Black Zero

Black Zero di Andrea Carlo Cappi

Il primo investigatore afro-europeo picaresco, duro e ironico.

Non lavora per la polizia e non è neppure legalmente un investigatore privato.

Sullo sfondo, l’isola di Maiorca come non l’avete mai vista.

Precario, disoccupato, buttafuori e infine detective privato senza licenza, Toni Black è nero, è un duro e vive a Maiorca.

Emulo degli eroi del cinema blaxploitation, si muove a proprio agio tanto negli alberghi di lusso quanto nei quartieri degli immigrati. Ironico, impegnato, atipico e picaresco, è, nelle parole di Andrea G. Pinketts, «un vero figlio di buona donna che risolve i casi a volte coi cazzotti, a volte col pensiero, a volte persino col sesso… un poliziotto privato che io vi consiglierei di assumere».

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Black Zero:

Magaluf, Maiorca, gennaio 2013

Yo, man. È così che parlano i negri dei film americani, no? Io dico ancora negri perché qui da noi non dovrebbe essere politicamente scorretto: non c’è la differenza che passa tra black (che era figo un po’ di tempo fa), negro (che era figo negli anni Settanta, quando sono nato) e nigger (che non è figo per niente ma, nei film di Tarantino, Samuel L. Jackson lo dice sempre e non s’incazza nessuno; anche perché di solito, dopo averglielo detto, Samuel L. Jackson gli spara.)

In Spagna si dice negro.

In Catalogna si dice negre.

Qui a Maiorca non so come si dica perché nessuno ha il coraggio di farlo in mia presenza.

Non mi sono ancora presentato.

Io sono maiorchino, mi chiamo Toni. Toni Porcell.

Niente battute, grazie.

Sono alto un metro e ottanta e potrei spaccare una noce di cocco con una sola mano. Però qui non ci sono noci di cocco, solo teste di cazzo, e purtroppo ci dev’essere qualche stupida legge promulgata da Isabella di Castiglia o Filippo II, secondo cui non puoi spaccare una testa di cazzo con una o più mani.

Specie se sei un negro.

Io sono un negro. Non vi so dire perché, dovreste chiederlo a mia madre. Ma vi risparmio la fatica: erano gli anni Settanta e su quest’isola erano arrivati il turismo di massa, la democrazia e la libertà sessuale. La ragazze, qui, se ne scopavano uno diverso ogni sera. A un certo punto della mia vita gliel’ho pure chiesto, a mia madre. Lei continuava a sostenere che quella notte il negro se l’era fatto la sua amica Marga. Ma forse questo è ciò che era successo prima del terzo o quarto whisky & coca-cola. Poi lei e la sua amica Marga devono avere perso il conto dei drink e degli spermatozoi.

Be’, io ne sono la prova vivente. Sono negro.

Però qui non sono discriminato. Dato che sono nato e cresciuto sull’isola, in casa parlavo il maiorchino, a scuola ho studiato il catalano e con la gente normale ho sempre disquisito in castigliano (che è quello che in tutto il mondo è lo spagnolo, ma da queste parti è politicamente scorretto chiamarlo così).

Qui non si fanno discriminazioni di razza, anche per certi impieghi di interesse pubblico. Puoi trovarne pure se sei un immigrato ecuadoriano, nicaraguense, venezuelano… L’unica conditio sine qua non è che parli il catalano. Che ovviamente, se sei ecuadoriano, nicaraguense, venezuelano, non hai studiato a scuola.

Brillante, nevvero?

Il catalano è importantissimo, in un posto in cui la popolazione locale parla il maiorchino (che si è originato dal catalano, ma si è evoluto per proprio conto negli ultimi sette secoli e non è più la stessa lingua) e/o il castigliano; e i turisti, che sono quelli che danno da mangiare a quest’isola, parlano inglese, tedesco, italiano, francese, russo, svedese, norvegese, olandese… Non c’è un cazzo di nessuno a Maiorca che parli il catalano-catalano, tranne i catalani-catalani, che però parlano anche il castigliano (anche se a volte fanno finta di non saperlo, giusto per fare gli stronzi).

