Nightshade: Protocollo Hunt

Nightshade: Protocollo Hunt di Andrea Carlo Cappi

Lei è la donna che preme il grilletto.
Qualcuno muore e la storia del mondo prende un altro corso.

Mercy Contreras, la contractor nota come Nightshade, ha lavorato per i servizi segreti americani, spagnoli e italiani.

Ora, insieme a Carlo Medina, è in Slovenia a caccia di un ex terrorista. Ma è solo una nuova battaglia della sua guerra privata, che la condurrà fino a Chicago sulle tracce del misterioso Protocollo Hunt, la chiave della trama in cui è coinvolto il padre di Mercy. La destinazione finale sarà il luogo in cui per lei tutto ha avuto inizio e da cui potrebbe non fare mai più ritorno.



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Nightshade: Protocollo Hunt:

Introduzione

Siamo alla riedizione di Protocollo Hunt, qui presentato in una versione estesa rispetto a quella pubblicata nell’agosto 2012. Mentre lo scrivevo, la serie si avvicinava al decennale del romanzo d’esordio, Missione Cuba, apparso per la prima volta nel marzo 2002. Per il pubblico erano passati dieci anni, per Mercy – a parte i racconti e romanzi brevi in flashback che avrei poi raccolto in Dossier Contreras – ne erano trascorsi solo tre, intensi e frenetici, con vittorie occasionali ma anche cocenti sconfitte.

Rispetto al progetto che avevo delineato nel 2001, mi ero concesso due deviazioni dalla trama principale: Progetto Lovelace e Destinazione Halong. Ma era venuto il momento di arrivare a un punto fermo. Cominciai a prepararmi in Operazione Nightfall, il romanzo che più di tutti lasciava elementi in sospeso. In quel periodo però il curatore della collana in cui usciva la serie era propenso a chiudere Nightshade, per dare invece spazio a Medina.

Pensavo quindi che Protocollo Hunt potesse essere non solo il romanzo che riannodava i fili di tutte le storie precedenti, ma anche l’ultimo. In queste pagine e nella nota in appendice potrete scoprire come poi sono andate le cose.

Preludio

Nova Gorica, Slovenia, maggio 2005

La luce del riflettore fende l’aria satura di fumo e desiderio. Tutti gli sguardi sono fissi su di me, mentre danzo lentamente sulla pedana. Quando mi giro, di scatto, per un istante lascio intravedere il mio corpo nudo sotto il costume di scena. Poi mi metto a cavalcioni su una sedia e protendo in avanti una gamba, stretta dal polpaccio in giù in un calzare a fasce argentate. Faccio scorrere la mano destra a partire dalla caviglia, sulla pelle scoperta, fino alla coscia, mentre con la sinistra accarezzo lo schienale di cuoio rosso della sedia.

Sono diversa dalle altre ed è per questo che il pubblico si sente spiazzato. Non mi esibisco nel solito striptease, né in acrobazie intorno al palo. Appaio sul palco nuda e vestita allo stesso tempo, avvolta in un mantello di nere strisce sottili che mi arriva fin quasi ai piedi. Mi basta un movimento rapido per lasciar intravedere che sotto non porto niente. Rivelo per un istante il mio corpo per poi tornare a nasconderlo, muovendomi al ritmo di un brano funk con echi di sitar.

Gli spettatori mi guardano ipnotizzati, ma a me non importa di loro. Non provo nulla durante il mio numero. La tensione erotica, il gioco di seduzione, tutto è simulato. Non è altro che la coreografia che ripeto tre volte ogni sera, molto più semplice di quelle in cui mi esercitavo giorno dopo giorno quando vivevo a Siviglia. Quando ero un’altra persona, quando ballavo per passione, seguendo il richiamo del mio sangue. D’altra parte, cambiare ruolo fa parte della mia natura.

Fino a un anno fa ero ancora a tutti gli effetti Nightshade, agente a contratto della Sezione D, reparto della CIA inaugurato dopo l’undici settembre e chiuso nel maggio 2004 dopo la morte del suo direttore. Sei mesi fa mi facevo chiamare Concepción Miranda, lavoravo per il CNI, il servizio di informazioni spagnolo, e facevo da esca per incastrare un gruppo di estremisti pronti a mettere ferro e fuoco l’Europa. La trappola ha funzionato, ma nella feroce sparatoria che è seguita, l’uomo che amavo è morto. Da quel giorno ho dato la caccia ai membri della rete. Quelli che non ho ucciso di persona, sono stati arrestati e interrogati.

