Il fiore di Sara

Il fiore di Sara di Euro Grilli

E se nel passato ci fosse la risposta per il futuro?

Nel 2130, quando il Covid-37 continua a uccidere milioni di persone in tutto il mondo, Maggie Taylor, egittologa americana, scopre all’interno della stanza segreta della piramide rossa, risalente alla IV dinastia (4600 a.c.), la tomba del faraone Snefru. Nella stanza vi è un vaso con il disegno di migliaia di persone con la mascherina sul naso e sulla bocca tranne una fanciulla che ha il viso libero e un fiore bianco in mano.

Molto lontano dall’Egitto nel sito archeologico di Lepenski-vir in Serbia, vecchio di 7mila anni, altri due studiosi americani, Rod Heine e Mark Ross, fanno un ritrovamento analogo: in un bauletto di bronzo c’è una pergamena con il disegno di una giovane che ha in mano un fiore bianco e una tavoletta di argilla con una scritta fatta con caratteri cuneiformi.

Che in quegli antichi reperti si nasconda il segreto per sconfiggere il Covid-37?

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Il fiore di Sara:

1

«Signorina Maggie lei lo sa, qui al Cairo non piove quasi mai!»

«Gamal amico mio, lo so bene. Qui siamo già nel deserto. Però oggi non riesco proprio a sopportare il caldo e mi mette pensiero tornare laggiù, nella piramide.»

«Signorina Maggie, si riposi un po’! È ormai un mese che sta nascosta tutti i giorni sottoterra a cercare nessuno sa cosa.»

«Caro il mio Gamal, lo vuoi sapere? A volte mi chiedo anch’io cosa ci stia a fare».

In realtà Maggie sa bene cosa sta cercando, ma non si fida di nessuno e tace con tutti. Saluta il portiere con un gesto della mano, sposta la tenda, esce dal Crown Hotel e percorre a piedi i 300 metri che la separano da Al-Muiz Street dove ad attenderla c’è Farid, la guida che le fa anche da autista. Sono appena le 9 ma il caldo è già insopportabile e si fa fatica a camminare con la mascherina in mezzo alla gente sui marciapiedi con lo zaino, le piccozze e tutta la strumentazione sulle spalle. C’è già un gran via vai di persone. Tutti usano le precauzioni, qualcuno anche un minirespiratore: il nuovo virus, il Covid 37 in quasi 80 anni ha ucciso milioni di persone e continua a mietere vittime in tutto il mondo. Non si riesce a fermare perché muta in continuazione. Così velocemente che al confronto, almeno secondo le relazioni lasciate negli archivi, il Covid 19, quello che per tre anni tra il 2019 e il 2022 ha messo in ginocchio il pianeta, sembra un banale raffreddore. I vaccini non bastano, servirebbe un antidoto, un farmaco. La nuova pandemia è partita dalla penisola ugrofinnica, dagli allevamenti di visoni. Un virus letale per gli animali che poi, nessuno sa spiegarsi come, si è trasmesso all’uomo. Prima sei operai di un allevamento, poi dopo tre mesi 600 morti e un milione l’anno successivo. Terrificante. Ma nonostante tutto si va avanti, ci si aiuta con dosi di cocktail antivirali che rallentano un po’ la malattia e la speranza che un ricercatore riesca a inchiodare il genoma del virus impedendogli di mutare per trovare poi il modo di annientarlo.

Maggie Taylor, 35 anni, archeologa e glottologa della Brown University a Providence (Rhode Island), di lontanissime origini italiane (il suo quadrisavolo, tale Ubaldo Rossi, era emigrato dall’Umbria) è ritenuta una delle più importanti, se non la più importante, egittologa del mondo. È una bellissima ragazza con i capelli rossi, gli occhi azzurri, tante lentiggini, la pelle color della luna, tanto che anche con la mascherina non passa inosservata. Figlia unica di un imprenditore della Louisiana e di una professoressa di matematica di origini irlandesi, non ha vita privata, sta sacrificando tutto per il lavoro. Un paio di professori dell’università dove insegna, e perfino qualche aitante studente, hanno provato a correrle dietro. Puntualmente sono finiti contro un muro di gomma: Maggie ha sepolto ormai da anni («in un sarcofago della prima dinastia» dice spesso sorridendo a chi glielo chiede) il suo unico grande amore, tale Philip Norris, affascinante avvocato newyorkese sorpreso a letto con due di quelle che riteneva le sue migliori amiche. Amen. Nella sua vita da allora c’è spazio solo per il lavoro. Ha una passione viscerale per l’Egitto e i suoi segreti, e da più di un mese scava nelle viscere della necropoli di Dahshur, sulla riva occidentale del Nilo, non lontano da Il Cairo dove insistono tombe monumentali di strutture ed epoche diverse, autentici capolavori architettonici risalenti all’Antico e al Medio Regno. Tra tutte spiccano due piramidi della IV dinastia, circa 4600 anni fa: la piramide Romboidale e la Piramide Rossa. Fu il faraone Snefru, padre di Cheope a costruirle. La Piramide Rossa, alta quasi 105 metri ha una inclinazione di 43°. Prende il nome dal colore rossastro della pietra utilizzata nel nucleo, dal momento che il prezioso rivestimento calcareo bianco esterno è andato perduto. Si penetra all’interno da una discesa che conduce a tre camere situate in profondità.