Io in ogni caso il catalano l’ho studiato a scuola, quindi ho potuto assumere l’elevata qualifica di puliscicessi nel nuovo ospedale, dove per l’assunzione è richiesta la perfetta padronanza di tale lingua.

La domenica, però, non pulisco i cessi.

La domenica mi metto a prendere il sole sulla spiaggia di Magaluf.

Okay, sono negro, ma se mi ci metto posso diventare più negro.

Devo ammettere che non sono così colto come vorrei sembrare. Ieri il mio tentativo di leggere l’opera del signor Proust in lingua originale si è arenato dopo le prime righe. Sicché mi sono messo nella posizione del loto e mi sono concentrato su un esperimento scientifico a cui mi sto dedicando da alcune settimane. Un esperimento di telepatia. Mi concentro su Desirée, la ragazza che dà le notizie sportive al TeleDiario, e le invio il seguente messaggio: Sposami, sposami, sposami

Invio un messaggio molto semplice – di una sola parola – perché non sono sicuro di avere ancora padronanza dei miei presunti superpoteri. Dato che sarebbe difficile trasmetterle telepaticamente il mio numero di telefono, la mia unica speranza è che, per rispondermi, nel bel mezzo delle notizie sulla prossima superpartita Barça-Real Madrid la signorina Desirée alzi i suoi occhioni luminosi verso la telecamera, sorrida con tutti i suoi trentasei denti (non può averne solo trentadue come i normali esseri umani) e dica qualcosa che solo io posso capire. Tipo: «Sì!» Be’, sarebbe anche meglio: «Sarò tua per le nostre prossime sette reincarnazioni», ma io sono un tipo che si accontenta.

Carpe diem, come si suol dire.

Orbene, ero seduto nella posizione del loto, impegnato nel mio esperimento telepatico, quando uno stronzetto ha cominciato a disturbare la mia concentrazione. Non tanto lui, quanto i suoi due cani. Di razza. Non chiedetemi quale, non sono razzista. Due stupidi cagnolini con il muso come se si fossero scontrati con il tram che travolse Antoni Gaudì, ma purtroppo il corpo del celebre architetto ha fermato le ruote e loro sono stati risparmiati.

Ho aperto un occhio e ho guardato il tipo che stava davanti a me sul lungomare. Lanciava una palla da tennis e uno dei due cani correva a prenderla, per tornare poi indietro a scapicollo rantolando come una vecchia vaporiera; l’altro invece faceva finta di scattare alla rincorsa, poi si dedicava alla sua attività preferita di pisciare contro il muretto. Così per mezz’ora, con il tipo che correva avanti e indietro, i rantoli della vecchia vaporiera e il sibilo urinario. Difficile far pervenire un messaggio telepatico fino a Madrid, in queste condizioni. Secondo me non sono riuscito a farlo arrivare oltre due o tre miglia dalla costa. Qualche vecchia signora su una di quelle grosse navi da crociera avrà avuto un improvviso e immeritato turbamento.

Finalmente lo stronzetto e le sue bestiacce si sono levate di torno. Ma non per molto, tipo una mezz’ora. Nel frattempo sul lungomare mi erano passati davanti, facendomi ombra, nell’ordine: due vecchie signore inglesi che parlavano del tè; due anziani signori scandinavi che sembravano impegnati in una spedizione sul pack (peccato che ci fossero venticinque gradi); un tipo in tuta nera che ascoltava in cuffia un raï niente male; una coppia di pensionati spagnoli che si lamentava di Zapatero; una coppia di pensionati spagnoli che si lamentava di Rajoy (siamo fuori stagione e ci sono gli sconti per la terza età, indipendentemente dalle opinioni politiche); due signori italiani che si lamentavano di un certo Monti, che a me risulta essere in effetti un poeta minore dell’Ottocento (dev’essere che in Italia l’istruzione media è molto superiore che altrove).

