La danza delle ombre

La danza delle ombre di Nicky Persico –
Avete mai provato a danzare con i sogni, i ricordi, le storie che vi hanno colpito? No? Dovreste. Danzate con noi. Danzate con le ombre.

Ognuno di noi ha nell’animo delle ombre che nessuna luce potrà mai davvero cancellare. Esse vivono in noi e, a volte, ci danzano attorno. Troppo spesso non le vediamo eppure ne avvertiamo la presenza poiché esse esistono da qualche parte della nostro inconscio e, solo incontrandole, possiamo capirne la vera natura.

Questo romanzo racconta di un viaggio verso le profondità dell’anima, un viaggio che dipenderà da quanto lontano vorrà andare il lettore, da dove vorrà partire, da dove e quando vorrà tornare. Un viaggio crudele, silenzioso, appassionato e indimenticabile che frange il percorso e le convenzioni per condurre fuori dal tempo.

Il ritmo della scrittura è lo stesso di un respiro, la velocità quella uno sguardo, il tempo ristretto a un passo di danza pur dilatato dal sogno, per provare a cercare l’armonia del ritorno in quello stesso luogo dal quale crediamo di non essere mai partiti.

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La danza delle ombre – blu:

Un giorno
che non mi piaceva il mondo
ne ho inventato uno mio.
È lì che vivo, io.

Ogni giorno, all’imbrunire, lo scorrere del tempo prende a rallentare.

Prima che l’oscurità inizi a scendere come neve ricoprendo ogni cosa, la luce si fa tenue, spargendosi soffice sulle città e sui gatti che stanno sui tetti, sui pioppi e sui tigli, sulle spiagge, sulle foreste, sulle automobili e sulle campagne, sui libri e sui ragazzi in motorino, e sull’acqua che in ogni dove ne riflette e moltiplica i colori.

Nelle case ogni finestra diviene cangiante, e annuncia la sera imminente.

Infine, l’orizzonte s’incendia d’arancione e d’azzurro per poi virare lentamente fino al blu oltremare.

E’ al crepuscolo il momento dei pensieri, dei ricordi, dei sospiri profondi e dei respiri sospesi. Se si potessero contare, si scoprirebbe che in quel momento al mondo c’è il più gran numero di occhi puntati al cielo.

Appare tutto, in quel mentre, nella bellezza di cui è più capace: anche le anonime e fredde aree piene di fabbriche ammassate al finire delle metropoli, quando il profumo del vento leggero ne invade gli immensi viali tutti uguali, deserti e ormai silenziosi.

Esattamente lì, perfettamente, in quel giorno di maggio inoltrato, al centro esatto di un immenso e vuoto piazzale di carica scarica trasporta e riporta, ritto e immobile sullo sfondo del tramonto si stagliava un uomo compìto, avvolto in un cappotto ben teso e abbottonato, accanto a una vecchia e curata automobile che aveva appena parcheggiato esattamente al centro di quel grigio lago d’asfalto.

Inspirò profondamente, immerso nel silenzio rotto soltanto da qualche foglio di giornale che provava invano a volare via, e poi espirò lentamente.

Aprì lo sportello, e flettendo le gambe si sporse nell’abitacolo. Chiuse quindi gli occhi, con i pugni sul sedile, annusandone a pieni polmoni il profumo.

Poi si sollevò, guardò tutt’intorno, prese delicatamente una bottiglietta da un anfratto tra i sedili anteriori, la infilò in tasca, si ritrasse: richiuso lo sportello con dolcezza,  accarezzò la scocca delicatamente.

Infine girò le spalle e si incamminò lento. Senza mai voltarsi indietro raggiunse il limitare dello sterminato spiazzo. Scomparendo dietro uno sbrecciato muro grigio, prese a percorrere una enorme corsia delimitata da lamiere ondulate ormai arrugginite.

Con il passare dei minuti il buio prese a punteggiare lento in ogni dove come pulviscolo di cenere, ammantando ogni visuale: apparvero d’improvviso ampi coni di luce di lampioni, e nel cielo spettrali lampade rosse a segnalare invisibili torri.

A occhi bassi, l’uomo, di nome Asdrubale, guardava i propri passi e ne ascoltava nitidamente il suono, nel silenzio che lo circondava, udendo nitido l’alternarsi ritmico del piede destro e del sinistro: non vi era altro rumore presente, in quel giorno fattosi ormai sera, tranne l’eco flebile, distante e informe, del frastuono della metropoli sullo sfondo di quel piccolo mondo.

Nella sua mente anche, le domande erano ormai silenti. Le risposte, invece, non avevano più alcuna importanza e si erano dissolte fino a svanire, inutili.

Tutto appariva nuovo, limpido, fresco e leggero. Come non mai.

