Le conseguenze del peccato

Le conseguenze del peccato di Franco Monero

Nella Parigi del boom economico il commissario Planté si trova alle prese con un caso morboso che bussa dal passato.

Un’ombra oscura e maligna riemerge dal passato turbolento di una donna imbrattando di sangue le strade di una Parigi pronta alla rinascita dopo gli anni terribili della guerra.

Un mistero occultato tra le fredde e umide stanze di un piccolo collegio del nord della Francia. Un omicidio mai risolto. Tre giovani amici. Un patto segreto.

Chiamato a indagare sul caso, il commissario Planté si troverà ben presto faccia a faccia con i fantasmi del proprio passato che lo renderanno vulnerabile e debole, allontanandolo sempre più dalla verità.

Per riuscire a far luce sugli omicidi sarà costretto a fare un tuffo indietro nel tempo, ma quando sarà a un passo dalla soluzione, la sua esistenza si troverà in bilico tra la vita e la morte.

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Le conseguenze del peccato:

PROLOGO

Parigi, 1960

Catherine Dumas. Trentacinque anni. 27 rue Henner. IX Arrondissement. Parigi. Almeno così dicevano i documenti trovati nella borsetta in pelle nera con il manico in ottone accanto al cadavere. All’interno poco altro: un rossetto consumato per metà, una cipria color carne quasi terminata, un fazzoletto con il bordo in pizzo, un biglietto ferroviario, una rubrica, tre franchi e 85 cents.

Senza troppa convinzione il commissario Pierre Planté, superato lo sbarramento piazzato dalla Scientifica, si chinò sul corpo della donna per osservarlo più da vicino. La vittima era riversa su un lato, la gamba destra piegata sotto quella sinistra, mentre un braccio le cingeva il bacino e l’altro le passava sotto la testa. Assomigliava a un manichino mezzo smontato in attesa di essere riposizionato in vetrina. La pallottola le aveva trapassato il viso deturpandone i lineamenti, impossibile per chiunque fare un raffronto con le fotografie dei documenti trovati tra gli effetti personali; un occhio era fuoriuscito dall’orbita, l’altro, semichiuso, aveva la palpebra gonfia e nera. Il proiettile si era portato via anche parte del naso e della nuca, da dove era fuoriuscito; la bocca, semiaperta come nell’atto di urlare, era piena di larve bianche che si muovevano rapide e voraci, mentre sopra al corpo ronzavano indispettite alcune mosche color bottiglia.

Un’immagine raccapricciante, cruda, brutale, davanti alla quale Planté faticava a resistere. Si rialzò in piedi e prese un lungo respiro, infine si concentrò sulla scena del crimine. Il terreno sotto al cadavere era zuppo d’acqua, così come i vestiti; evidentemente il livello del fiume era salito fino oltre il margine, piuttosto basso in quel punto, e aveva raggiunto il corpo senza vita della donna, contaminando le prove che avrebbero facilitato le indagini. Analizzò anche l’abbigliamento che la vittima indossava: una camicetta bianca sbottonata fino all’altezza del seno che lasciava intravvedere la biancheria in pizzo, una gonna nera corta sopra al ginocchio con un piccolo spacco e scarpe scure con qualche centimetro di tacco; sopra, un cappotto grigio su cui era appuntata una spilla raffigurante una farfalla.

Planté si grattò il mento, piuttosto perplesso per ciò che vedeva, infine controllò se ci fossero o meno segni di colluttazione su mani e polsi, ma non trovò nulla. Indubbiamente Catherine non aveva avuto modo di difendersi prima di essere uccisa.

Nel frattempo, l’odore ripugnante dei gas che fuoriuscivano dal cadavere in avanzato stato di decomposizione gli rivoltò lo stomaco e così fu costretto a portare una mano tra bocca e naso per provare a frenare un primo conato di vomito. Cercò di resistere, ma ormai era tardi e, dopo essersi allontanato di qualche passo, rigettò ciò che aveva nello stomaco, vergognandosi per la debolezza mostrata agli occhi dei poliziotti che lo avevano accompagnato. L’immagine della donna assassinata, inoltre, aveva riportato alla sua memoria quelle altrettanto forti e strazianti di trent’anni prima, quando suo padre, il commissario Claude Planté e sua madre Corinne vennero trucidati davanti ai suoi occhi dai sicari inviati dal malavitoso Armand Lattisèe.