Poi a un certo punto è apparsa un’ombra più persistente delle altre, con un’altra ombra accanto. «Parli spagnolo?» mi ha chiesto l’ombra numero uno.

Ho aperto un occhio. L’ombra numero uno era il tipo dei cani, ma senza cani. Ho aperto l’altro occhio. L’ombra numero due aveva l’aria di essere la fidanzata dell’ombra numero uno. Molto meglio dei cani. Magrina, capelli lisci castano scuro, belle tette sotto il maglione. Forse anche gli occhi erano belli, ma erano nascosti dietro un paio di Ray-Ban.

Perché uno deve portare a spasso due stupidi cani – anche se vittime dello scontro con un tram, povere bestie – quando può portarsi a spasso una fighetta simile? Io certe cose non le capisco.

In ogni caso, qualcosa cominciava a smuoversi nel mio costume da bagno. Sapete quello che si dice di noi negri, no? Be’, è tutto vero.

Volevo rispondere Net, spasibo a lui e Voulez vous coucher avec moi a lei. Invece ho risposto, stupidamente: «Sì».

È venuto fuori che il tipo, tra una palla e l’altra, a un certo punto aveva telefonato alla fidanzata per chiederle quando arrivava. Poi aveva appoggiato il cellulare sul muretto del bar El Ultimo Paraiso, venti metri più in là. Poi aveva ricominciato a tirare la palla ai cani. Poi è tornato nel suo appartamentino fighetto dove probabilmente si è scopato la sua fidanzatina fighetta. Non deve averci messo molto. Dopodiché si è reso conto che non gli erano arrivate le ultime notizie sportive sul suo iPhone del cazzo (perché uno vorrebbe ricevere le notizie sportive sull’iPhone quando può guardare Desirée su TVE1? Io certe cose non le capisco.) E si è pure reso conto che aveva lasciato il suo iPhone del cazzo sul muretto in spiaggia. E quando è tornato – indovinate un po’ – il suo iPhone del cazzo non c’era più. Io però ero ancora lì.

«Devo chiamare la Guardia Civil», ha detto il tipo alla sua donna, per far vedere che è un uomo risoluto.

Lei ha passato il proprio iPhone (del cazzo) al suo uomo, per far vedere che è una donna risoluta.

Io ho pensato che forse lui doveva addestrare i suoi stupidi cani a riportagli l’iPhone (del cazzo), invece che la palla.

La pattuglia della Guardia Civil è arrivata in macchina sulla spiaggia dopo una decina di minuti. Hanno guardato nel mio zaino, trovando nell’ordine:

-un paio di calzini sudaticci

-un paio di pantaloni sudaticci con in tasca un fazzoletto di carta ben impregnato di muco nasale

-una canottiera sudaticcia con sopra scritto Mallorca

una felpa sudaticcia con sopra scritto niente

-una confezione aperta di sigari Don Julián

-un accendino

-un cellulare sfigatissimo da venti euro

-un portafogli con i documenti e una singola banconota da cinque euro

-una copia pressoché intonsa del volume Du coté de chez Swann.

Hanno controllato tutto. Poi lo sbirro che aveva perquisito il mio zaino ha abbassato lo sguardo. Addosso avevo solo un paio di scarpe di corda con alluce a vista e il costume da bagno. E c’era ancora la fighetta intorno.

Sapete che cosa si dice di noi negri. È tutto vero.

Io ho guardato lo sbirro in verde con una faccia che voleva dire: Non ci pensare nemmeno.

Lo sbirro in verde mi ha guardato con una faccia che voleva dire: Non mi passa neanche per l’anticamera del cervello.

