Cronache di un animo gentile

Cronache di un animo gentile di Oliver Alex Fabbro

Usate una mascherina trasparente. Così i passanti vi vedranno sorridere mentre leggete questo libro. Gianluca Morozzi

  • Titolo: Cronache di un animo gentile
  • Autore: Oliver Alex Fabbro
  • Lingua: Italiano
  • Formati: kindle, copertina flessibile
  • Editore: Oakmond Publishing (2020)
  • Generi: Romanzo, Ironico

Simon Gentile vorrebbe fare l’attore, e per qualche tempo c’è pure riuscito, ma una tragedia gli ha sconvolto la vita allontanandolo da suo sogno. Si ritrova così costretto a dover mantenere economicamente la madre, che è un po’ matta e cerca continuamente di ucciderlo, mentre si prodiga tra mille lavori assurdi, ma tutti veri, pur di resistere. Ad aiutarlo in questa avventura: un paramedico cleptomane, un’amica strampalata, una badante tostissima e un’oca da guardia. E ok, sono d’accordo, le premesse per un successo non sono delle migliori, ma Simon ha un dono, quello della resilienza oltre a quello della gentilezza. 

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Cronache di un animo gentile:

1
A mia madre…

….non piacciono le fotografie. Non so perché, le detesta. Così, sul muro bianco del salotto, soltanto tre piccole cornici resistono, appese malamente da mio padre.

Una, quella di destra, pende da un lato e ci siamo io, mia sorella Rachele e mio padre Giovanni. Tutti in piedi, con le braccia lungo i fianchi e le facce che sorridono. Sullo sfondo, l’insegna dell’impresa di famiglia: Macelleria Gentile. Gentile è il nostro cognome e non, come pensa qualcuno, il modo in cui abbattiamo il bestiame. Della serie: Tranquillo maialino, non sentirai nulla. No, niente di tutto ciò, però funziona. Cioè, la gente da noi sembra felice. Merito, credo, di quel bontempone di mio padre. Uno che ti racconta una barzelletta diversa ogni giorno. Ma se torni due volte nella stessa giornata perché hai dimenticato per esempio il pane, parte la replica. Però a me piace, mio padre dico, c’è sempre da divertirsi con lui.

Nell’immagine al centro, visibilmente sfalsata rispetto alle altre due, nel senso che è fissata una decina di centimentri più in alto, ci sono i miei genitori in posa, duri come stocafissi, nell’unico scatto che hanno del loro matrimonio. Mia madre Teresa, velo e tuta da ginnastica bianca. Una cosa strana da vedere. Un accenno di pancia da gravidanza. Mio Padre, già calvo a trent’anni, papillon e scarpe eleganti. Un accenno di pancia da birre e salsicce.

Per anni, mio padre e mia madre, hanno combattuto una guerra silenziosa per l’affissione di quella foto che, prima di finire su muro, giuro, la trovavi ovunque: a galleggiare nel water, appallottolata nel cestino, catturata dalle foglie dell’albero di fronte casa e perfino bruciata nel lavello della cucina. Mio padre, però, aveva delle copie con la cornice e tutto il resto. Così, un giorno, mia madre ha semplicemente lasciato perdere senza dire una parola, com’è sua abitudine. Lei parla poco, molto poco. Non esagero quando dico che sì e no sono le uniche cose che dice. Però è sempre in perfetta forma. Mia madre ha due grandi passioni: il fitness, tanto che porta i pesi ai polsi anche quando dorme, e Franco Calippano di cui possiede veramente tutto. Dischi, film, libri. Una cosa insopportabile.

L’ultima foto del salotto, quella che sembra fissata per bene e che ritrae mia madre mentra fa jogging nel parco con la maglietta del tour di …Ma scambierà dell’ottantasei, in realtà ha un piccolissimo chiodo a sorreggerlo. Così ogni tanto viene giù. Nonostante la cornice scheggiata è una bella foto: un raggio di luce colpisce da dietro la sua figura mettendo in risalto la siluette longilinea. L’immagine è l’unica da lei approvata tra tutte quelle proposte dopo un sabato sera in famiglia passato a scegliere foto: duecentoquarantasei no, un sì.