Quella era, stasera, l’ultima volta. Aveva accarezzato quella vecchia auto con amore e gratitudine dopo aver percorso insieme per anni le stesse identiche circonvallazioni, d’inverno inospitali e desolanti, al riparo del riscaldamento dell’abitacolo, mentre la radio scaldava l’anima tenendolo in contatto con il mondo. E d’estate, sul far della sera, aveva sognato coi finestrini ben aperti e gli occhi anche, fantasticando sulle luci che punteggiavano l’orizzonte.

Quell’auto era stata il suo mondo, il suo rifugio, la sua compagna rassicurante e gentile. Aveva sempre chiesto così poco, in cambio, e non aveva mai fatto domande. Di certo aveva un’anima: quasi vergognandosene lo aveva sempre segretamente pensato. E addirittura aveva preso, un giorno, a credere fosse vero. Un mattino si fece coraggio e le parlò mentre guidava, sentendosi d’improvviso, con sua sorpresa, sollevato da un pezzetto d’angoscia.

E a ben vedere, agli occhi di chiunque, quell’ultima carezza data con dolcezza prima di incamminarsi e sul finire del giorno, sarebbe apparsa evidente come un saluto: un tenero commiato.

Poco tempo dopo, anche con una penna, gli era accaduto.

Era con lui da anni, ormai: serbava un ricordo nitido di quel compleanno che gliela aveva portata in dono, perbacco. La bachelite aveva ormai ampi e delineati segni d’usura, irripetibili e preziosi segni del sacrificio. Si sorprese un mattino a osservarla e a sentirsi ingiusto, per tutte le volte che l’aveva considerata un semplice oggetto, e ricordò lo sgomento provato il giorno in cui l’aveva perduta, quando a occhi socchiusi si scoprì a dire tra sé: «O penna, penna mia, chissà quanto ti senti sola, e quanto starai soffrendo. Di certo ti sarai chiesta come ho potuto dimenticarti. Perdono. Perdono. Ti chiedo perdono.»

E così, tempo dopo tempo, oggetto dopo oggetto, via via iniziò ad affezionarsi alle cose come se fossero vive. A volte più che alle persone, perché aveva preso a convincersi che avessero persino più cuore.

Giunse a un punto tale che addirittura una volta capitò che l’auto fosse guasta, e gli veniva da dire che stava male, e si dovette controllare perché più che a un meccanico avrebbe voluto quasi portarla all’ospedale.

Fattosi conscio, dovette iniziare a mascherarlo, a moderarsi nell’esternarlo. Nessuno, avrebbe capito questo suo fare.

E invece lui, alle cose, davvero ormai voleva bene. Come poteva essere diversamente?

L’auto, a esempio: ne avevano fatte tante, insieme. In quella vita sempre uguale, spesso ingiusta, fredda, ingrata.

Come dimenticare certe albe incandescenti di percorsi trafficati tutti uguali, giù a sognare a perdifiato di mille avventure? All’asciutto nella pioggia torrenziale, al riparo dal vento nella tormenta sferzante, al tepore nel gelo e al fresco nel caldo soffocante: era sempre lei a proteggerlo, in un mondo inospitale, quando, certe sere, come ora, la città, là sullo fondo, sembrava un grande vascello spaziale di mille e mille luci, atterrato da un pianeta chissadove.

Sì: amava le cose. Potevano dirgli anche che era diventato matto, se proprio volevano. Lui sapeva bene, del resto, come tutti credano – stolti – che le cose non siano meglio della gente. E invece non è così. Basta guardare in giro, quello che succede: gli umani, quelli sì, fanno cose raccapriccianti.

Pian piano intanto si era fatto buio, ed era giunto sul finire, di quel grandissimo viale.

Sollevò il bavero e si guardò attorno: alla sua destra, lontano, l’astronave urbana. Alla sua sinistra scuro pesto: periferia o campagna, o chissà cos’altro ignoto.

La scelta era semplice, in fondo.

Perché stavolta basta, era proprio stanco. Di tutto. Di pensare, di svegliarsi, di doversi alzare. Di fare ogni giorno cose senza senso per poter restare vivo e quindi poter fare cose senza senso. Concentricamente senza senso.

Restavano solo i tramonti, e le albe, e le cose. Per poter sognare, e quindi davvero vivere.

Si incamminò deciso su una piccola strada sterrata. Una luminosa luna rischiarava la campagna, intorno.

Non si sentiva, solo. Non lo era. Aveva qualcosa di importante, con sé. Ripercorse a mente di quando la perla d’acqua che conservava gelosamente in tasca era entrata nell’abitacolo e nella sua vita. Una mattina presto, mentre il cielo era sereno.

Dal finestrino appena aperto, all’improvviso, uno scroscio di pioggia misterioso. Nemmeno una nuvola a perdita d’occhio. E finì a inzuppargli la manica del cappotto tanto che in ufficio dovette strizzarla: inavvertitamente una grossa goccia entrò nella bottiglietta che solitamente utilizzava per portare con sé il caffè. Lavata di fresco era sulla scrivania aperta, ad asciugare.