La perquisizione è finita lì. Però mi hanno tenuto per un’altra ora per farmi domande. Sono un negro, ergo sono un tipo sospetto. Mi hanno preso nome, indirizzo e numero di telefono. Poi hanno chiesto il numero allo stronzetto e, visto che non aveva più il suo iPhone (del cazzo) lui ha dovuto dare il numero dell’iPhone (del cazzo) della sua fighetta.

Questo era ieri.

Oggi sono stato convocato alla caserma della Guardia Civil. Ci sono andato (a piedi) dopo essere tornato dal lavoro (in autobus) e mi ci hanno tenuto per due ore di inutile interrogatorio. Alla fine, abbiamo chiarito che

a) il tipo è davvero una testa di cazzo

b) la sua fidanzata è veramente figa

c) l’iPhone del cazzo non l’ho rubato io

d) ci vediamo a El Ultimo Paraiso, ragazzi.

Be’, lo stronzetto mi ha davvero rotto i coglioni. In ogni caso, ho una memoria di ferro. Il numero di telefono della fighetta me lo ricordavo ancora. Ci siamo visti stasera. E lei si ricorderà ancora di me, a lungo.

Sapete quello che si dice di noi negri, no? Be’, secondo me sono tutte palle. L’iPhuk ce l’ho solo io.

La donna della mia vita
(della settimana)

Magaluf, Maiorca, dicembre 2013

Erano le dieci di una domenica mattina e mi ero appena seduto in costume da bagno su uno scoglio, nell’insenatura in fondo alla baia. Non m’importava che fosse quasi Natale: al sole c’erano più di venti gradi, anche se in questa stagione non entrerei in acqua nemmeno dietro compenso.

Be’, dietro compenso sì.

In ogni caso, da qualche mese la spiaggia per me è diventata un lusso. In ospedale i turni di lavoro si sono moltiplicati. Di questo passo presto arriverò alle centosessantotto ore settimanali. E qualcuno mi rimprovererà perché non riesco a raggiungere le centottanta.

Il direttore del personale mi ha spiegato che c’è troppo da fare, ma non può assumere altri dipendenti per via della crisi globale. Quindi, se non voglio rientrare nei prossimi tagli dello staff, mi devo adeguare. Me lo ha spiegato in catalano. Così ho capito anche come mai per questo posto di lavoro sia obbligatoria la conoscenza del catalano.

Ma una volta tanto – sarà che Natale era vicino – mi sono state concesse due domeniche libere consecutive. Così quella mattina avevo messo nello zaino Doctor Faustus di Thomas Mann e fatto due passi fino in fondo alla baia di Magaluf, dove c’è una piccola insenatura tranquilla e solitaria. Volevo evitare i soliti problemi con la Guardia Civil, che ogni volta che mi vede mi ferma per controllare i documenti.

In questo angolo, d’estate ci viene poca gente e d’inverno non si vede nessuno, sicché è l’ideale per leggere in pace. Tempo fa l’ho battezzata la Spiaggia delle Norvegesi Nude, perché una volta ci ho trovato un gruppo di ragazze norvegesi. Nude. Ma in quello che sto per raccontarvi non ci sono norvegesi nude, quindi se era questo che speravate di sentire, spiacente di deludervi.

Sto cominciando a pensare che la mia necessità di scaldarmi al sole in prossimità dell’acqua abbia a che fare con qualche reminiscenza amniotica. Il desiderio di rientrare nell’utero (Di chiunque, come diceva Woody Allen). Orbene, pochi minuti prima, mentre mi dirigevo verso l’insenatura passando davanti ai bar chiusi per l’inverno, riflettevo su una profonda questione filosofica.

Le donne.

Non potevo non notare il vuoto affettivo nella mia vita. Non era dovuto solo al fatto che da settembre Desirée non appariva più al TeleDiario di TVE1, togliendomi ogni interesse riguardo alle notizie sportive. Il senso di vuoto era legato all’assenza di donne nella mia vita. Soprattutto della donna della mia vita.

