Il mostro sacro

Il mostro sacro di Remo Borgatti

Un giallo classico che vi farà viaggiare nel tempo e nello spazio dalla Vienna di Mozart alla Sardegna di oggi.

Nella Sardegna soleggiata agli albori del terzo millennio, sotto un albero in mezzo a un campo solitario, un pastore trova un uomo in fin di vita. Si tratta di Fabio Malavolta che muore per il morso di un serpente velenoso.

Di ben altro veleno morirà, invece, nella Vienna fredda e piovosa del 1791 Wolfgang Amadeus Mozart, il mostro sacro della musica mondiale, ucciso nel suo letto – almeno così parrebbe – di una forma acuta di febbre miliare.

Ci sono oltre duecento anni e più di mille chilometri tra le due morti e, in apparenza, nulla unisce i due episodi eppure, Umberto Cau, il commissario di Oristano che indaga sulla morte di Malavolta, grazie alla felice quanto inconsapevole intuizione di suo figlio, si troverà a investigare sui misteri che hanno circondato gli ultimi giorni di vita della vittima che, a quanto pare, non è affatto chi diceva di essere.

In questo giallo classico costruito su linee parallele, il lettore viene accompagnato con garbo in un intrigo che, pur con le fondamenta ben ancorate al passato, potrà essere chiaramente osservato e risolto solo nel presente.

Qui di seguito il booktrailer de Il mostro sacro prodotto in collaborazione con la Dum Tak Power

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Il mostro sacro:

Prologo

Oristano, 3 Agosto 2004

Il gatto scivolò furtivo tra gli alberi di limone del giardino e scomparve sotto gli scalini dell’ingresso.

L’individuo scattò e si maledisse. 

Ogni minimo movimento aveva il potere di alterare il suo stato d’animo e non riusciva a spiegarsene la ragione.

Era tutto finito, ormai.

Non c’era nemmeno un motivo che potesse giustificare la sua preoccupazione.

La parola perfezione si addiceva all’opera che aveva appena portato a compimento.

Soddisfazione e gratificazione riempivano il suo cuore.

Vendetta era stata fatta.

Aveva avuto tutto il tempo di curare ogni dettaglio nella preparazione del piano. Poi l’aveva messo in atto.

Nessun rimorso.

Mai.

Chi aveva salvato la sua anima meritava di essere difeso. Con qualsiasi mezzo. C’era un dare e un avere, questo l’aveva capito nel lunghissimo periodo della sua cupa e profonda malattia. A quel tempo aveva sbandato paurosamente, rischiando di chiudere per sempre con questa vita terrena, ma qualcuno era giunto in suo soccorso. Aggrapparsi a quella mano salvifica era stata la mossa della disperazione. E aveva funzionato. Aveva magnificamente funzionato.

Sentirsi in debito era il minimo.

Avere l’occasione di saldare il conto, il massimo.

Chiuse il cancello e si allontanò a piedi nella strada, mentre l’orizzonte alle sue spalle iniziava a rischiararsi con una certa timidezza. Salì sull’automobile e si accese una sigaretta, non prima di aver sfilato i guanti dalle mani e averli messi nel portaoggetti del cruscotto.

Respirò a fondo e si concesse di appoggiare la testa sul volante.

Una stanchezza improvvisa e sconosciuta si diffuse per tutto il suo corpo, irradiandosi dal centro verso la periferia fino a salire alla testa. Si rendeva conto che doveva reagire ma era come se una forza misteriosa si fosse impadronita della sua volontà.

Riuscì ugualmente a mettere la mano sulla chiave e ad avviare il motore. Doveva andarsene di lì. L’automobile partì lentamente e in pochi secondi raggiunse la provinciale, direzione Oristano.

C’erano ancora un paio di dettagli da sistemare. Circa mezzora dopo la vettura imboccò una strada ghiaiata e quindi si inerpicò in un sentiero sterrato che conduceva verso l’interno. Ora la luce si era fatta più intensa e i colori stavano gradualmente virando dal violaceo al rossastro, preludio ad un’altra immacolata giornata di sole.

