Il padre imperfetto

Il padre imperfetto di Antonio Falco

Si può tornare a vivere dopo la più terribile delle perdite?

Mario Pedersoli è un pensionato a cui, quasi un anno prima, hanno assassinato il figlio trentenne. La sua vita è tormentata dal dolore per la perdita, dall’esaurimento nervoso di sua moglie Amelia e dal rammarico per le insufficienti indagini svolte dalla polizia di Torino che ha liquidato il caso come un furto finito male.

Un giorno però, mentre si occupa di svuotare la vecchia cameretta, sporadicamente utilizzata dal ragazzo scomparso, Mario trova un oggetto che non avrebbe mai immaginato suo figlio potesse possedere. Questa scoperta, insieme al fortuito incontro con una vecchia conoscenza dei tempi delle scuole medie, riaprirà in lui la speranza di scoprire qualcosa in più sulla morte del figlio spingendolo non solo a indagare ma anche a dare una svolta diversa alla propria esistenza.

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Il padre imperfetto:

1

Primo giorno

«È ora di svuotare la camera di Andrea» dico a mia moglie Amelia. Lei non mi risponde, come sempre più spesso nell’ultimo periodo; mi guarda per qualche istante e si rigira verso la televisione. Proprio lei, che la TV non l’ha mai guardata, da quando nostro figlio Andrea se n’è andato non fa altro che stare attaccata a quel maledetto schermo. La fisso anche io per un po’, indeciso se insistere o arrendermi, come quasi sempre faccio, e opto per la seconda opzione, decidendo di sobbarcarmi io stesso lo schifoso compito che è ripulire la stanza del proprio figlio dopo la sua morte. Faccio ancora un po’ di fatica a dirlo anche se è passato quasi un anno, ma è andata così: avevamo un figlio e ora non ce l’abbiamo più, strappato via da un caso fortuito, così ci hanno detto e così ci ha suggerito di pensare il personale dell’ospedale in cui ha respirato per l’ultima volta.

«Mai darsi la colpa per quello che è accaduto, signor Pedersoli, mai!» Era questa una delle sentenze più categoriche che la psicologa dell’ASL ci ha ripetuto quasi all’infinito, come si dice oggi? Ah sì, come un mantra, di continuo. Ma come pensa questa brava donna che io e mia moglie possiamo incolparci per la morte di un figlio trentenne che è stato aggredito da quattro balordi che volevano portargli via lo scooter? Ma che c’entriamo noi? Se devo essere sincero non mi è mai passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di incolparmi per la sua scomparsa, anzi, credo che questo dubbio l’abbia insinuato nella mia testa proprio la psicologa… che poi uno si dice: «ma chi me lo ha fatto fare di dare retta a questa?»

In un caso o nell’altro Andrea non c’è più, ha fatto più o meno la fine di Stefano Cucchi, solo che a mio figlio l’anima gliel’han cercata a forza di botte quelli nel ruolo corretto, cioè i cattivi, i farabutti, i ladri, non i carabinieri che avrebbero dovuto onorare la divisa che avevano indosso e che, insomma, in quel caso erano farabutti pure loro. Almeno i genitori e la sorella di Cucchi hanno avuto un obiettivo da raggiungere, una tesi da dimostrare, quella che lo Stato avesse loro ammazzato figlio e fratello e noi? E a noi che rimane? Un diavolo di niente.

Sappiamo solo, dai risultati dell’autopsia, che l’hanno preso a calci e a pugni e che forse hanno usato anche un bastone, Andrea probabilmente si è difeso, ma quelli che l’hanno menato erano due o forse tre, quindi non gli è servito a niente, ma la Polizia non è mai riuscita a individuare alcun elemento in più. L’hanno trovato la mattina dopo agonizzante nel piazzale davanti al vecchio ufficio postale dietro via Bologna, a Torino, a metà strada tra casa nostra e il supermercato in cui lavorava. Il casco per terra, poco distante da lui, e nessuna traccia dello scooter Peugeot, ma nemmeno di frenate o di altri indizi che potessero far pensare a un incidente.

