto budello affollato che correva a ridosso del muraglione.

«Cosa faremo?» domandò Filippo.

«Zenobios ci aiuterà, vedrete. Gli ho scritto più volte in questi anni, per assicurarmi che non si fosse dimenticato di Egla.»

«Mi chiedo ancora con che cuore tu abbia chiesto aiuto a lui.»

«È appunto per questo, padre! Voi mi conoscete, potete immaginare quanto mi sia costato mettere da parte l’orgoglio e rivolgermi a lui. Sono certo che ancora oggi prova rimorso per quanto successe allora. È su quel rimorso che voglio far leva per ottenere il suo aiuto.»

Filippo lo ascoltava a testa bassa: «Povera figlia…»

«Dovete ammettere però che Demetrios si comportò da galantuomo. Egli stesso non sapeva che fosse incinta.»

Filippo rallentò fino a fermarsi del tutto.

«Che avete?»

«L’ho tradita… Mi sono disfatto di lei come se fosse stata merce avariata.»

Guaiva come un cane.

«È morta sola, povera figlia mia, lontano dalla sua casa.»

Manili tentò di consolarlo:

«Non potevate sapere di averla data in sposa a un delinquente.»

«Già…» rispose l’altro, senza convinzione. Ripresero a camminare.

«Tu hai sposato bene, invece», disse Filippo, con un’espressione sul viso che il figlio non colse.

«Mi raccomando ancora una volta: non lasciatevi mai sfuggire neanche una mezza parola con Eufrosine. Non so di cosa sarebbe capace, se sapesse di avere una cognata che non esiterebbe a bollare come una poco di buono.»

«Non temere, figliolo. Non ne ho mai fatto parola con nessuno, neanche con il prete. È un dolore tutto mio, da portare addosso come un cilicio.»

«Credetemi, non passa giorno senza che io pensi a Egla, ma ormai non possiamo più cambiare il corso degli eventi. Tanto vale cercare di trarne vantaggio.»

«La memoria degli uomini è così labile,» osservò Filippo mentre continuava a camminare, pensieroso, facendo attenzione a schivare le pozzanghere, d’acqua e altro, «speriamo che quella di Demetrios Zenobios sia ancora ben salda.»

«Coraggio, non vi perdete d’animo,» lo esortò il figlio, «non è la prima avversità che dobbiamo affrontare, e a ogni caduta ci siamo sempre rialzati.»

L’altro annuì mostrandogli un sorriso stanco.

«Vi ricordate quando i Turchi invasero la Morea e ci cacciarono dalle nostre terre?» proseguì Manili. «Tutto sembrava perduto, eppure poco tempo dopo eravamo a corte, come del resto si conviene ai discendenti degli imperatori della prima Roma.»

Filippo ascoltava in silenzio.

«A dire il vero, mi sono sempre chiesto come avessero fatto i nostri nobili antenati ad andare a cacciarsi in quella pietraia assolata dove viveva la nostra famiglia.»

«Fosti abile a sfruttare le occasioni. Io stesso mi meravigliai per la tua rapida carriera.»

«Ufficiale della guardia di palazzo…» mormorò Manili con lo sguardo perso dietro alla visione di quei giorni felici, in cui la Città era prodiga di onori e grazie con chi era capace di meritarle. Ma era successo anni prima, prima che succedesse tutto, prima che la sua esistenza, insieme a quella di altri milioni di persone, venisse sconvolta da uno di quegli eventi talmente sproporzionati e decisivi nella storia del mondo da meritare la distinzione tra un prima e un dopo, come la nascita di Nostro Signore.

Camminando, i due sentirono il profumo rassicurante e universale del pane uscire da una delle botteghe affacciate sulla via. Manili si ricordò di essere a digiuno dalla sera prima.

«Aspettate qui.» Entrò nel forno e ne uscì poco dopo con in mano una pagnotta ancora calda. Se la divisero e ciascuno la addentò con foga.

«Pane senza sale,» notò Filippo, «come a Ragusa.»

Mentre mangiavano, in piedi in mezzo alla strada, Manili rifletteva:

«Anche a Ragusa fummo ben accolti. Ai notabili del posto piaceva ascoltare di intrighi e racconti della corte imperiale.»

Parlava a bocca piena e l’altro faticava a intenderne le parole.

«Ma in Italia non sarà altrettanto facile» dovette ammettere. «Di greci ne hanno già visti passare parecchi, in questi anni.»

«La curiosità dei latini per il mondo orientale è già stata appagata» commentò Filippo.

«È anche vero che da queste parti, le città e i principi hanno una certa inclinazione a venire alle mani.»

«Come nella nostra Morea…» osservò l’altro, con un ghigno amaro.

Manili argomentò:

«Forse un soldato con buone doti di diplomazia, tanto più se straniero e quindi neutrale rispetto alle beghe locali, potrebbe tornare utile a qualcuno dei tanti signori in lotta fra loro.»

Preso dai suoi discorsi, quasi non si accorse di essere giunto di fronte alla Loggia dei Mercanti. L’edificio era realmente magnifico come gli era stato detto. La posizione – quasi a mezz’aria fra il mare e la terra – le forme e la finezza delle decorazioni esprimevano l’orgoglio e la protervia di un’intera comunità e al tempo stesso mostravano qual era la fonte della sua ricchezza.

Si arrestò. Prima di entrare, prese l’altro per le spalle, lo guardò negli occhi e gli confessò:

«Padre, ho sentito dire che il nuovo papa si sta adoperando a organizzare una coalizione di principi cristiani per muovere guerra contro il Turco.»