Maggie sta cercando una quarta stanza dentro la pancia della piramide. Non ha prove certe sulla sua esistenza, solo qualche indizio. Il fiuto le dice che il faraone Snefru, che secondo la tradizione si ritiene non sia mai stato sepolto all’interno delle piramidi che fece costruire, si trovi invece proprio nella quarta stanza che nessuno ha mai trovato.

Lavora da sola. Farid la accompagna la mattina all’ingresso del sito e la va riprendere la sera al calar del sole. Maggie «la talpa», come la chiama Annie, farmacista che lavora a Cranston a pochi chilometri dalla sua Providence ed è l’unica amica vera che le è rimasta, sta tutto il giorno nel ventre della piramide a scavare. «Almeno qui il Covid non c’arriva» ripete spesso a se stessa mentre mastica l’inseparabile chewing-gum alla cannella. Ogni tanto esce a prendere una boccata d’aria. Si fa per dire. Il caldo è talmente opprimente che ogni volta bisogna versarsi una bottiglia d’acqua fresca in testa per refrigerarsi un po’. E poi giù, si torna dentro a scavare. Non le pesa scendere in profondità. Il problema per lei è salire in alto perché soffre di vertigini.

Quella mattina, come al solito, ha tirato via una mezza dozzina di borse di plastica di pietrisco, polvere, scarti di scavo. Il terreno però adesso sembra più abbordabile, in alcuni punti sembra cedere un poco. È sicuramente meno duro che in altre zone della terza stanza dove ci sono massi di granito imperforabile. Ad un tratto quando allunga la mano per rimuovere una pietra e con le dita sfiora qualcosa. È una parete di mattoncini, non sembra molto spessa. Prova ad allentarne alcuni e poco dopo riesce ad aprire un piccolo foro. Capisce che quella è la parete di una stanza. Un quarto d’ora di lavoro le è sufficiente per entrare dentro. Sembra l’anticamera di una stanza più grande. Accende una torcia supplementare e in un angolo vede un piccolo vaso che sporge da una parete, incastrato da millenni di sedimentazioni favorite dall’umidità e dalla polvere che hanno fatto corpo con il vaso. Sembra la parte levigata di un oggetto più grande. Accende un’altra torcia a led più potente, cerca di vederci meglio e si accorge che c’è un disegno. È semicoperto dalla polvere. Dalla tasca dei jeans tira fuori un pennellino e via via che lo ripulisce capisce che si tratta di un disegno. Il cuore comincia a batterle in gola: «Cavolo, ci sono!». Vorrebbe fare tutto e in fretta ma «quella cosa» è lì da quasi cinquemila anni. È come una vecchia signora, ha i suoi tempi, merita rispetto. Va avanti per quasi un’ora per liberare il vaso dalla polvere e dalle incrostazioni. L’immagine che sta riemergendo assomiglia sempre più a quella di una ancella che tiene in mano un fiore bianco. Quello che sembrava un baffo è in realtà il braccio della vergine proteso verso un sole, stranamente di colore nero, con una corona rosso fuoco dentro a un anello verde. Sotto ci sono una serie di segni strani, sembrano numeri disposti secondo una sequenza precisa. Guarda rapita, ma non capisce. Probabilmente ci sono altri segni, forse altri numeri che girano tutto intorno alla pancia del vaso. Le serve altro tempo. La suoneria del cronografo satellitare che porta al polso la riporta alla realtà e le ricorda che sono le 17, tra poco farà buio e deve tornare fuori. Farid l’aspetta. Dipendesse da lei rimarrebbe lì, mezza sepolta, fino al mattino seguente tanta è la voglia di tirar fuori quella cosa. Non vorrebbe più andarsene. Ma non è possibile e bisogna tornare in città. La voglia di farsi una doccia, di togliersi di dosso la polvere e la puzza di muffa la convincono a uscire dal buco. Ma prima ricopre di terra quella cosa, come volesse nasconderla. Quando Farid la vede tornare le chiede: «Come è andata oggi signorina Maggie?».