Riconobbe a stento lo spiazzo e fu felice di constatare che le precauzioni non erano mai troppe. Individuare un luogo per sbarazzarsi della carriola era sembrato eccesso di zelo. Adesso invece si scoprì a ringraziare la propria pignoleria.

Scese, estrasse la carriola dal baule e la fece ruzzolare in fondo al dirupo. Non c’era il pericolo che qualcuno sentisse il rumore; intorno non vi era altro che roccia e qualche coraggioso cespuglio di mirto e lavanda. Sorte peggiore riservò al computer portatile. Non sapeva quasi nulla di informatica e di computer, ma su una cosa non c’erano dubbi: dopo il trattamento che aveva in mente, quel prodigio della moderna tecnologia si sarebbe ridotto a un inutile ammasso di metallo e materie plastiche. Lo aprì e lo poggiò su una roccia piatta, prese la mazza dal baule e vibrò in rapida e forsennata successione alcuni violenti colpi ben assestati. Quindi lo prese con due mani e lo scaraventò nel burrone.

L’infamia è cancellata, pensò con soddisfazione.   

Poi tolse dalla tasca il foglio e lo rilesse per l’ultima volta, premendo forte la mascella contro la mandibola.

Rabbia.

Rabbia e dolore.

Un mare di cazzate, pensò.

La fiamma spuntò dall’accendino e si allungò verso il cielo, finché non incontrò l’angolo del foglio. La carta prese ad annerire e a ripiegare su se stessa. Un attimo e rimase solo un pugno di cenere, subito dissolto dal vento.

Solo rabbia adesso.

Il dolore era finito.

1. Filippo e il suo mondo

Oristano, 15 febbraio 2004

Ormai non è più un bimbo. Elisabetta lo guardava attraversare sulle strisce pedonali. Il vigile urbano si spostò in mezzo alla strada e distese entrambe le braccia. Filippo Cau lo fissava con attenzione in attesa del segnale convenuto e, quando questi arrivò, venne quasi travolto dall’esuberanza degli altri pedoni, tra i quali vi erano molti suoi compagni di classe. Uno di loro lo spintonò e una cinghia dello zaino di Filippo scivolò dalla spalla, facendolo inclinare per una frazione di secondo. Elisabetta, attenta osservatrice della scena, provò l’istinto di staccarsi dall’automobile a cui era appoggiata per soccorrere il figlio; poi la ragione ebbe il sopravvento e si controllò.

Deve imparare ad arrangiarsi, si disse, reprimendo a fatica il senso di protezione materno. Filippo si bloccò al centro delle strisce, riassestò la pesante cartella e proseguì imperterrito verso la madre.

I due si rivolsero un cenno d’intesa con le mani, Elisabetta scaricò lo zaino del figlio sul sedile posteriore e si avviarono verso casa. Il passato è passato, si ripeteva sempre; concentrati sul presente. E deglutiva, ricacciando indietro le lacrime. Nel breve tragitto che separava la scuola media dalla casa in cui abitavano, non si sarebbero parlati.

«Un ragazzo eccezionale, signora Cau!» Era il ritornello degli insegnanti, quando andava ai colloqui, e non le importava che la chiamassero con il cognome del marito. Tutta la sua vita era vissuta in funzione del figlio, dell’unico figlio che avrebbe mai potuto crescere. Elisabetta sapeva che non c’erano pietismi o sentimenti di compassione nelle parole dei professori: Filippo era eccezionale. Adesso che il provveditorato agli studi gli aveva assegnato un insegnante di sostegno per quattro ore al giorno – e in questo, bisognava riconoscerlo, aveva rivestito un ruolo determinante la posizione che Umberto occupava all’interno della polizia – le cose erano ulteriormente migliorate e il ragazzo aveva colmato in breve tempo il gap nei confronti dei compagni di classe. Il passo successivo sarebbe stato l’installazione di un’apparecchiatura elettronica di riconoscimento vocale che, collegata a un computer, avrebbe trasformato in pixel e led luminosi le parole dei professori. In tempo reale. A quel punto Filippo sarebbe diventato come gli altri. Quasi come gli altri.