Andrea è morto a calci, pugni e bastonate presumibilmente fornitegli in gran quantità e con una certa potenza da coloro che avrebbero voluto impossessarsi del suo mezzo. Punto e basta. Questo recitava il rapporto della Polizia. Denuncia contro ignoti e tanti cari saluti, o meglio, tante care e sentite condoglianze Pedersoli, ma, insomma, di questo omicidio non ne sapremo mai un cazzo. L’ispettore che ha seguito il caso non mi ha detto proprio così, ma il suo sguardo trasmetteva alla perfezione il concetto.

Freddo il rapporto delle forze dell’ordine, altrettanto gelido quello del coroner, tutt’altro che privo di emozioni quello che abbiamo vissuto io e Amelia. Avevamo seppellito i nostri genitori nel giro di pochi anni ed era stato infelice, ma naturale: erano anziani ce l’aspettavamo, era nell’ordine delle cose, certo non lo è stato dover sotterrare un figlio, ma sappiamo tutti che purtroppo accade. E comunque, quando abbiamo svuotato le case dei nostri, è stato doloroso trovare i loro occhiali da lettura, le pantofole, i vestiti e, negli armadi o nel fondo dei cassetti, veder spuntare fuori una scatoletta con delle cartoline di cinquant’anni prima, un fascio di lettere di quando erano fidanzati. Si trattava tuttavia di un dolore, per così dire nostalgico, di un sentimento agrodolce, di una tristezza quasi piacevole dettata dalla consapevolezza che, nel bene o nel male, tutto avesse più o meno seguito il proprio ordine prestabilito.

Adesso invece ci troviamo, o meglio mi trovo, a dover svuotare la stanza di mio figlio, di colui che avrebbe dovuto sgombrare la mia casa dalle mie cose e che, se anche ormai viveva da qualche anno da solo, ha lasciato qui un mucchio di oggetti che gli appartenevano e il dolore che proviamo non ha nulla di dolce perché grida strazio e sofferenza, è come uno squarcio nel calendario della nostra vita. È stato come prendere un ingranaggio progettato per girare in un verso e tentare di farlo ruotare al contrario con le mani nude, lacerandosi pelle, tendini e spaccandosi le ossa. Quello che ci è successo va contro natura, contro la natura delle cose, è contro il loro ordine. Punto.

E mi trovo a fare tutto da solo: Amelia si è estraniata da quando Andrea è morto. O meglio, durante i primi giorni, fino a quello del funerale, sembrava combattiva, non riuscivo a capacitarmi della sua reazione: io mi sentivo come se avessi un macigno sul petto, letteralmente non riuscivo a respirare, tant’è che sono andato dal medico, che mi ha prescritto delle gocce di calmante. Che diavolo avrebbe potuto fare, povero Cristo? Gli si presenta davanti uno a cui hanno ammazzato un figlio e gli dice che non può dormire… calmanti, dai, ci arriverebbe chiunque, non c’è bisogno di essere laureati in medicina. Amelia, invece no, lei era sveglia, vispa e presente come se non fosse successo nulla. Non riuscivo a capire da dove prendesse tutto quel sangue freddo, quella consapevolezza, quella decisione. La vedevo piangere, ma solo un po’, nulla di esagerato, molto sabauda, niente di paragonabile a quello che ci si aspetterebbe da una madre che ha appena perso il figlio minore. Ma poi, nel momento in cui abbiamo salutato amici e parenti, dopo il funerale al Cimitero Monumentale, è crollata, è andata giù come uno di quei pupazzi pubblicitari gonfiabili che a volte si vedono lungo l’autostrada, come se qualcuno avesse tolto improvvisamente la corrente al compressore e fosse mancata l’aria. Nello stesso modo, mia moglie si è afflosciata, si è arresa e in quel momento ho cominciato a sentirmi in colpa sì, non per la morte di Andrea come ha suggerito la psicologa della mutua, ma perché forse avrei dovuto stimolarla di più i primi giorni, avrei dovuto spingerla a piangere e a sfogarsi e invece mi sono appoggiato io alla sua spalla, sfruttando la sua forza apparente, facendomi sostenere, senza pensare minimamente che, quanto meno, avremmo dovuto sorreggerci a vicenda.

