Nightshade: Progetto Lovelace

Nightshade – La serie – di Andrea Carlo Cappi –

2003: mentre nel Golfo scoppia la guerra, Mercy Contreras, la contractor che la CIA conosce come Nightshade, è in missione a Barcellona. Ma qualcuno vuole precederla, per coprire un segreto inconfessabile che risale all’Olocausto. Mercy deve portarlo alla luce, viaggiando tra Mosca, Lisbona e Londra, mettendo in gioco la vita e i sentimenti. D’altra parte la posta è più alta di quanto lei possa immaginare e arriva fino alle stanze del potere di Washington DC.

Ballerina, spia, assassina, guerriera.
Mercy Contreras è cresciuta con il padre in un centro di addestramento in Honduras, dove è diventata esperta di kali escrima e tecniche dei corpi d’élite. Tornata nella città natale, Siviglia, ha ripercorso i passi della madre, diventando una ballerina di flamenco, in cerca di una vita normale. Ma non si sfugge al passato: assunta come contractor dalla CIA dopo l’11 settembre, sotto il nome in codice Nightshade, Mercy si trova ben presto al centro di un gioco che aveva cercato di evitare, in cui regole, alleati e avversari cambiano ogni minuto.
Solo una donna per natura ribelle e combattiva come lei può affrontare trame, intrighi e giochi di potere dei nostri tempi. Torna in cartaceo e e-book la serie thriller che appassiona lettrici e lettori ininterrottamente dal 2002: la storia segreta del XXI secolo vissuta da un’eroina senza precedenti.

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Nightshade: Progetto Lovelace

Prologo

Barcellona, Spagna, 19 marzo 2003

L’Alfa 156 dipinta di giallo e nero, i colori dei taxi di Barcellona, si fermò di fronte all’ingresso dell’Hotel St. Moritz. Il cliente stava già uscendo dalla porta: un uomo sui trent’anni, di bell’aspetto, con occhi chiari e capelli tra il castano e il biondo. Indossava un cappotto scuro e portava con sé una valigetta. Occupò il sedile posteriore con un cortese: «Buenos dias.»Gli occhi verdi della taxista intercettarono il suo sguardo nello specchietto retrovisore. «Buenos dias», rispose.
Il cliente si appoggiò allo schienale.
«All’aeroporto.» Parlava spagnolo con un lieve accento russo.
«Subito, signore», disse la giovane donna, azionando il tassametro. Una piccola svista: in realtà avrebbe dovuto avviarlo al momento della chiamata. Ma forse lui, distratto dalla folta chioma di capelli rossi della taxista, non ci avrebbe fatto troppo caso.
Il passeggero sembrò perdersi nei propri pensieri. O forse cercava di ascoltare la radio che, sommessamente, ronzava le ultime notizie dal Medio Oriente. Malgrado fosse in atto una tempesta di sabbia, le truppe angloamericane si stavano raccogliendo in Kuwait, sul confine iraqeno, pronte all’attacco.
Era un lavoro semplice, quasi elementare. Non si poteva nemmeno definire un lavoro. Si trattava solamente di ritirare il cliente davanti all’hotel e depositarlo a una destinazione prefissata. Se il passeggero avesse fatto storie, lei gli avrebbe sparato con una pistola ad aria compressa, caricata con un piccolo dardo narcotizzante, già pronta sotto il sedile. Poi la sua parte sarebbe finita: per quanto la riguardava, avrebbe potuto parcheggiare e tornarsene a casa…
Sentiva già gli occhi del cliente su di sé. Non che lui potesse vedere molto, da dove si trovava, ma a volte intravedere era più eccitante. Un uomo d’affari russo, con qualche ora libera prima di prendere l’aereo e una taxista sexy che lo portava a El Prat. C’era da scommettere che ci avrebbe fatto un pensierino. Lei lo soppesò: in effetti il russo non era male. Era piuttosto giovane, in buona forma fisica, decisamente attraente.
Solo che lei non era il tipo.
Lui non era l’uomo adatto.
E quello non era il caso.
Quando imboccò Corts Catalanes, la donna notò che qualcosa non andava. C’era un grosso veicolo, un furgone Mercedes, che li seguiva. Niente di strano, trattandosi di un’arteria fondamentale, una delle grandi strade che tagliavano la città da un capo all’altro. Il taxi rallentò e si lasciò superare. Sulla fiancata del furgone si leggeva FERRETERÍA FORNÉS – SITGES.
In effetti Sitges era in quella direzione. Ma dopo qualche minuto il furgone era nuovamente dietro l’Alfa. La donna al volante valutò l’opportunità di parlarne ai suoi compagni attraverso il microfono sul cruscotto. Erano diversi minuti che non sentiva più le loro comunicazioni dal minuscolo auricolare nell’orecchio destro: probabilmente era fuori portata. In ogni caso rischiava di mettere in allarme il cliente, che avrebbe potuto insospettirsi e cercare di scendere; si sarebbe preoccupato ancora di più scoprendo che le portiere di quell’Alfa 156 si aprivano dall’esterno ma non dall’interno.
A un semaforo, il furgone si affiancò di nuovo. La taxista colse un movimento sospetto nella cabina di guida. Il portellone laterale scorse all’indietro e tre uomini puntarono sull’Alfa le canne silenziate dei loro mitragliatori.
Mercy premette a fondo l’acceleratore. «Eso me encanta», mormorò, mentre una raffica investiva il lunotto posteriore.