Quella maledetta domenica d’agosto che cambiò per sempre il corso della sua vita.

Tre uomini a volto scoperto erano scesi da una Citroen AC4 color mattone imbracciando fucili e pistole. Fu un attimo. Claude, intuendo il pericolo, spinse Pierre all’interno di un bistrot salvandogli di fatto la vita, poi venne raggiunto da una raffica di proiettili, così come la moglie, crollando a terra tra il parapiglia generale.

Il ricordo di quel triste e sconvolgente giorno lo fece come sempre vacillare, anche se erano passati tanti anni. Anche se nel frattempo era riuscito a far pace col padreterno, a ricostruirsi una famiglia, a sopravvivere.

Nonostante tutto quello, però, i fantasmi del passato erano ancora lì a torturargli la mente, rendendolo così una persona debole e vulnerabile.

Respirò, chiudendo gli occhi e cercando dentro di sé le forze per continuare e respingere al mittente quelle reminiscenze lontane e dolorose. Infine, tornò al cadavere.

«Tutto bene, Pierre?» gli domandò l’ispettore Giround vedendolo pallido in volto.

Gilbert Giround era da anni il braccio destro e fidato consigliere di Planté, anche se inizialmente nessuno avrebbe scommesso un solo franco sulla loro convivenza. Erano l’uno l’opposto dell’altro. Planté serio e immusonito. Giround allegro e spensierato. Uno debole e incapace di nascondere i propri limiti, l’altro freddo e indifferente anche di fronte alle peggiori tragedie.

«Sì… sì…» fiatò. «Credo di non aver digerito, tutto lì.»

Giround annuì, poco convinto.

Proprio in quel preciso istante un fiocco di neve, il primo del nuovo inverno, andò a posarsi sulla guancia emaciata e cerea della vittima. Planté lo osservò. Pareva un piccolo fiore. Bianco. Puro. Poggiato lì da un’anima buona, per l’ultimo saluto a quella donna cui qualcuno aveva voluto strappare la vita con una tale ferocia da far venire i brividi anche a una persona esperta come lui. Il tutto durò pochi istanti, poi il fiocco svanì.

«Che ne pensi, Gilbert?» domandò dopo una lunga pausa.

«Che questa donna ha fatto veramente una brutta fine», sentenziò glaciale l’ispettore Giround. E mentre pronunciava quelle parole tirò fuori dal sacchetto che stringeva tra le mani un grosso croissant che addentò con gusto.

«Come diavolo fai?»

L’altro lo guardò, stupito per la domanda «Tu non hai fame?»

Il commissario scrollò la testa. Chissà cosa passava nella mente dell’ispettore, pensava mentre dalla tasca del cappotto, dopo una breve ricerca, tirava fuori il pacchetto di Gauloises, amiche inseparabili dei suoi momenti di riflessione.

Il primo boccone di fumo, acre e pastoso, gli scaldò le membra, ancora scosse dalla macabra scena che si era trovato di fronte, e prima che potesse dire altro lui e Giround vennero raggiunti da Jeremy Laçonte, il medico legale che da anni collaborava con la Polizia di Parigi.

Si conoscevano da almeno dodici anni e avevano lavorato fianco a fianco a molti casi, alcuni dei quali risolti anche grazie all’esperienza del medico. Planté quello lo aveva sempre riconosciuto. Ma c’erano state volte in cui i due non si erano trovati d’accordo, dibattendo animatamente per intere giornate al termine delle quali ognuno era rimasto sulla propria posizione, convinto di aver ragione.