Posato il cappotto sul termosifone, prese la bottiglia e osservò all’interno: su quella sfera liquida e mobile riuscì a guardarsi riflesso, e fu come riconoscersi, d’un tratto.

Ma che strano.

Rimise il tappo e la chiuse in un cassetto. E più tardi guardò ancora: e ancora una volta rivide se stesso, attraverso il vetro.

Vide se stesso, dico: e intendo proprio questo. Ebbe percezione di sé, e non lo aveva mai fatto davvero, di guardarsi per com’era, e apprezzarsi, infine.

Iniziò a provare orgoglio, all’inizio. E poi coraggio. Di fare niente, ma di pensare liberamente a tutto. A tutto quel che era, a quel che era stato, e a quel che aveva intorno.

E anche prese, così, a cambiare.

Iniziò a portarla sempre con sé, e a volte si rifletteva in essa, e pensava.

Pensava tanto, come stasera che si era fatta pian piano notte. Si fermò, e sollevò lo sguardo. Tutto scuro, intorno, e nemmeno più si vedeva l’aura della città. Solo il chiarore della luna, e il profumo della campagna.

Ora era dove voleva: senza meta, senza destinazione.

Alla fine.

Da tanto pensava a questo. E gli dava sollievo.

Faceva ogni cosa per l’ultima volta.

Pensare questo impreziosiva tutto: era sentirsi vivo. Qualsiasi cosa riprese a dare emozione, così. E aveva davanti a sé l’intera notte, ancora.

In fondo alla strada sterrata, una piccola luce. Di buona lena ricominciò a camminare. La seguì senza una ragione, che in fondo non sapeva dove andare. Sapeva solo che sarebbe stata l’ultima volta, e questo poteva bastare.

La via si fece sempre più stretta, nel percorrerla, fino a infilarsi scura in un bosco.

Non aveva alcuna idea, di dove fosse finito, né la voleva avere. I rovi divennero sempre più fitti. Facendosi largo con le braccia continuò a tentoni ad avanzare: tornò a farsi vedere chiaro, ora, il puntino luminoso che lo indirizzava.

Spostata un’ultima fronda, si ritrovò d’improvviso a sbucare su un vecchio marciapiede.

Aveva addosso fogliame e rugiada: si spolverò scorrendo le mani sul cappotto.

Un brivido lo percorse a partire dal petto.

Al tatto non aveva avvertito il solito rilievo: la bottiglia con la goccia d’acqua. Era smarrita?

Cercò di concentrarsi, mantenere il controllo, respirare. Ripassò la mano, questa volta a occhi chiusi, ma niente. Niente!

Una prima avvisaglia di dolore partì dallo stomaco, che si stringeva come afferrato dal pugno di un gigante che gli cingeva i fianchi, e giunse alla schiena. Si stava facendo tutto oscuro, nella sua mente. Come aveva potuto? Come?

Ne avrebbe dovuto aver più cura, quella sera che aveva deciso di incamminarsi per l’ultima volta! Proprio quella sera. Proprio quella sera.

E poi d’improvviso spalancò le ciglia, finalmente memore.

Sì! Come sempre, in tasca. Ma questa volta l’aveva messa in quella interna, in alto, più sicura perché protetta e chiusa!

Tastò di nuovo e finalmente la avvertì sotto le ossa delle dita.

Rilasciò il capo all’indietro, di rimando all’allentarsi del pugno alla pancia, e all’acqua chiese scusa.

Riaprì gli occhi: una panchina sbrecciata palesò la sua esistenza proprio a pochi metri. La raggiunse, e si accasciò, riconoscente.

Tirò fuori la piccola albeisa trasparente, e la strinse al petto.

Quell’acqua, quella goccia entrata per caso nella sua vita, non solo gli aveva consentito di guardar se stesso: era stata anche la prima, a dargli segno, un giorno. Un giorno che era tutto più monotono e più grigio del solito: un giorno fitto e scuro come sa esserlo solo il buio profondo del pensiero.

Aveva udito, quel giorno, due parole.

Due parole sole, che gli stravolsero la vita.

«Sei triste?»

S’era guardato intorno, lo ricordava come fosse adesso: incredulo d’essere interrogato.

Aveva scosso il capo. Forse aveva solo sognato, nel silenzio della stanza vuota. Ma poi udì nuovamente quel suono.

«Dimmi, sei triste?»

Era una voce. Una voce vera. E veniva da una precisa direzione.

Guardò nella piccola bottiglia e riflesso si rivide ancora.

«Sei triste?»

Non v’era spiegazione alcuna, a quella voce. Non ve n’era nessuna possibile, tranne una.

Incerto e tremante, di rimando sussurrò: «Sì.»

Avvenne così.

Così iniziò, quel giorno, che l’acqua gli parlò davvero.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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