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1

Siviglia, Spagna, quattro mesi prima:
12 dicembre 2002

La Colombiana si trovava nel cuore del Barrio de Santa Cruz, un quartiere non meno tipico del celebre Barrio de Triana, ma decisamente meno povero e desolato. Come molti altri della zona, il locale era stato restaurato di recente, senza toccare tuttavia l’arredamento di legno in stile floreale, le pareti coperte di caratteristiche piastrelle in ceramica, le vecchie fotografie in bianco e nero, quasi tutte degli anni Cinquanta e Sessanta, che ritraevano star del cinema e toreri famosi seduti ai tavolini.
Il locale aveva una sua storia. Prendeva il nome da una delle numerose varianti del flamenco che aveva seguito gli spagnoli emigrati nel Nuovo Mondo ed era tornato in patria arricchito di sfumature esotiche. La scelta non era casuale: La Colombiana era stato aperto nel 1920 da un sivigliano tornato ricco dal Sudamerica.
Un destino analogo era capitato all’attuale proprietaria, Mercedes Contreras Torres. Sua madre, una nota bailaora di nome Valeriana Torres, aveva acquistato il locale al principio degli anni Settanta, pochi anni prima che il marito, Eduardo Contreras, la lasciasse. Il padre di Mercedes, oscuro personaggio legato alla polizia segreta franchista, si era trasferito in Honduras nel 1975, portando con sé la figlia appena nata. La ragazza era tornata a Siviglia nel 1996, per prendere le redini del locale dopo la scomparsa prematura della madre. A gestire ad interim il locale prima del suo arrivo era stato Jorge Romero, detto El Rey, che di Valeriana Torres era stato il compagno non ufficiale dopo la separazione da Contreras.
Ora La Colombiana era di nuovo tra i più rinomati della città. Apriva al pomeriggio come un normale bar, mentre alla sera si trasformava in un autentico tablao flamenco, in cui si esibivano alcune delle stelle più celebri della scena spagnola e, occasionalmente, la stessa proprietaria. Mercedes Contreras aveva ereditato il talento istintivo della madre e, consigliata da El Rey, lo aveva raffinato studiando con i migliori artisti del campo, da Antonio Canales a Belén Maya.
Alle cinque del pomeriggio il locale era a disposizione di eventuali turisti assetati, ma ancora deserto. Al bar, come sempre, c’era Sandra, una ragazza con i capelli nerissimi e cortissimi e due grandi orecchini a cerchio. Gli altoparlanti riempivano l’aria di una vecchia sevillana cantata da Los Hermanos Reyes, Y se amaron dos caballos. La proprietaria era al piano di sotto, a esercitarsi nella sua saletta privata.
I campanelli sopra la porta tintinnarono quando tre uomini entrarono nel locale. Sandra esibì un sorriso di circostanza, guardando i nuovi arrivati. Non erano turisti.
Quello in testa al gruppo era sui quarantacinque anni, vestito con eleganza: giacca, gilet e pantaloni scuri a righe sottili grigie, capelli brizzolati pettinati all’indietro con la brillantina, foulard al collo e un bastone con un pomo d’acciaio e la punta usurata. Un abbigliamento da flamenquero. Dietro di lui venivano invece due individui poco rassicuranti: un giovane spagnolo dai capelli lunghi e un altrettanto giovane orientale. I due ragazzi indossavano una T-shirt nera su pantaloni neri e giacche di pelle nera. Quasi una divisa.