«Il corpo è in avanzato stato di decomposizione», attaccò a parlare Laçonte, ancor prima di salutare i due poliziotti. «I saprofagi e i calliforidi sono già al lavoro, ciò significa che è morta da almeno due giorni e l’esposizione all’aria e all’acqua ha accelerato il processo.»

«Se non è stata uccisa stanotte, possibile che nessuno abbia notato il cadavere prima?» s’intromise Giround, che nel frattempo aveva terminato l’enorme croissant.

«Il cadavere è stato spostato dal luogo dell’omicidio», tagliò corto Leçonte. «Osservate le macchie ipostatiche sul dorso e sugli arti, tutto lascia presagire che sia stato trasportato qui in un secondo momento.» Si allontanò di qualche passo, poi tornò a voltarsi. «Vi farò avere quanto prima le analisi tossicologiche.»

Nel frattempo, altri fiocchi di neve erano caduti dal cielo grigio, imbiancando i tetti della città e il lungosenna. Planté si ravviò i capelli e fece segno a uno dei poliziotti di coprire la salma con un telo. «Andiamo», disse infine rivolto all’ispettore Giround. «Abbiamo visto e sentito abbastanza.»

1

Parigi, 1960

La voglia di tabacco lo colse alla sprovvista, mentre era intento a buttare giù con la sua Lettera 22 una bozza di verbale del nuovo caso a cui si era trovato a lavorare. Lo aveva già iniziato almeno una decina di volte, ma qualcosa non lo convinceva e così, dopo aver appallottolato il foglio, lo gettava nel cestino. La sua mente era confusa e attanagliata dai dubbi. Non erano certo le parole che aveva scritto a non convincerlo, quanto piuttosto ciò che aveva visto. Sempre più contrariato, Planté si frugò nelle tasche alla ricerca di un conforto, ma purtroppo per lui trovò il pacchetto di Gauloises tristemente vuoto.

«Maledizione!» sbottò, alzandosi dalla scrivania per raggiungere la finestra dell’ufficio. Guardò fuori. Il cielo era coperto da nuvole color cenere che sembravano preannunciare altra neve e la città si era fatta buia, malinconica, così come l’animo del poliziotto.

L’inverno era all’inizio del suo cammino e il freddo pungente che soffiava su Parigi in quegli ultimi giorni costringeva i passanti a rannicchiarsi nei cappotti, cercando riparo nei Café e nei bistrot, mentre i clochard aggiungevano cartoni alle loro case improvvisate agli angoli delle strade.

Planté perse solo qualche istante a osservare il paesaggio, perché la voglia di fumare lo opprimeva e il solo pensiero di non poterlo fare lo rendeva nervoso e incapace di concentrarsi sul lavoro. Infilò il paltò e uscì dall’ufficio, dove in tutta la mattinata non aveva combinato un granché, attraversando a passo spedito la grande stanza dov’erano stipati gli ispettori, tutti intenti a lavorare o a dar modo di pensare che lo fossero.

«Io esco», annunciò. 

Una volta in strada camminò lungo rue de Harlay per raggiungere il tabaccaio all’angolo della via.

Passando accanto all’esercizio di Gaston Fontaine notò che all’interno non c’erano clienti e così il barbiere ne approfittava per riassettare la piccola bottega che, come ricordava la scritta sulla vetrina, prestava servizio di barba e capelli dal 1888. Era stato infatti il padre di Gaston ad aprire l’attività molti anni addietro, trasmettendo la passione al primogenito che ora faceva lo stesso con il proprio figliolo.

Planté era entrato solamente una volta da Gaston, tre anni prima, non per tagliare i capelli o farsi radere la barba, ma era capitato un omicidio proprio dentro la sua bottega. Un regolamento di conti tra bande rivali della zona e lui, che non c’entrava nulla con tutta quella storia, era stato interrogato come testimone oculare. Ricordava ancora la faccia terrorizzata del barbiere al loro arrivo e la paura che per un paio di mesi aveva impedito all’uomo di svolgere il proprio mestiere.