Intendiamoci, in genere le ragazze non mi mancano: essere un nero poco più che trentenne, alto un metro e ottanta e dotato – modestamente – di un fisico scolpito nella roccia, conferisce più privilegi di una carta di credito. Ma non è una garanzia di relazioni a lungo termine.

A differenza della carta di credito.

D’estate Magaluf è un caos di folla in cerca di divertimento, una capitale delle vacanze invasa da legioni di ragazze. Ma, con i nuovi turni di lavoro in ospedale, per tutto quest’anno mi è rimasto appena il tempo di dormire e non ho potuto mietere le floride messi.

D’inverno invece la zona è pressoché deserta. Alberghi, ristoranti e bar, salvo rare eccezioni, sono chiusi da fine ottobre ad aprile avanzato. Un tempo, quando le regole del turismo erano diverse, la macchina funzionava per dodici mesi all’anno. Ma ora, soprattutto con l’avvento della crisi globale (sempre lei), d’inverno Magaluf sembra lo scenario di un film di zombie, ma senza gli zombie. Per trovare compagnia avrei dovuto andare in città, a Palma, e frequentare locali al di sopra del mio livello economico. Dove peraltro non avrei trovato quello che cercavo.

Ma cosa cercavo, esattamente?

Mentre tiravo fuori dallo zaino il pacchetto di Don Julián, cominciai a ragionare sulle categorie di donne con cui non sono riuscito ad avere una relazione solida, o alcuna relazione:

-sicuramente, quelle che tengono in casa animali domestici di vario genere: cani, gatti, fidanzati, mariti

-quelle che si comportano come se fossero mia madre (grazie, ne ho già una, e anche lei ne ha una, di troppo)

-quelle che vivono in perenne simbiosi con il loro iPhone (del cazzo)

-quelle che indossano scarpe a punta (non ho capito perché, ma ho constatato con l’esperienza che bisogna diffidarne)

-quelle che…

Ero convinto che su quest’angolo di spiaggia d’inverno non ci venisse nessuno, ma stavo per essere smentito. Qualcuno si stava avvicinando dall’alto.

Mi voltai e vidi una giovane donna che stava cercando con una certa difficoltà di scendere sugli scogli. L’operazione era complicata dal fatto che teneva in una mano un paio di scarpe, nell’altra una bottiglia di cava Freixenet Cordón Negro e a tracolla una borsetta che ondeggiava a destra e a sinistra mentre lei si sforzava di mantenere l’equilibrio.

Prima che la ragazza o la bottiglia subissero danni irreparabili, andai ad aiutarla. Quando lei fu più o meno stabile sulla ghiaia, mi disse «Grazie», in spagnolo ma con uno strano accento, e mi porse la bottiglia, che dal peso sembrava quasi piena.

Come rifiutare?

Bevvi un sorso al porrón, senza toccare la bottiglia con le labbra, mentre lei si sedeva su un lato della mia roccia. Mi tese le mani: la sinistra per riprendere la bottiglia e la destra per stringere la mia. «Dagma», si presentò.

«Toni», risposi.

Bevve un lungo sorso di cava, per fortuna non al porrón, altrimenti non credo che avrebbe centrato la bocca. La osservai. Capelli scuri, grandi occhi verdi con sopracciglia marcate, un sorriso simpatico. Camicetta argentata, con i bottoni aperti fin poco sopra l’ombelico e un ampio scorcio su quello che nei romanzi si definisce un seno generoso e nel mondo reale un gran bel paio di tette. Belle gambe, a giudicare dalla sagoma dei pantaloni neri attillati, e piedi candidi dalle unghie smaltate di nero, come quelle delle mani. Altezza sul metro e settantacinque. Tasso alcolico molto al di sopra.

Non aveva un iPhone (del cazzo) in mano.

Non aveva animali domestici al seguito.

Le scarpe erano senza punta.