Sandra ebbe un brutto presentimento.
Il giovane orientale si guardò intorno, come per sincerarsi che nella sala non ci fosse nessun altro a parte loro. Poi richiuse la porta alle proprie spalle, tirò il catenaccio e rovesciò il cartellino appeso a una ventosa: da abierto a cerrado.
Sandra cominciava a temere il peggio.
«Hola», cominciò l’uomo con il foulard. «Tu sei Sandra, non è vero?»
«Sono io.»
I due accompagnatori si disposero ai lati di quello che era evidentemente il capo del gruppo. Sandra li aveva già visti in giro: il giovane spagnolo era noto per essere un piccolo malavitoso di Triana, un matón in vendita al miglior offerente; il chino insegnava in una palestra di arti marziali sull’Avenida Menéndez Pelayo ed era noto per avere fatto alcuni lavoretti per conto di qualche boss sull’altro lato del Guadalquivír.
«Sei la moglie di Estéban, non è vero?» indagò ulteriormente il capo del gruppo.
La ragazza annuì.
«Io sono El Lobo.»
Sandra trattenne il respiro per qualche secondo. El Lobo… lo strozzino di Calle de la Judería. La ragazza ne aveva sentito parlare dal marito, ma non lo immaginava come un personaggio da spettacolo di flamenco anni Cinquanta.
«Che cosa vuole?» gli chiese lei, tentando di simulare noncuranza. Era stato un errore ammettere di essere Sandra, la moglie di Estéban Cardenal, l’uomo che aveva debiti vertiginosi nei confronti di El Lobo.
«È un po’ che tuo marito non si fa vedere», le comunicò lo strozzino.
La ragazza non gli rispose. Estéban aveva tagliato la corda da diversi mesi, rifugiandosi nel paese natale in Estremadura, proprio per evitare di pagare i conti in sospeso con El Lobo. Ma Sandra non poteva lasciare la città: era lei l’unica in famiglia ad avere un lavoro fisso.
«Ti ricordi che tuo marito ha un debito con me? Sono trentamila euro.»
Lei si accigliò e fece un rapido conto mentale. «Un momento: erano tre milioni e mezzo di pesetas…» Molto meno di trentamila euro.
«Gli interessi», le fece presente El Lobo. «L’inflazione. Io sono un uomo d’affari, guapita, non un’associazione benefica.»
Sandra maledisse due volte il marito: primo, per essersi messo nei guai con El Lobo e, secondo, per averla lasciata a fare i conti con lui e i suoi gorilla.
«Non hai niente da dire? Per esempio, dove sono i miei trentamila euro? O dov’è quel cabrón di tuo marito?» A vista, El Lobo sembrava sperare che lei gli rispondesse di no. Si sarebbe divertito di più. La ragazza non aveva difficoltà a immaginare che cosa la aspettasse. Le bastava guardare il sogghigno dei due gorilla.
«Allora, guapita?» insistette El Lobo.
Il pomo d’acciaio del suo bastone saettò nell’aria, fracassando il vetro della cornice a lui più vicina. La fotografia, che ritraeva l’attore Roger Moore insieme al torero El Cordobés negli anni Sessanta, cadde a terra. A quel segnale, il cinese diede un calcio all’albero di Natale che lampeggiava in un angolo, vicino all’ingresso. L’albero rimase obliquo, in equilibrio precario, trattenuto dal filo elettrico collegato a una presa di corrente. Intanto l’altro gorilla afferrava una sedia e l’abbatteva con violenza su un tavolino, fracassandone il piano di ceramica.