Per la cronaca lo scatto è di mia sorella Rachele che possiede una polaroid. Regalo di compleanno di mio padre. Lei, Rachele, ha tredici anni, quattro meno di me. Quindi a conti fatti io ne ho diciassette, ma lei sembra molto più grande a volte. Fa dei ragionamenti così contorti che non so. Per esempio, dopo aver fatto lo scatto perfetto, perfetto perché approvato da mia madre, ha smesso con la fotografia in quanto ritiene di avere raggiunto il traguardo più importante nella sua carriera di fotografa, o di figlia. Chissà. Sta di fatto che, da quel momento, ha abbandonato la polaroid e si è dedicata allo studio dell’interazione digitale. Principalmente lunghe chiacchierate dal telefono fisso e composizione di messaggi di testo dal suo Nokia 3310 di seconda mano che le ha regalato sempre papà. Mia sorella e alcune amiche si sono anche iscritte a una cosa chiamata Facebook, che secondo me, non avrà futuro. Hanno provato a spiegarmi come funziona, ma non ne ho capito il senso. Insomma, nel duemila e quattro la gente ha altro da fare che stare sul computer tutto il giorno. Io, per esempio, non ne avrei proprio il tempo. Sono già troppo impegnato con la scuola, le prove di teatro e tutto il resto.

Ora, per l’appunto, sono sul divano in salotto, che ripasso le battute con papà. Rachele smanetta sul Nokia che ormai ha i tasti trasparenti. Mamma affronta il settantesimo chilometro sulla cyclette mentre lo stereo suona Lo sballo della vita. Non mi disturba la musica, cioè, ci sono abituato. Mio padre dice che se sono in grado di ricordare le battute con questo sottofondo, non avrò mai problemi a farlo con la pressione di un pubblico addosso. Io, di solito, gli rispondo che tanto lo farei comunque, ho una memoria infallibile. Sul serio, ricordo tutto il copione. Lui allora ridacchia, apre una pagina a caso di Novecento, il suo libro preferito, e legge le prime parole che gli saltano all’occhio. Da lì io continuo lasciandolo di stucco ogni volta. «Ma come fai, è pazzesco.» Intanto suona il telefono. La mano di Rachele scatta verso il cordless di casa che si trova, immancabilmente, di fianco a lei.

«Pronto? Ah… Simon è per te.»

Guardo mio padre stupito che ricambia l’occhiata. Prendo il telefono. «Sì?»

«Simon Gentile?»

«Sì, sono io.»

«Ciao, mi chiamo Marco Sonoro e sono un agente teatrale.»

Con la bocca mimo la parola agente teatrale indicando la cornetta a papà che mi si appiccica addosso per sentire meglio.

«L’altro giorno ero a pranzo con un nostro amico in comune: il professor Samsa» continua l’agente «parlando è venuto fuori il tuo nome. Dice che hai una buona memoria.»

«Sì, sì, direi di sì.» Rispondo sorridendo. Il pensiero va per un attimo al buon vecchio professor Samsa, detto Barba, insegnante e direttore della piccola compagnia in cui recito.

«Sto cercando giovani attori per un’audizione importante. Sei interessato?»

Pensa te. Roba da non credere. E chi se l’aspettava questa? A papà, intanto, cade la mandibola dalla sorpresa, poi si mette a saltellare per casa agitando le braccia in aria come un matto, trattenendo a stento un urlo di gioia. Anche Rachele è in piedi e mi sta guardando con due occhi grandi d’orgoglio.

«C…certo.» Balbetto tutto eccitato.

«Perfetto. Il casting è a Bologna, ce la fai a venire mercoledì?»

Papà fa di sì con la testa, ma in maniera esagerata, neanche fosse a un concerto metal. Rachele ha un gran sorriso stampato in faccia e mi sta mostrando un cuore che ha appena disegnato su un foglio di carta. Mamma invece ha già superato il chilometro cento e non fa una piega.

«Sì, mercoledì va bene.»