Comunque sia, ora Amelia è andata, non so usare un altro termine in questo momento e mi sembra quello più adatto perché è come se si fosse trasferita in un altrove immaginario, in un suo mondo privato fatto di televisione e di cruciverba, questi ultimi sono sempre stati la sua passione durante le vacanze estive, la prima, invece, ha sempre rappresentato per lei un elettrodomestico detestabile, fondamentalmente inutile. L’Amelia che conoscevo non c’è più, non c’è più per me e non c’è più nemmeno per Andrea, né per l’altro nostro figlio: mangia, dice qualche parola, ma ha perso la voglia di vivere, non vi nego che temo che possa anche decidere di farla finita. Infatti ho fatto montare su tutti i serramenti delle serrature che chiudo a chiave quando la lascio sola per un po’ di tempo e, nelle occasioni in cui devo trattenermi fuori casa per qualche ora, chiamo la colf del nostro vicino e la pago perché faccia finta di pulire, ma in realtà le chiedo di assicurarsi che Amelia non faccia pazzie.

Non lo so se posso essere considerato egoista per quello che sto per dire, ma non potrei reggere anche la sua morte: se le volessi più bene o se, appunto, non pensassi a me stesso, forse dovrei lasciarla andare definitivamente, addirittura dovrei ammazzarla io e farla finita subito dopo, ma non ne ho il coraggio. Nostro figlio maggiore, Valerio, abita a Bruxelles, lavora in Comunità Europea e lo vediamo sì e no un paio di volte all’anno: prima andavamo anche noi in Belgio, ma ora Amelia dice che non se la sente di affrontare quel viaggio anche se si tratta di poco più di un’ora di volo e quindi, se lei non ci fosse più, io rimarrei totalmente solo al mondo e non voglio esserlo. Che Dio mi perdoni, ma è così.

2

Questa mattina ho deciso di dedicarmi ai cassetti del comò di Andrea. È morto esattamente undici mesi fa, l’11 marzo, e oggi infatti è l’11 febbraio. Ci abbiamo messo un po’ a decidere di iniziare a svuotare la sua stanza: non viveva da un po’ qui da noi, ma spesso vi passava la notte, una o due volte la settimana, diceva che gli piaceva la vista che gli offriva la sua camera ed era vero, non era certo un tipo che veniva qui per farsi fare il bucato da mammina.

Abitiamo ai bordi di periferia, come cantava Ramazzotti, in una piazza che tutti chiamano Piazza Sofìa, con l’accento sulla i, ma che si dovrebbe chiamare Piazza Sòfia, con l’accento sulla o, come la capitale bulgara, anche perché non è intitolata certo alla Loren. Il nostro è un quartiere di frontiera fin dal nome: Barriera di Milano; e la piazza in cui viviamo si trova in prossimità del vecchio confine cittadino delimitato naturalmente dall’ansa del Po e dal suo incontro con un torrente chiamato Stura. E abbiamo la fortuna di avere un appartamento all’ottavo piano, orientato verso il corso d’acqua e la collina e, dalla finestra della camera di Andrea, si vede tutta la sua natura rigogliosa verdeggiare attorno a Superga, alla torre del Moncanino e ad altri splendidi posti che la collina torinese offre allo sguardo di chi sa osservarla.

E Andrea sì che la sapeva guardare, l’amava veramente. Tante volte, già dai tempi delle superiori, partiva il sabato o la domenica mattina presto e andava fino a Superga a piedi o di corsa, innamorato di quei dislivelli e del silenzio tanto differente dal rumore della nostra piazza in cui, oltre alle auto, ha sempre primeggiato lo sferragliare di uno dei tram più rumorosi di Torino. Il diciotto.

«Papà, ho voglia di verde» mi diceva e veniva a dormire qui da noi, non tanto per riposare meglio, quanto per godere del risveglio, fantastico quando il rosso mattutino circonda la basilica cara a tutti i torinesi. Perciò, in questa stanza, in questo comò, non ci sono solo i ricordi della cameretta di un adolescente, ma anche pezzi della sua vita da adulto.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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