Nel complesso, sembrava la risposta alle preghiere che non avevo nemmeno avuto il tempo di formulare. Era prematuro stabilire che potesse essere lei la donna della mia vita, ma di sicuro era qualcosa di più di una playmate del mese.

«Vieni qui spesso?» le domandai.

«Prima volta.» Si guardò intorno. «È Magaluf, questa?» L’accento pareva russo.

Annuii.

Lei si guardò intorno. «È tutto chiuso. Ho fatto bene a portare questa.» Bevve un altro sorso, poi mi porse la bottiglia.

La imitai, poi le chiesi: «Vieni da una festa?»

«Sono scappata da una festa», precisò. «E da un uomo. Di merda.» Mi guardò. «Tu non sei un uomo di merda, vero, Toni?»

Be’, di incrostazioni di sterco ne vedo così tanto nel mio delicato incarico di pulitore di cessi ospedalieri da non identificarmici nella vita. «Direi di no.»

«Bene.» Riprese il controllo della bottiglia. Tra un sorso e l’altro, proseguì. «Devo prendere una decisione. Potrei mettermi a posto per sempre. Ma dovrei stare con un uomo di merda.»

«In che senso? Ti tratta male? Ti tradisce?»

«No, non mi tratta male. Per niente. E non è me che tradisce. Voglio dire… tradisce sua moglie con me.»

«Ah.»

«Lui ha preso la sua decisione. Ora devo prenderne una io, anche se non me l’ha chiesto. Si aspetta che dica di sì. È abituato a vincere. Sempre. È un vincitore di merda.»

«Ma tu non te la senti di dire di sì», tirai a indovinare.

«Hai ragione.» Un altro sorso. Lungo.

Suonò un cellulare. Non era il mio.

Dagma frugò nella borsa, tirò fuori uno smartphone e guardò il display. «Antonio…», mormorò con rassegnazione.

Attese qualche altro squillo prima di rispondere.

«Sì… Va bene… No, sono qui sulla spiaggia… Arrivo.»

Si alzò, bevve un ultimo sorso, poi mi consegnò la bottiglia. Era rimasto un po’ di cava sul fondo, non molto.

«Senti», mi disse, «perché non ci rivediamo qui tra una settimana esatta?»

Guarda caso, sarebbe stata la mia seconda domenica libera consecutiva. «Ci sarò», promisi.

Lei mi si avvicinò e mi sfiorò le labbra con un bacio quasi impercettibile. Poi raccolse le scarpe, ma non le indossò prima di essere risalita sugli scogli e tornata sullo stretto sentiero che portava alla spiaggia.

Questo accadeva una settimana fa.

Oggi è di nuovo domenica e stamattina sono tornato nello stesso posto, alla stessa ora.

Non si sa mai.

Ho aspettato. Ma c’eravamo solo io e un cormorano altrettanto solitario, qualche roccia più in là. Poi sono tornato sui miei passi, soffermandomi a cercare di accendere un Don Julián nonostante il vento. In quel momento, da un Terrano bianco e verde che stava pattugliando la spiaggia deserta, sono scesi due della Guardia Civil che mi hanno chiesto i documenti.

Mi è toccato restare in attesa per quaranta minuti, a sigaro spento, perché dalla centrale gli confermassero che non ero Lee Harvey Oswald, Charles Manson o il Mostro della Laguna Nera. C’è troppa rotazione tra il personale della Benemérita da queste parti, perché con tutte le volte che mi hanno fermato ormai dovrebbero saperlo tutti che mi chiamo Antonio Toni Porcell e non ho fatto niente di male a nessuno.

Curioso che ci sia chi nasce con una faccia e un colore sospetti, e chi invece rimane insospettabile per tutta la vita, libero di fare quello che gli passa per la testa.

Per esempio, stasera dal TeleDiario apprendo che nessuno ha mai sospettato di un politico locale, un tipo che si chiama Antonio, come me. Invece avrebbero fatto meglio a tenerlo d’occhio.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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