Arriviamo a Bologna e incontriamo Marco Sonoro. L’agente stringe la mano anche a papà e cordialmente, ma un po’ stizzito, ci chiede di seguirlo. Siamo in ritardo perché mio padre sarà anche uno forte, ma alla guida prende trent’anni. Non so se mi spiego. È come se il semplice salire in macchina bastasse a rincitrullirlo. Si ingobbisce avvicinando la faccia al volante. Le mani posizionate: la sinistra a ore dieci e la destra a ore due. Sempre. Non le toglie dal volante nemmeno per grattarsi. Il limite di velocità diventa un confine invalicabile, pena la sedia elettrica. La distanza di sicurezza, un dovere civile imprescindibile. Tra noi e la macchina di fronte, di solito, può atterrare un aeroplano tanto spazio c’è. Delle rughe profonde gli appaiono sulla fronte come tante onde in un mare di pelle. Lo vedi a occhi stretti che segue concentratissimo ogni movimento della strada. Non parla. Anche la radio invecchia, suona solo il radio giornale, su tutte le stazioni, una cosa da lasciarti secco, ma solo se non c’è mamma. Altrimenti musicassette di Calippano a tutta forza.

Risultati conseguiti dopo un conteggio di volte in cui, con mio padre alla guida, siamo arrivati in ritardo: 642 su 642

Un risultato pazzesco. Un lavoro di un’esattezza micidiale. Ma poi, quando scende dalla macchina, il viso si distende, spariscono le rughe, la schiena si raddrizza e ritorna l’entusiasmo. Di solito se ne esce con una barzelletta del tipo: «Simon, sai qual è il colmo per un tipografo? Non avere un buon carattere.»

A volte mi fa tenerezza, giuro.

Siamo solo noi tre. Io, mio padre e il signor Sonoro. Io ho il cuore letteralmente in gola. Papà si mangia le unghie dalla tensione. Il signor Sonoro parla al vento. Né io né mio padre abbiamo capito un’acca di quello che ha detto perché troppo concentrati sulle nostre personali fantasie catastrofiche. Il trailer mentale di tutto quello che può andare male al provino. Vedi: puntuale afonia, perdita momentanea della memoria, scivolata su buccia di banana, o macchia d’olio, con conseguente visita al pronto soccorso, improvvisa crisi isterica mia o a opera di uno degli esaminatori che estrae una pistola e fa una strage mandando a farsi benedire tutti i miei sogni di gloria. E dire che mi sono vantato parecchio di questa storia a scuola.

Vedi inoltre: improvviso abbassamento della pressione con svenimento e nuova visita al pronto soccorso, oppure finto agente che in realtà filma i ragazzi per poi vendere le registrazioni a qualche sorta di pervertito feticista.

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Insomma ce la stiamo facendo sotto. Entriamo in una stanza piena di ragazzi e mi do dello stupido. Chissà perché credevo di essere il solo. Nei giorni precedenti ho immaginato cento volte la mia entrata, accolto dall’attraente direttrice del casting che, ammaliata dalla mia bellezza, si lancia in una serie di domande sempre più sfrontate. Alla fine, spogliata da ogni pudore, chiede a mio padre, con un sussurro, di lasciarci soli un momento. Mio padre, che è uno forte, capisce al volo ed esce colmo d’orgoglio.

La realtà però, con mia grande tristezza, è ben diversa. Una ventina di ragazzi, dalle scarpe lucide e dai ciuffi alla moda, siedono composti con i loro genitori accanto. Sembrano tutti usciti dalle pagine di qualche giornaletto per ragazzine. Perfetti, con la pelle liscia e il futuro assicurato in banca. Li guardo, mi guardano. Abbasso lo sguardo. Mi vergogno come un cane. I capelli me li ha sistemati Rachele, i vestiti me li ha comprati papà e ha sbagliato la taglia dei jeans. Lunghi il giusto, ma larghi da farci passare dentro un’altra gamba. E sono i migliori che ho. Non scherzo. Le scarpe invece sono in vernice, nel senso che sono sporche di pittura. Mi siedo a disagio come non mai. Sonoro intanto ci lascia e si ferma a parlare con tre o quattro di quei damerini. Mi sento sprofondare. Papà se ne accorge, si avvicina e mi sussurra all’orecchio una frase bellissima: «Se vuoi davvero una cosa, niente può fermarti.»