Al piano inferiore, la proprietaria del locale si immobilizzò nel mezzo della sua coreografia. Si avvicinò all’impianto stereo, su cui stava suonando una bulería, e abbassò il volume. Poi aprì la porta e ascoltò. Le era parso di sentire rumori al piano di sopra.
Ora si sentiva solo il cd di sevillanas attraverso gli altoparlanti.
Mercedes Contreras attivò uno dei suoi monitor. Una videocamera, sempre attiva al piano di sopra, le permetteva di seguire tutto quello che avveniva nel locale. Nell’inquadratura del grandangolare si vedevano tre uomini, nessuno dei quali le era noto. Mercedes represse il desiderio di accendersi una sigaretta e rimase a guardare. Era possibile che si rendesse necessario il suo intervento.
El Lobo si avvicinò al banco. «Allora?» ripeté.
Il bastone saettò di nuovo. Sandra fece appena in tempo a ripararsi dietro il banco, mentre una decina di bottiglie si trasformava in una pioggia di frantumi e alcool.
Spuntando cautamente dal suo rifugio, la ragazza supplicò: «Per favore, non fatemi perdere il lavoro. Altrimenti come faccio a ripagarvi?»
«I miei amici Pepe e Hua avrebbero qualche idea.» El Lobo tirò una sedia verso di sé e si accomodò. «Mi piacciono i live show. Li ho sempre trovati molto eccitanti. Mi fanno sempre venire voglia di… partecipare.»
«Non vi avvicinate!» minacciò Sandra, spuntando da dietro il banco. Teneva in mano il collo spezzato di una bottiglia di Anís del Mono. Etichetta verde, anice secco.
El Lobo sorrise. «Attenta, guapita, ti potresti tagliare.» Pregustò il sapore di sangue e anice. Fece un cenno ai due gorilla, che avanzarono verso la ragazza.
Senza che Sandra avesse il tempo di reagire, Hua le bloccò il polso della mano che stringeva il collo di bottiglia, costringendola a lasciarlo cadere sul banco. E intanto Pepe la afferrava per le ascelle sollevandola di peso e portandola dall’altra parte dal banco.
«Un momento», li interruppe una voce femminile.
Un’altra giovane donna era apparsa sulla porta che dava sulle scale di servizio. El Lobo la guardò: dimostrava non più di venticinque anni e indossava una canottiera grigioverde sopra un paio di pantaloni mimetici; capelli nerissimi, profondi occhi scuri, un corpo perfetto. Molto promettente.
«E tu chi sei?» si informò.
«Mercedes Contreras, la proprietaria. Lei chi è, piuttosto?
«Mi chiamano El Lobo.» Lo strozzino alzò le spalle. «Sono un uomo d’affari. Il marito di Sandra mi deve un sacco di soldi. Non si è fatto più vivo e io devo riscuotere, in un modo o nell’altro.»
Mercedes lo fissò. «Non credo proprio.»
El Lobo si raddrizzò sulla sedia. «Hai qualcosa in contrario?» La donna avanzò verso di loro. «Sì. In questo locale si riserva il diritto di ammissione. E voi state per uscire.»

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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