Tutti tranne uno.

È il motivo per cui da due settimane sono in Slovenia. Mi sono infiltrata al Caesar – nome davvero originale, per un night-club, casinò, albergo e bordello di lusso – per arrivare fino al suo inavvicinabile proprietario: un terrorista italiano che gode di protezioni molto in alto.

Lavoro per un funzionario del SISMI all’insaputa dei suoi superiori a Roma. L’operazione non esiste, dunque sono la persona più adatta per portarla a termine, dal momento che Mercedes Contreras Torres, nome in codice Nightshade, è ufficialmente deceduta in uno scontro a fuoco circa sei mesi fa.

Qui mi sono presentata con un falso passaporto italiano e un nome d’arte inglese. Per la terza volta anche oggi ho finito la mia esibizione, i riflettori si spengono e io scompaio dietro le quinte per tornare in camerino. Ho appena il tempo di sfilarmi il costume, indossare la biancheria e rivestirmi con T-shirt nera, jeans grigio scuro e un paio di stivali di cuoio nero, prima che qualcuno bussi alla porta.

«Chi è?» domando, infilandomi una giacca di pelle sopra la T-shirt.

Mi risponde una voce conosciuta: Carlo Medina, l’uomo con cui sono venuta qui, il mio socio segreto in questa operazione. Lo invito a entrare.

Tuttavia, quando la porta si apre, lo vedo farsi da parte per lasciar passare l’uomo della sicurezza, seguito dal direttore del Caesar, che mi saluta con uno sbrigativo: «Tu adesso vieni con noi».

«Ma che cosa…?» comincio con falsa innocenza, rivolgendomi a Medina.

Lui, sarcastico, mi dice solamente: «Lo spettacolo è finito, señorita Mercedes Contreras.»

Sono stata bruciata.

Medina ha rivelato la mia vera identità agli avversari, che ora mi condurranno in catene dal nemico.

«Eso me encanta», dico sottovoce.

PARTE PRIMA

PAURA E DISPREZZO A NOVA GORICA


1

Gorizia, Italia, maggio 2005:
dodici giorni prima, martedì

Nella luce grigia del mattino sembrava di essere in qualche paese misterioso dell’Europa centrale. Forse era per la scritta bilingue sulla targa che il colonnello aveva visto sul palazzo della Curia, mentre dal parcheggio si incamminava verso piazza della Vittoria. O forse erano le cupolette a bulbo in cima ai campanili della chiesa di Sant’Ignazio a dare un tocco slavo alla scenografia.

Invece, anche se la frontiera era vicina, Bernardo De Lorenzo si trovava ancora in Italia.

Era un uomo basso, di una mezz’età non molto ben portata, con baffetti e capelli radi. Indossava intenzionalmente un vestito vecchio sopra un maglioncino e una cravatta fuori moda. L’insieme lo rendeva più grigio di quella mattinata, un ometto che stava andando al lavoro a piedi con un quotidiano sottobraccio e la tentazione di farsi un caffè corretto prima di entrare in ufficio, giusto per concedersi una piccola soddisfazione prima di cominciare la giornata. Un personaggio da film in bianco e nero degli anni Cinquanta.

De Lorenzo entrò in un piccolo bar e si guardò intorno. Il locale era decorato con reliquie della Prima guerra mondiale, che si era combattuta a pochi passi da lì. Tra gli elmetti e i cappelli da alpino, tuttavia, si insinuavano simboli fascisti e ritratti del Duce.

Fascismo di frontiera, pensò l’uomo del SISMI.

Provava sempre un certo disagio in questi casi: nonostante fossero passati sessant’anni dalla fine di Mussolini, in certi ambienti il patriottismo continuava a essere associato a quei vecchi simboli. Oltretutto e per puro caso, Bernardo De Lorenzo portava lo stesso cognome del generale che per poco non aveva messo in atto un golpe di estrema destra nel 1964. Anzi, sospettava con imbarazzo che la propria carriera fosse stata favorita proprio dal fatto che qualcuno lo avesse scambiato per un parente di quel De Lorenzo.

