Nightshade: Dossier Contreras

Nightshade: Dossier Contreras di Andrea Carlo Cappi

Lei è la donna che preme il grilletto.

Qualcuno muore e la storia del mondo prende un altro corso.

In attesa di un nuova missione, Mercy Contreras ripercorre gli eventi e le persone che hanno fatto di lei la contractor che la CIA conosce come Nightshade, le trame che hanno circondato la sua nascita, l’iniziazione al mondo delle spie, fino ai primi rischiosi incarichi per la Sezione D.

I segreti mai rivelati sinora, un viaggio nella memoria in undici thriller dalla vigilia della Seconda Guerra Mondiale all’indomani del 9/11.

Perché il futuro è contenuto nel passato.

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Nightshade: Dossier Contreras:

Preludio

Miami Beach, Florida, aprile 2003

La spiaggia era immensa, rispetto al panorama che Mercy Contreras aveva avuto ogni giorno sotto gli occhi per i primi tre quarti della sua vita.  Malgrado si ritenesse una donna libera da ormai sette anni, non si era ancora abituata all’idea di tutto quello spazio.

Era nata in Spagna, ma fino al 1996 tutto il suo mondo era consistito in un’isoletta privata nell’arcipelago dei Cayos Cochinos, in Honduras: il centro di addestramento per i guerriglieri finanziato dalla CIA negli anni Settanta e tuttora gestito da suo padre, Eduardo Contreras. Orizzonte ampio, terreno ristretto. Cayo Almirante era così piccola che il suo istruttore di guida Chris Vázquez doveva portarla in motoscafo fino a La Ceiba per farle lezione.

Non c’erano strade sull’isola.

Non c’era niente sull’isola.

Nel tempo il padre le aveva concesso qualche occasionale trasferta in Europa, perché migliorasse la conoscenza e la pratica delle lingue. Ma per il resto Mercy non si muoveva da Cayo Almirante. Quando aveva cercato di andarsene per suo conto, non aveva fatto molta strada. Da un anno e mezzo a quella parte, invece, stava recuperando tutti i viaggi che non avrebbe mai pensato di fare, da un lato e dall’altro dell’Atlantico.

Lavora per la CIA e vedrai il mondo.

Oltre alla vastità degli spazi, c’era un altro aspetto della sua nuova vita che continuava a stupirla: era diventata una spia e un’assassina a contratto, ovvero proprio ciò che voleva suo padre. Solo per ragioni diverse. E, si augurava, anche per obiettivi diversi. Malgrado alcuni drammatici incidenti di percorso, i suoi superiori alla Sezione D sembravano voler andare nella direzione opposta, disfacendo le trame che la CIA e i suoi alleati, compreso Eduardo Contreras, avevano tessuto per decenni.

L’ultimo incarico, appena concluso, ne era un esempio: il rapimento di un uomo che aveva dedicato una vita intera alla realizzazione di un progetto spaventoso. Forse non sarebbe mai riuscito nel proprio intento ma, se solo vi si fosse avvicinato, di sicuro i suoi piani avrebbero avuto effetti devastanti sulla politica americana e sull’equilibrio globale.

Ora quell’uomo si trovava in un black site della CIA, dove avrebbe trascorso il resto della sua vita a confessare oscuri giochi di potere e complicità inammissibili. Come storia di copertura, la Sezione D avrebbe lasciato trapelare opportune notizie false su un ricovero in una clinica privata ed esclusiva, per plausibili motivi di salute. Menzogne necessarie, per occultare la detenzione a tempo indeterminato, senza processo né assistenza legale, di un cittadino statunitense sequestrato sul territorio nazionale.

La violazione di ogni regola di un paese democratico.

Esisteva d’altra parte un modo lecito per combattere chi aveva così tanto potere da porsi al di sopra della legge?

Mercy lo ignorava. Sapeva solo che questo era il mestiere che le era stato insegnato. L’unico dettaglio che differenziava Nightshade da una terrorista era che lei riteneva di combattere dalla parte dei giusti.

Ma non era in fondo ciò che pensava di sé qualsiasi terrorista?