Proseguendo transitò davanti al portone del civico 48, lì dove un tempo aveva vissuto per circa un anno nell’appartamento del secondo piano. Quanti ricordi lo legavano a quel luogo e quanta solitudine sofferta tra quelle quattro mura nei suoi primi anni al Quai des Orfèvres. Un periodo che aveva cercato di dimenticare ora che trascorreva le giornate serenamente, accanto a Christine e alla piccola Sophie.

Una volta raggiunto la rivendita di Javier Cortouis entrò e subito il calore dell’ambiente gli rilassò le membra intirizzite dal freddo. Contemporaneamente l’effluvio di tabacco che aleggiava nell’aria gli penetrò le narici e, come gli capitava spesso quando varcava la soglia della tabaccheria, la sua mente tornò ai giorni in cui, poco più che bambino, accompagnava il padre ad acquistare le sigarette. Era uno dei rari momenti che passavano insieme e quei brevi istanti erano per Pierre una vera conquista.

«Due pacchetti», ordinò, allontanando il passato.

Conoscendolo bene, il vecchio Javier aveva già piazzato le sigarette sul vetro del bancone, mostrando al commissario un sorriso di cortesia.

Planté lo guardò. Chissà come stava la moglie, si domandò. Da un po’ di tempo non si vedeva più alla bottega e nel quartiere si vociferava che fosse malata. Ma il vecchio Javier era un muro invalicabile. Non ne parlava con nessuno e non dava cenni di cedimento. Planté se lo ricordava sempre con la medesima faccia. I baffi lunghi e ben curati, i capelli pettinati di lato, ingialliti dal tempo, la camicia bianca e il gilet scozzese che gli faceva difetto sulla pancia pronunciata. Erano quindici anni che Planté passava quasi ogni giorno ad acquistare le sigarette e non aveva memoria di essersi mai concesso il tempo di due chiacchiere con Javier. 

«Grazie», sillabò, pagando il conto. Prima di uscire tornò a voltarsi verso il bancone. «Non ho più visto la sua signora, me la saluti.» Le parole gli erano uscite a fatica dalla bocca, ma era già più di quanto non avesse mai fatto in quegli anni.

«Non mancherò di portarle i suoi saluti, commissario. Buona giornata e grazie.»

Non appena fu in strada, Planté si accese una sigaretta e inspirò, così il fumo denso, scendendo nei polmoni, riportò calore e calma nel suo cuore. Nel frattempo, aveva ripreso a nevicare. Accelerò il passo e rientrò al 36 del Quai des Orfèvres, dove l’ispettore Parbonne lo aspettava sulla porta dell’ufficio.

«Una persona chiede di lei», esordì.

Planté aggrottò la fronte.

Arsène Parbonne era uno degli ultimi arrivati al Quai des Orfèvres e per lui Planté nutriva un certo affetto. Gli ricordava i suoi inizi e i richiami del commissario Daniel Moretti, che lo facevano sussultare. Planté si era chiesto più volte perché un ragazzo come Parbonne non avesse proseguito gli studi e allora aveva preso informazioni, scoprendo che il lavoro gli serviva per poter accudire i genitori, ormai anziani e impossibilitati a badare a se stessi, soprattutto economicamente. Così, ogni volta che poteva, gli affidava incarichi che richiedevano ore e ore di lavoro straordinario, che permettevano a Arsène di guadagnare qualche franco in più rispetto al misero stipendio mensile.

«Ora non ho tempo. Fatti dire il motivo per cui è venuta e rimandala a casa prima che le strade diventino impraticabili.» Prese posto alla scrivania cercando di concentrarsi in modo da riuscire a buttar giù il verbale a cui lavorava da ore. Il sopralluogo a casa di Catherine Dumas, avvenuto poco dopo il ritrovamento del cadavere della donna, non aveva fruttato nulla di nuovo per le indagini e quello non faceva altro che rendere le cose più complicate e la risoluzione più lontana. Quando rialzò la testa vide che Parbonne era ancora lì. «Che c’è ancora?»

«Si tratta di Joséphine Raquin, commissario.»