Al pensiero della patria perduta, il discorso di Manili si infiammò:

«Sono disposto a tutto, pur di far parte di quella santa impresa. Non c’è prezzo, non c’è sacrificio che non valga lo scopo.»

Filippo lo guardava con l’espressione amorevole e senza età di un padre verso il figlio, velata di disillusione.

«Non ho denaro né terre da lasciare ai miei figli,» proseguì Manili, «ma almeno l’odio inestinguibile per l’usurpatore e il ricordo dolcissimo della Città delle Città.»

I due rimasero per qualche istante a guardarsi negli occhi, poi Manili si sciolse:

«Aspettatemi qui.»

Attraversò uno degli archi dal lato della strada e venne abbagliato dalla luce che entrava da quelli sul lato opposto prospiciente il mare. Non appena gli occhi si furono riabituati, lanciò uno sguardo attraverso l’ampio salone tentando di catturare qualcosa di familiare. Decise di scegliere a caso uno dei capannelli di gente che affollava il locale, si avvicinò e quasi urlando per sovrastare il vocio di fondo domandò:

«Perdonatemi, conoscete messer Demetrios Zenobios?»

Uno degli astanti lo squadrò da capo a piedi prima di rispondergli:

«Il greco? E chi non lo conosce?»

«Per caso sapete dirmi dove posso trovarlo?»

«Non si vede spesso da queste parti. Di solito lui tratta gli affari a casa sua, se lo può permettere!» replicò, mentre gli altri confermavano annuendo.

«Provate a chiedere a quello là in fondo, vicino alla colonna» disse indicando un ragazzo ben piantato che sembrava intento a scrutare la folla in cerca di qualcuno.

«Lavora per lui, di certo saprà aiutarvi.»

«Grazie, che il Signore ve ne renda merito!» rispose Manili mentre si congedava.

«Un altro greco… Tra un po’ non sapremo più dove metterli, tutti questi greci!» commentò a bassa voce uno dei presenti.

«Soprattutto se continuate a portarveli in casa e a sposarveli, come ha fatto tua figlia!» lo zittì quello che sembrava il più anziano del gruppo, tra le risate degli altri.

Quando Manili arrivò a pochi passi dal giovane, fu egli stesso a prendere l’iniziativa:

«Messer Manilio Marullo?»

«Sono io!» rispose lui, rincuorato.

«Mi chiamo Ermete. Il mio padrone, Demetrios Zenobios, ha mandato me per accompagnarvi verso la sua casa.»

«Mio padre è qui fuori, il resto della mia famiglia sta aspettando al porto. Dobbiamo passare a prenderli.»

Con un gesto della mano, Ermete lo invitò a precederlo. I tre si incamminarono per via Sottomare e raggiunsero uno slargo di fronte alla portella di Santa Maria. Lì trovarono Eufrosine, seduta su una panca, che intratteneva i due bambini, ciascuno con un pezzo di focaccia in mano.

«Alla buonora!» esclamò la donna non appena vide il marito. Ermete salutò con deferenza.

«Vi prego di seguirmi, la casa di kyr Demetrios non è lontana. Se posso aiutarvi con i bagagli, disponete pure di me.»

Il piccolo gruppo si inoltrò per le vie della città con Ermete in testa – che teneva con una mano la maniglia della cassa – affiancato da Filippo, il quale reggeva la maniglia sul lato opposto. Seguivano Manili ed Eufrosine, che tirava per un braccio il recalcitrante secondogenito. Lungo il tragitto, alla vista del lugubre corteo di figure vestite di scuro che seguivano una cassa, a più di un passante venne d’istinto scoprirsi il capo in segno di lutto.

«Madre, sono stanco!» si lamentava il piccolo Mikel. Allora Eufrosine lo prendeva pazientemente in braccio. Ma poco dopo, un’altra sosta interrompeva il viaggio:

«Madre, voglio scendere!»

Alla fine, tra pause e interruzioni, ci volle una buona mezz’ora per coprire un tragitto di non più di mezzo miglio. Dovettero inerpicarsi sulle ripide rampe di scale che salivano dal porto fiancheggiando il Palazzo degli Anziani.

«Madre, siamo arrivati?» piagnucolò Mikel.

«Non ancora, manca poco» gli rispose il padre.

«E come fate a saperlo?» lo apostrofò la moglie, «ci siete già stato?»

«Siamo quasi arrivati» si intromise Ermete. Manili tacque e seguitò a salire.

Giunti in cima, sostarono per riprendere fiato e asciugarsi il sudore. Mentre posava la cassa a terra, Ermete si girò verso Filippo e gli chiese:

«Siete stanco?»

L’altro non rispose, per quanto ansimava.

«Aspettate, padre, prendo io il vostro posto» accorse Manili, interpretandone un malessere.

«Forse è meglio, figliolo», rispose il vecchio, soffermandosi con lo sguardo su Ermete.

«Signore, perché mi fissate?» chiese il giovane. «Ho forse qualcosa che attira la vostra attenzione?»

Filippo rimase interdetto per tanta insolenza da parte di un servo.

«In effetti, sì. Mi ricordate una persona», rispose.

«Dovete averla molto cara, quella persona», proseguì il giovane.

«Non c’era nulla che avessi di più caro al mondo.» Un leggero tremolio nella voce tradiva l’emozione del ricordo, dopo tanto tempo ancora vivido.

«Era mia figlia.»

Ermete lesse negli occhi del vecchio le tracce di un dolore antico, ma non ne tenne alcun conto e volle ugualmente sapere:

«Di grazia, in che modo vi ricordo vostra figlia, essendo io un uomo?»

Filippo sospirò.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

Acquista qui – Formato KindleCopertina flessibile

I libri di Massimo Zenobi