Elisabetta parcheggiò in strada, proprio davanti al condominio. Secondo piano senza ascensore, in un vecchio casermone quadrato che mostrava ben più dei cinquant’anni che aveva. Il pallore della tinta giallastra, usurata in più punti, lasciava intendere che quella fosse ancora la vernice originaria ma la donna non poteva saperlo; lei era nata a Cagliari, là aveva conosciuto e sposato il marito e là era nato Filippo.

Il presente, tornò a raccomandarsi. Pensare a ciò che era stato non serviva a nulla, se non a intristirsi.

«E questo non fa il bene del bambino» le aveva ripetuto mille volte la pediatra.

«La disabilità di Filippo è limitata a ciò che la sua natura gli impedisce di fare. Non sente e non parla» aveva aggiunto la dottoressa. «Ma tutto il resto funziona normalmente e, come in una specie di legge della compensazione, suo figlio svilupperà una particolare sensibilità in molti altri aspetti della sua esistenza. Dovrete stargli molto vicini, seguirlo, cercare di farlo sentire quanto più possibile normale.»

Parole sante.

Ma parole.

La maggiore difficoltà consisteva nel tradurle in fatti e comportamenti.

I primi tempi erano stati i più difficili. Tutti i bambini piangevano e svegliavano le loro madri durante la notte, Filippo no. Tutti i bambini si giravano quando qualcuno li chiamava, Filippo no. Tutti i bambini imparavano a dire mamma, Filippo no. Filippo non avrebbe mai detto mamma.

Elisabetta si sentì toccare dolcemente un gomito e guardò il figlio che le fece un cenno, poi annuì e Filippo si diresse verso la cassetta della posta dalla quale spuntava un giornale. Puntuale come sempre, il settimanale Motori a cui il ragazzo era abbonato stava lì già da diverse ore ma Elisabetta sapeva che voleva essere lui il primo a toccarlo. Uno dei tanti rituali della loro vita in comune. Filippo sfilò la rivista, la rimirò per qualche secondo e si diresse verso la porta d’entrata. Elisabetta si chiese per la milionesima volta in che tipo di mondo vivesse il suo unico figlio. Un mondo fatto di silenzio perenne; un mondo perfetto, sotto certi punti di vista, ma nel quale quella creatura era stata catapultata suo malgrado e ne recepiva la diversità, sia pur senza manifestarlo. Filippo guardava, osservava, leggeva e sembrava più grande della sua età, più adulto. Ma in fondo non lo era e la madre lo sapeva; e per capirlo non c’era bisogno che lui si andasse a rifugiare tra le sue braccia, come talvolta succedeva, bisognoso di essere stretto e rassicurato, con il calore del corpo e del respiro, più che con inutili parole.

La tavola era apparecchiata per due perché Umberto, salvo rarissime occasioni, non rientrava mai a pranzo. Filippo andò a lavarsi le mani e prese posto davanti al piatto vuoto, che ben presto sarebbe stato riempito con maccheroncini ai formaggi. Una vera delizia per il palato. Il telefono squillò proprio mentre stava scolando la pasta e la donna optò per continuare nella sua operazione; chiunque fosse stato, avrebbe potuto richiamare. Trascorsero alcuni minuti e il telefono suonò ancora; stavolta Elisabetta decise di rispondere.

«Pronto» disse, con voce atona.

«Sono io» si sentì rispondere.

«Non è un bel momento, Umberto.»

«State mangiando?»

«Appena iniziato. Puoi richiamare più tardi?»

«Non è importante» fece lui.

«Come vuoi» disse Elisabetta.

«A stasera» disse Umberto.

«A stasera.»

Elisabetta tornò a tavola e ricambiò lo sguardo interrogativo del figlio con un sorriso. Poi, usando le mani, gli spiegò che era il papà e che lo salutava. Il luccichio negli occhi di Filippo le confermò la sua adorazione nei confronti del padre. Un’adorazione assai poco ricambiata. Elisabetta deglutì e si apprestò, una volta di più, a consumare il pasto senza gustarselo affatto.