Planté alzò le sopracciglia. «Che aspettavi a dirlo, falla passare, svelto!»

Bergères-lès-Vertus, sedici anni prima

La porta della camera n° 6 si aprì e dalla penombra sbucò fuori una testa riccia e vulcanica. Si guardò intorno. Il corridoio del pianterreno era deserto a quell’ora della notte. Un lungo tunnel buio e silenzioso, con due finestre alte e imponenti da cui filtrava la tiepida luce della luna.

Nessuno. Bene, via libera.

Dall’oscurità emersero le sagome scheletriche di due ragazzine di non più di quattordici anni, che camminavano in punta di piedi per non fare rumore. Indossavano entrambe un pigiama lungo fino alle ginocchia, grigio, fatto di un tessuto grezzo, che faceva prudere.

Nessuno tra i compagni del collegio, tutti ragazzi di età compresa tra i dieci e i sedici anni, figli di nessuno, abbandonati da genitori sconsiderati o appartenenti a famiglie disagiate, doveva accorgersi della loro presenza. Nemmeno la signorina Debechè, che per fortuna era già passata per il giro di ispezione poco prima e non si sarebbe fatta viva fino al mattino successivo. O Rosinne, la sentinella come la chiamavano loro che, come ogni sera, si era sbronzata e ora dormiva un sonno profondo, sottolineato dal frastuono del suo russare.

«Andiamo, Joséphine, dobbiamo sbrigarci prima che qualcuno di accorga di noi!» urlò senza voce la più alta delle due. «Se ci scoprono saranno guai seri!»

«Falla finita, Catherine», ribatté l’altra. «Andrà tutto bene, vedrai.»

A passo leggero le due ragazzine percorsero tutto il corridoio, fino a raggiungere la porta che conduceva alle scale. Da lì sarebbero potute accedere ai tre piani superiori.

«Seguimi nell’ufficio di Morel», disse Joséphine.

Iniziarono a salire su per la grande scala in marmo, rasentando il muro con la schiena imperlata di sudore per la tensione. La voglia di sapere, però, era più grande della paura, così le ragazze continuarono, scalino dopo scalino, anche quando un rumore improvviso, proveniente dal terzo piano, fece sussultare il cuore di entrambe.

Giunte al primo piano, Catherine e Joséphine si fermarono. Il timore di essere scoperte e la consapevolezza del gesto che stavano compiendo, faceva tremar loro le gambe, mentre il respiro si faceva sempre più greve e il cuore tamburellava all’impazzata nel petto.

«Cosa stiamo facendo, Joséphine?» blaterò Catherine, sempre più spaventata.

«Vuoi arrenderti proprio ora?» La fulminò con lo sguardo l’amica.

«Ho tanta paura.»

«Dovevi pensarci prima, ormai è tardi per tornare indietro!» L’afferrò per un braccio e tirò. «Non sei curiosa di scoprire il tuo passato? Sapere chi sono i tuoi genitori?»

L’altra non rispose, ma annuì con un gesto del capo. Tremava così forte che le parole le si erano gelate in gola e respirava così affannosamente da assomigliare a una locomotiva lanciata a tutta velocità.

Proseguirono, salendo i gradini a piccoli passi, leggeri e lenti. Così, mentre la notte scorreva silenziosa e assonnata, raggiunsero il secondo piano. Alla loro destra c’era una porta in legno chiaro. Sopra capeggiava una scritta: sala riunioni. Alla loro sinistra, invece, un corridoio lungo almeno una quindicina di metri.

«Di qua», disse sottovoce Joséphine.

«Aspetta, mi pare di aver udito qualcosa.»

«Tipo?»

«Come dei passi.»

«Smettila, sei solo una piagnucolona. Dormono tutti, chi vuoi che ci sia?» s’infuriò. «Facciamo presto e torniamo nella nostra stanza, nessuno si accorgerà di nulla, te lo prometto.»

Catherine la raggiunse svelta, perché avvertiva una strana sensazione.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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