Era una bella giornata, con una temperatura sui venticinque gradi, e prendere il sole in spiaggia non era incompatibile con le riflessioni sul proprio destino. Sì, era divenuta ciò che suo padre aveva fatto di lei, ma dalla parte opposta della barricata rispetto a lui.

Era questo il senso di ciò che le avevano raccontato Jorge e Paco anni prima. Molti altri avevano fatto la sua stessa scelta: combattere anziché subire, ribellarsi invece di accettare, agire nell’ombra anziché dichiararsi sconfitti. Valeva per Miquel Torrent come per Catherine Torres o Caridad González..

Mercy rammentava la prima volta che aveva incontrato François Torrent. Per lei quella sera Jorge e lui erano diventati, più che amici, due parenti acquisiti. Molto più del padre che l’aveva tenuta prigioniera o della madre, che suo malgrado era rimasta lontana. Una famiglia, seppure senza legami di sangue.

In fondo Nightshade non stava facendo altro che continuarne la tradizione.

Prologo

Fronte aragonese, 27 marzo 1937

Era tutto sbagliato.

Non avrebbe dovuto allontanarsi dalla sua compagnia, ma doveva farlo: era la sua missione. Non avrebbe dovuto farsi colpire da un proiettile… di un italiano, di un fascista, ne era certo. Il Duce ha sempre ragione, ma le camicie nere possono sbagliare.

E poi, che cosa ci faceva lui al fronte? Perché combattere tra quella gente sporca, disperata e pidocchiosa, in una guerra che non aveva niente a che fare con lui?

Ma gli avevano detto di partire e lui aveva obbedito.

Ora sarebbe morto. Inutilmente.

Non poteva muoversi. Era appoggiato a una roccia inclinata di quarantacinque gradi, come se stesse riprendendo fiato dopo la salita, con il fucile abbandonato tra gli sterpi. Se si fosse mosso, aveva paura che tutte le sue viscere sarebbero traboccate. Quindi non poteva fare altro che aspettare di morire dissanguato.

Era privo di sensi, quando lo trovarono. Non poteva sentire le loro voci, non poteva capire se parlassero italiano, catalano o castigliano. Non poteva sapere se fossero i suoi o il nemico, anche perché in quel momento entrambe le fazioni erano i suoi, entrambe erano il nemico. Non vedeva e non sentiva nulla e nei suoi sogni bui credeva di essere morto.

Il Duce ha sempre ragione, pensò. Il morto ha sempre torto.

1

Barcellona, 3 maggio 1937

Il primo proiettile entrò dalla finestra aperta alle quattro del pomeriggio, con una traiettoria dal basso verso l’alto. Frantumò il vetro, sibilò nell’aria e andò a conficcarsi nel capezzolo sinistro di Venere.

Il dottor Carbonell alzò la testa di scatto e dall’affresco sul soffitto una fine polvere rosa gli cadde in un occhio. Il medico urtò lo scatolone appoggiato sul banco del bar, che rovesciò sul pavimento il suo contenuto di Lucky Strike (dieci pesetas al pacchetto sul mercato nero, però l’inglese stava contrattando per otto pesetas).

«Ma che succede?» chiese il dottore, un ometto magro e stempiato, spostandosi al centro del salone.

L’inglese si chinò a raccogliere i pacchetti da terra.

«State al riparo», consigliò l’uomo con il fucile, accovacciato ai piedi della finestra.

Pochi minuti prima, un camion militare si era fermato davanti a una casa in calle del Conde del Asalto, non lontano da un celebre palazzo di Gaudí. Ne era sceso un folto gruppo di guardie, armate di fucili. Il padrone del negozio al pianterreno, che vendeva cappelli e cravatte come se là fuori non ci fosse una guerra, aveva capito come si stavano mettendo le cose e se l’era filata dall’uscita posteriore.

Di lì a poco, una vecchia Elizalde Tipo 29 nera aveva accostato al marciapiede. Ne era sceso un uomo in borghese, che era andato a parlare alle guardie. Era un volto noto: si chiamava Antonio Velado ed era colui che si occupava degli affari sporchi del PSUC. Aveva tutta l’aria di essere lui a dare gli ordini.

