Verità sommerse

Verità sommerse di Davide Gadda

A chi importa davvero di quale sia la verità?

  • Titolo: Verità somerse
  • Autore: Davide Gadda
  • Lingua: Italiano
  • Formati: kindle, copertina flessibile
  • Editore: Oakmond Publishing (2021)
  • Generi: Narrativa

Il Ministero accerta la verità sui pensieri e le azioni di ogni singolo cittadino della Repubblica, in nome della sicurezza nazionale. Ma quando un suo agente scompare in circostanze che nessuno sembra saper chiarire, s’incrina il castello di certezze sulla spietata efficienza dell’organizzazione. Come il celebre battito d’ali di una farfalla, s’innescano reazioni a catena in cui tutti si affannano per appurare e occultare al tempo stesso realtà fattuali, finendo spesso invischiati in azioni di depistaggio dei vertici del Ministero che rischiano di compromettere la soluzione del caso.

Ma la questione si riduce a una sola, a un inquietante interrogativo: a quanti interessa la verità?

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Verità sommerse:

Prologo

Autunno 1988

In un’Europa divisa da quarant’anni di guerra fredda, il regime della Repubblica Democratica teme che le timide riforme annunciate dall’alleato sovietico preludano a una crisi definitiva del blocco orientale. Ora più di prima la sopravvivenza del sistema è affidata alla repressione interna, operata con spietata efficienza dalla più potente organizzazione della Repubblica.

Un’organizzazione che in nome della sicurezza nazionale è istituzionalmente deputata a invadere la sfera privata di ogni cittadino, senza eccezioni.

Un’organizzazione il cui nome viene sussurrato con angoscia e sospetto: il Ministero.

Kolbe

Un’alba di fine ottobre come tante. Freddo umido presagio d’inverno, buio pesto e metropolitana semivuota. I vagoni si trascinavano per lo più addetti ai complessi residenziali, come lui, o donne al servizio di qualche alto papavero del partito.

Sbadigli, giacche e cappotti abbottonati, nessuna voglia di parlare. Vago tanfo di tabacco, naftalina e vite di merda. In sottofondo, il crepitio delle ruote sui binari, intervallato da cigolii di freni arrugginiti e secchi proclami agli altoparlanti.

A completare il quadro, gli ubriachi riversi sui sedili, fradici di piscio e vomito. Quelli però, alla Volksplatz scendevano. Cortesemente scortati dalle ronde al vicino presidio della Milizia. In base a quell’inviolabile regola mai scritta che vietava l’accesso alla stazione successiva per ubriaconi, vagabondi e teppisti di periferia.

Non era il caso di Kolbe. Era proprio quella fermata, Schlossenburg, la sua destinazione.

Da troppo tempo, pensò.

Il treno lo scaricò puntuale. Alle 5.23, come ogni mattina. Scese sul marciapiede e lasciò che gli altri si accalcassero all’uscita. Fermo sulla banchina, si abbottonò la giacca e sistemò per bene il berretto. Sputò tra i binari, si accese una Filterlose e solo allora, sigaretta tra i denti e mani in tasca, si avviò alla scalinata.

Zoppicando. Perché dall’incidente la gamba destra non gli era più tornata come prima.

Uscì all’aperto e si incamminò per la strada. Da anni le sue giornate cominciavano in questo modo. Con una passeggiata in mezzo al paradiso. Tra palazzi di appartamenti per funzionari, villette di dirigenti e residenze dorate dei pezzi grossi.

A lui era toccato il blocco 3. Un grosso complesso di otto piani con ascensori sempre funzionanti, affiancato da altri tre complessi gemelli separati da un largo piazzale. Con ampi giardini e parcheggi, zeppi di automobili, e tra quelle anche qualche Volvo e un paio di Mercedes.

Per accedere al suo complesso, passò davanti al blocco 1. Il blocco di Growitz, che già sostava davanti al portone e che vedendolo prese a gesticolare, con l’indice ed il medio alla bocca. Kolbe gli porse il suo pacchetto. Quell’altro fece una smorfia ma gli sfilò ugualmente una sigaretta. E chiese:

«Come fai a fumarti sempre questa merda?»

Kolbe sputò a terra. «E tu non me le chiedere, stronzo!»

Growitz rise. «Che ne dici di un goccetto?» Gli porse un fiaschetto, Kolbe tirò una sorsata e glielo restituì.

«E dai, non fare economia!»

«Se ti ci vuoi affogare tu, in questo piscio!»

Growitz rise ancora. «Un tempo carburavi con più benzina.»

«Un tempo non avevo ancora il fegato a pezzi.»

«Ah, per quanto mi riguarda me ne sbatto proprio. Te lo ricordi Liebke?»

«Chi? Quello del blocco 6?»

«Già, proprio lui. Non beveva, non fumava, donne neanche a parlarne ed era magro come un chiodo. Sempre serio come l’accidenti. Risultato: la moglie l’ha mollato a quarant’anni e lui ha tirato le cuoia l’anno dopo con un bel cancro allo stomaco.»

Sputarono a terra entrambi, all’unisono.

Kolbe si accese un’altra sigaretta. «Se permetti, io questa merda me la vorrei fumare ancora per qualche annetto. Sai, Growitz, non mi resta molto altro, ma mi accontento di poco.»

«Ehi, Kolbe, e io che avrei più di te?»

«Hai una moglie…»

«Non mi pigliare per il culo, che quella più le sto fuori dai piedi più è contenta. Almeno prima qualche sveltina qua e là la rimediavo, ma adesso, mi vedi? Non batto più chiodo con nessuna.»

Kolbe aspirò la sigaretta prima di ribattere. Da bocca e narici sfiatò fumo e parole assieme.

«E allora, Growitz, perché due carcasse come noi continuano a venire in questo posto, a lucidare pianerottoli, pulire caldaie, controllare chi entra e chi esce, tutti i giorni sempre la stessa storia, e andiamo avanti così, da anni?»

L’altro fissò Kolbe con un’espressione improvvisamente seria.

«Perché, mi chiedi?» trattenne un ghigno. «Ma per il trionfo del socialismo, ecco perché!» Bevve un sorso di acquavite e sollevò il fiaschetto «Lunga vita al socialismo!» E rise, sguaiato.

Kolbe non replicò. Si avviò al blocco 3, in silenzio. Pensando che tanti erano informatori. Anche lui, a volte, lo era stato. Forse lo sarebbe ancora stato, in futuro. E perché non doveva esserlo uno come Growitz?

La conosceva bene, quella tecnica. Facile, quasi grossolana. Dovevi verificare un sospetto. Ti mettevi a parlar con lui, facendo qualche allusione sarcastica o esplicitamente critica sul sistema. Se l’altro abboccava, il gioco era fatto.

Calpestando foglie secche sul piazzale Kolbe si chiese se non fosse troppo paranoico. Forse Growitz non aveva secondi fini. Ma nel dubbio, meglio la paranoia.

Entrò nello sgabuzzino a lato, prese lo scopone di saggina e uscì a spazzare. Sul piazzale vide un taxi e istintivamente si voltò a osservare il portone. Non si era sbagliato. Dal palazzo uscì trafelata una donna. Una rossa, capelli gonfi a criniera, quell’acconciatura che pareva tanto di moda da qualche tempo. Indossava una giacca di pelle nera, minigonna, calze a rete e stivaletti. Si diresse al taxi.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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