Il colonnello non aveva una particolare ideologia, non si identificava in alcuna formazione politica, ma aveva giurato di difendere il suo paese. Per questo odiava gli intrighi, gli intrallazzi di partito, i giochi di potere, le logge segrete e tutto ciò che aveva infestato il servizio informazioni italiano con tutte le sigle adottate dal dopoguerra in poi: SIFAR, SID, SISMI… e già si parlava di cambiargli di nuovo il nome.

La verità era che De Lorenzo non ne poteva più del suo lavoro. Tutto questo, poche settimane prima, lo aveva portato a cedere a una tentazione: si era trovato fra le mani una grossa somma di denaro illecito e aveva deciso di approfittarne, sperando di poter fuggire e cambiare vita. Gli era andata male. Chance Renard, il Professionista, e Mercedes Contreras, Nightshade, lo avevano sorpreso con le mani nel sacco. Avevano taciuto, per fortuna, concedendogli di riprendere il suo lavoro come se niente fosse successo.

Sicché il colonnello era tornato ad affrontare i problemi di sempre, deciso stavolta a risolverli una volta per tutte usando gli stessi metodi dei suoi rivali. Si avvicinò al banco, ordinò un caffè corretto con Nardini bianca, che bevve in tre sorsi, senza zucchero. Poi chiese al barista indicazioni per il cimitero di Oslavia. Per tutta risposta, l’uomo gli indicò una porta di legno con la scritta Privato, oltre la quale c’era una stretta scala. Al piano superiore, il colonnello bussò a un’altra porta.

«De Lorenzo», si identificò.

«Avanti», disse una voce maschile.

La stanza non era molto spaziosa: c’erano due letti – entrambi sfatti – un tavolino con quattro sedie, una finestrella che guardava su un cortile, un lavandino con poche stoviglie e una porta che dava probabilmente su un bagno. Sul pavimento si vedevano valigie e borse semiaperte. Carlo Medina era in piedi vicino al letto, con in mano una pistola che si affrettò a infilare alla cintola. Mercedes Contreras stava accanto alla porta, armata anche lei, e De Lorenzo la vide solo quando entrò nella stanza.

«Buongiorno», disse a entrambi, approvando tacitamente la loro cautela.

«Buongiorno, colonnello», rispose la donna, in italiano.

L’uomo fece un cenno di saluto con la testa.

Nightshade doveva essere alta poco meno di un metro e settanta, con un fisico allenato dalla pratica pressoché quotidiana delle arti marziali e dalla lunga esperienza come ballerina di flamenco; gli occhi erano castani, ma sembravano cambiare colore a seconda della luce; spesso erano alterati da lenti a contatto, per esigenze di lavoro; i capelli erano castano scuro, probabilmente il suo colore naturale benché in varie occasioni li avesse dovuti tingere. Dimostrava qualcosa di meno dei trent’anni che stava per compiere. De Lorenzo la conosceva dal maggio 2004.

Solo poche settimane prima, Nightshade e il suo amico Carlo Medina erano stati determinanti nello sventare un attentato a Milano e il colonnello aveva deciso che erano le persone giuste per portare a termine una missione clandestina che non poteva essere autorizzata dal SISMI. Loro avevano accettato di collaborare. Per Mercedes Contreras non era che il proseguimento dell’indagine che  aveva cominciato presso la CIA e continuato in Spagna per conto del cni. Cambiavano i datori di lavoro, ma per lei la guerra era una sola.

Carlo Medina era un personaggio misterioso, di cui De Lorenzo ignorava l’esistenza fino alla fine di aprile. Aveva passato i quarant’anni e aveva qualche filo bianco tra i capelli castano scuro, quasi neri; portava un paio di baffi separati al centro e allungati agli angoli della bocca, che lo facevano assomigliare al Charles Bronson degli anni Settanta; era poco più alto di Nightshade e il suo fisico cominciava a tradire una propensione alla buona cucina o all’alcool. Era pure lui una specie di contractor che lavorava sotto la copertura di una società di consulenze milanese; il colonnello preferiva ignorare le sue vere attività. Ma anche Medina, al pari di Nightshade, poteva essere trasformato in una risorsa preziosa per risolvere certi problemi al di fuori della legge.

De Lorenzo depose la sua valigetta sul tavolo e l’aprì. «Vi ho portato il dossier su Marchino Palmieri. Una copia ciascuno.» Scostò una sedia e si mise al tavolo.

«Caffè?» propose Nightshade, indicando un apparecchio elettrico appoggiato sul pavimento, sotto la finestra.

«Sì, grazie», rispose il colonnello.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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