Dopodiché c’era stato quello sparo, forse un colpo di avvertimento.

Il portone del palazzo, pesante e sbarrato, dava su un atrio non molto spazioso, da cui una scala saliva al piano superiore. Sul ballatoio si apriva la doppia porta in stile modernista di Casa Palomita, un piccolo bordello di lusso su due piani requisito dal POUM nell’estate del 1936 e trasformato in convalescenziario.

Il personale era costituito da un medico che passava a visitare i pazienti tutti i pomeriggi – il dottor Carbonell, che nel tempo libero vendeva sigarette di contrabbando – e da un’infermiera, che secondo alcune malelingue lavorava a Casa Palomita anche durante la gestione precedente; ma forse lo dicevano solo perché era molto attraente e non si era mai concessa a nessuno, prima che arrivasse un giovanotto di nome Miquel.

Appena ristabilitosi dalla sua ferita alla gamba destra, Miquel Torrent si era aggiunto al gruppo residente nella casa, per dare una mano di giorno e andare a letto con l’infermiera di notte. I degenti al momento erano quattro: Pau, Andreu, Pedro e un italiano di nome Marco. E poi c’era l’inglese, un certo Miles Harker, che aveva scelto proprio quel pomeriggio per venire a comprare le sigarette dal dottore. Il momento sbagliato.

Miquel, accovacciato accanto alla finestra con il fucile in mano, vide le guardie disporsi davanti al palazzo. «Cristo», mormorò. Stavano facendo sul serio, come qualche ora prima alla Telefónica, controllata dal sindacato anarchico.

«State giù!» gridò Miquel.

Il medico si gettò sul pavimento, l’inglese trovò rifugio dietro il banco del bar. «Ehi», disse, «qui c’è da bere!» Doveva avere trovato la cassa di bottiglie che il dottore aveva recuperato dalla cantina di Casa Palomita.

Un attimo dopo, le guardie scaricarono i fucili sulla facciata del palazzo. Si udì rumore di vetri infranti al piano superiore. Altri proiettili fischiarono nel salone, crivellando il soffitto.

Miquel percepì un tintinnio, quasi coperto dal fragore degli spari. Si voltò e alzò lo sguardo. Il grosso lampadario di cristallo al centro del soffitto doveva essere stato colpito, perché aveva cominciato a ruotare su se stesso, sempre più vorticosamente.

«Dottore, spostati di lì!»

Carbonell, disteso a pancia in giù sul pavimento, si girò giusto in tempo per vedere la struttura in ferro che si staccava dal soffitto e precipitava su di lui. Ci fu un urlo, uno scricchiolio di ossa e una fragorosa esplosione di gocce di cristallo che andavano in frantumi. I proiettili trasparenti schizzarono in tutte le direzioni. Miquel si protesse gli occhi con una mano e la sentì perforata da sottili aghi di vetro.

Poi il silenzio.

Fuori, le guardie avevano smesso di sparare. Ora si sentivano tonfi provenienti dal portone del palazzo. Stavano cercando di abbatterlo.

«Cristo!» Miquel strisciò sul pavimento e si avvicinò al dottore, sepolto sotto il lampadario. Infilò le mani nel groviglio di ferro e vetro e gli tastò il polso.

Lo lasciò andare.

Una voce in cima alle scale. «Che è successo?» Era Marco, l’italiano.

«Il dottore è morto», annunciò Miquel. «Distribuisci i fucili.» Poi si alzò, andò alla scala e salì i gradini, zoppicando.

Marco e l’infermiera stavano consegnando ai ragazzi i fucili e le munizioni che erano rimasti chiusi nell’armadio dall’estate del 1936, quando erano serviti per scacciare i fascisti dalla città.

Andarono tutti alle finestre del secondo piano e aprirono il fuoco, contringendo le guardie a rifugiarsi dietro il camion. La sparatoria durò circa mezz’ora, senza vincitori né vinti. Quando l’eco delle detonazioni si spense, Antonio Velado scosse la testa e risalì sull’automobile.

E le guardie diedero inizio all’assedio.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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