È il mio turno di entrare. Quattro esaminatori siedono dietro a un lungo tavolo in una stanza completamente spoglia. Li osservo. La donna delle mie fantasie non c’è, al posto suo tre uomini distinti e una signora anziana. Mi fanno sedere e mi chiedono chi sono, cosa faccio. Cose del genere. Sono un po’ agitato, lo ammetto. Mi tremano le mani e la voce a momenti s’incrina e diventa stridula dall’emozione. I pensieri si ingarbugliano nel cervello. Troppa pressione o troppo ossigeno. Non saprei, ma alla fine trovo il filo narrativo della mia vita e mi lascio andare. Come ultima prova mi chiedono di recitare qualcosa. Certo, dico. Allora mi passano un bigliettino. Saranno cinque righe. É la pubblicità di uno shampoo. In silenzio, leggo una volta l’intero biglietto, poi lo poggio e la recito a memoria. «…per capelli più sani e forti.» Bam! Conquistati in un baleno. Si vede palesemente dalle facce anche se non lo dicono. Ora già so che si alzerà il più vecchio di loro, quello con la barba e, stringendomi la mano mi dirà, complimenti ragazzo. La parte è tua. Qualcuno porterà un contratto milionario in una valigetta e una penna d’oro per siglare la mia ascesa. Mi siederò su una comoda poltrona e, con tratto morbido, scriverò Simon Gentile mentre l’anziana signora si affaccerà alla porta per avvertire gli altri pretendenti che il posto è già stato assegnato. Invece tutto quello che mi dicono è: «Le faremo sapere.»

Una settimana, poi due. Le speranze si affievoliscono, si assottigliano. A scuola i miei compagni cominciano a prendermi in giro. «Gentile, dov’è la Ferrari che ti saresti comprato?Ah ah.» 

Rispondo con un po’ d’imbarazzo: «C’era tanta gente famosa al provino. Navigata, non so se mi spiego. Per esempio, avete presente il bambino della Kinder? Bé era lì. Forse l’hanno data a lui la parte.»

«Gentile sei uno sfigato.»

Una pala per seppellirmi non sarebbe abbastanza. Ci vorrebbe una ruspa. Ma ecco che accade una cosa curiosa. Mi suona il cellulare. Classica suoneria Nokia, quindici secondi di Grand Vals. Intanto quelli continuano a prendermi in giro. «Neanche mia nonna usa più quella suoneria!» «Chi è che ti chiama, la mamma?» Io chiedo silenzio alzando il dito indice. Rispondo, annuisco un paio di volte, ringrazio e ripongo il telefono in tasca. «Allora chi era, il tuo fidanzato?» Risata generale tra i ragazzi. Io sfoggio il mio sorriso più gagliardo. «No, era il mio agente. Sono piaciuto, mi hanno preso.» E loro sprofondano nella melma dell’invidia, mentre attacco un balletto, cantando a tutta canna: «Sia lode all’eroe trionfatore, paraparapà parapà!»

È il giorno della partenza . Niente può fermarmi. Sono carico. Anche un po’ spaventato, cioè non è mica uno scherzo cambiare vita così all’improvviso. Salgo sul treno e non posso che immaginare come sarà il momento del mio grandioso ritorno. L’apoteosi della celebrazione. Un fiume di persone che urlano il mio nome e alcuni indicandomi diranno: «Andava a scuola con mio cugino.» Oppure: «Facevamo la spesa nello stesso supermercato.» Insomma, tutta la città a festeggiare, con orgoglio, i miei successi come fossero i loro. E io li lascerò fare, anche se prima mi consideravano uno qualunque. Uno da prendere in giro. Li perdono, insomma, sarò gentile con loro. Farò regali ai più bisognosi, magari mi travestirò da mendicante con l’impermeabile sporco, la stampella e tutto il resto. Li studierò da lontano, in incognito, per capire chi di loro sarà meritevole di un pezzo della mia fortuna. E la gente mi vedrà come un filantropo e quando morirò daranno il mio nome a questa stazione. Una grande targa in bronzo all’ingresso reciterà: Da questa stazione tutto cominciò. O qualcosa del genere.

Il treno si sveglia. Lento come un gigante che si alza. Mi appiccico al vetro salutando con la mano la mia famiglia. Le farfalle volano nello stomaco. Ci sono Papà e Rachele. Si tengono per mano. Babbo piange. Entrambi sventolano un fazzoletto bianco. Ricambio con un sorriso velato di tristezza. Il treno prende solennemente velocità. Ed eccola lì, mia madre, nell’esatto posto in cui dovrebbe essere, mentre seleziona una barretta biologica al distributore automatico. Ma è un immagine fugace. In un attimo, mia madre, scorre via e sparisce.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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