2. Un’altra vita

Olbia, 22 Febbraio 2004

Il viaggiatore scese dalla scaletta per ultimo, dopo che tutti gli altri passeggeri avevano già abbandonato la nave. Fuori pioveva, goccioline finissime e fastidiose. L’uomo provvide ad alzare il bavero del suo vecchio Barbour e si calcò in testa il berretto di lana prima di incamminarsi verso l’uscita del porto. Folate di vento sferzavano l’ampio piazzale in cui ora transitavano le poche automobili uscite dal ventre del traghetto, ma l’uomo non vi fece caso più di tanto immerso com’era nei suoi pensieri.

«A quest’ora non ci sono più corriere per Oristano» rifletté. «Prenderò la prima in partenza domani. Adesso sarà meglio che mi cerchi un alloggio.» Seguendo l’indicazione di un cartello che riportava la dicitura INFORMAZIONI, si avviò a quell’indirizzo lasciandosi dietro le spalle il mare burrascoso di Olbia.

La sua prima vita era finita per sempre a Vienna.

Quella mattina, nello studio notarile Holzenbacher & Stader, aveva scoperto di essere stato tradito. O, quantomeno, questo era ciò che gli avevano riferito.

Lui sapeva, aveva sempre saputo, che coloro che chiamava mamma e papà non erano i suoi veri genitori. Appena era stato in grado di capire senza esserne troppo traumatizzato, loro avevano ritenuto più saggio dirgli la verità. Lo avevano adottato all’età di due anni, prelevandolo da un orfanotrofio di Bolzano. Era il 1965 e, da quel momento, Amedeo e Luciana erano stati genitori perfetti. Fin troppo, a volte. Dopo ripetuti e inutili tentativi, i due si erano convinti di non poter avere figli e avevano compiuto il grande passo. Il fatto che undici anni più tardi fosse nata Angela andava collocato tra le beffe del destino, ma questo non aveva tolto nulla ai sentimenti che Amedeo e Luciana provavano nei suoi confronti.

Anzi.

«Che importanza possono avere i legami di sangue?» si era domandato spesso. «L’affetto e l’amore non vanno cercati nelle eliche del DNA, ma nel comportamento.»

Questo si era ripetuto mille e mille volte.

Fino a Vienna.

Poi, il cataclisma.

La madre che aveva sempre pensato morta, era viva. Anzi, non lo era più, stando alle parole del notaio Stader, un distinto signore in doppiopetto grigio fresco di lana, occhiali dalla montatura dorata e folti capelli sale e pepe che ne nascondevano parzialmente il viso. Horst Stader era stato nominato esecutore testamentario di Petra Lauck, defunta il 19 marzo 2003 a Wiener Neüstadt, all’età di cinquantanove anni.

Alla donna era rimasta solo l’eredità materiale da trasmettere al suo unico discendente. Petra si era prodotta nell’ultimo e unico atto della propria esistenza che potesse anche vagamente assomigliare alla redenzione. E così facendo, mentre si apprestava a salutare la compagnia, aveva sconvolto la vita di quel figlio ripudiato in gioventù.

L’uomo strinse con vigore il manico della valigia, in cui si trovavano, tra le altre cose, gli oggetti che avrebbero cambiato per sempre il corso della sua esistenza. La fuga era appena cominciata e già gli sembrava di non potercela fare. Rimpianse la noia, la monotonia e la normalità che avevano contrassegnato le sue giornate fino a undici mesi prima ed ebbe l’istinto di voltarsi indietro, risalire sul traghetto e tornarsene a casa. Ma non poteva. Aveva paura, dopo quello che gli era successo. Una serie di contrattempi e situazioni strane gli avevano suggerito quella soluzione, inoculando nel suo carattere mite e riflessivo il seme del dubbio e del timore; se i colleghi di lavoro l’avessero potuto vedere adesso non l’avrebbero più chiamato Manzoni, canzonandolo per via di quella passione che lo portava a inventare e scrivere storie che nessuno considerava. Questa volta era stato sospinto dall’occhio del ciclone, laddove regna la calma più assoluta, verso l’esterno e si sentiva protagonista di uno dei suoi racconti.

La pioggia si intensificò e l’uomo si affrettò verso l’ufficio informazioni, in cerca di un hotel dove poter trascorrere la notte. La prima tappa del suo viaggio.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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