«Al solito Farid, al solito.»

Chissà perché, ma non si è mai fidata di quella guida- autista egiziano che anche da dietro la mascherina sorride troppo, è sempre troppo galante, troppo preciso, troppo servizievole, troppo perfetto, troppo tutto. Mentre sulla jeep stanno tornando al Cairo cresce in lei il sospetto che sia una «spia» al servizio del Ministero delle Antichità, l’ente che vigila sui ritrovamenti e ha occhi e orecchi dappertutto e in tutti i siti archeologici. Il viaggio dura un’ora durante la quale se ne sta in silenzio a «spippolare» con il digitalphonewatch, l’unico aggeggio sintonizzato con i satelliti che la tiene collegata con l’Università, la sua casetta a Providence, il suo mondo lontano quasi novemila chilometri.

2

Rod Heine e Mark Ross sono amici dai tempi del college. Entrambi sono innamorati delle belle donne e tutti e due hanno una vera e propria passione per l’archeobotanica, una disciplina di cui sono tra i massimi esperti al mondo. Questo li ha portati spesso a compiere insieme spedizioni in diversi posti del globo terracqueo per conto dell’Università di Boston, dove insegnano: Rod tiene un corso di bioarcheologia,

Mark di paletnobotanica. Non li ha fermati nemmeno il Covid 37. Si bombardano di Lattoferrina, vitamine e cocktail antivirali, che aiutano a migliorare la prevenzione e in caso di contagio combinati con i vaccini possono aiutare a non finire in camera di rianimazione. Ogni tanto, quando la sera si ritrovano a bere un bicchiere di buon whisky, magari Macallan che è sempre più raro, ci scherzano su e un po’ brilli si immergono in un delirio di onnipotenza tale da farli sentire immuni al morbo mortale.

«Mark qui non sembra esserci niente di interessante» esclama Rod semisommerso dalla polvere e dai detriti a più di cinque metri di profondità.

Armati di piccozze, torce, mascherine, guanti e visiere stanno scavando sotto una cinta muraria che risale a migliaia di anni fa. Sono le rovine di una città fortificata appartenente a un’antichissima civiltà.

Si trovano nel sito di Lepenski-vir (le Porte di Ferro), scoperto quasi un secolo prima nella Serbia orientale. È un’area archeologica che risale a circa 7000 anni fa, duemila in più della piramide di Giza.

«Che ti dico Rod? Qui non vedo niente di particolare. Sempre e soltanto roccia rossa, friabile. Ma di resti vegetali neanche l’ombra.»

Ormai da mesi scavano, setacciano, vanno alla ricerca di un segno, di una traccia. Qualche anno prima in una pergamena proveniente dall’area archeologica turca di Göbekli Tepe avevano rinvenuto un frammento di papiro sul quale con caratteri cuneiformi, simili a quelli dell’alfabeto fenicio, si narrava di un fiore bianco dai poteri «magici.» Fatto questo che li aveva indotti a pensare all’antichissima pergamena, vecchia di quattromila anni, ritrovata nel 2015 dall’archeologo belga Wael el-Sherbiny, associato dell’Università di Lovanio, che riportava una traccia simile.

Mentre stanno per abbandonare lo scavo la piccozza di Rod picchia contro qualcosa di particolarmente duro. «Potrebbe essere granito» pensa. Ma il suono è stato troppo metallico e allora insieme a Mark decidono di scavare su due fronti diversi. Così, piano piano, riescono a liberare quel qualcosa dalla morsa delle pietre e del terriccio che per millenni l’hanno inchiodata a quasi sei metri di profondità. Non credono ai loro occhi: è strabiliante! È un contenitore di metallo, probabilmente in bronzo, abbastanza pesante. È una sorta di bauletto, finemente cesellato e in alcune parti sembra dorato. Un manufatto bellissimo, unico, raro, prezioso.

«Dai apriamolo!» dice Rod gasato a mille.

Mark con pazienza, aiutandosi con un coltellino, cerca di forzare la chiusura bloccata dal terriccio e da sedimentazioni e ossidazioni millenarie. A fatica riesce ad «allargare» l’incastro. Il cofanetto si apre e mostra ai loro occhi tutto il suo contenuto: statuine in legno e un pezzettino di pergamena, grande la metà della metà di un foglio di quaderno. Il tempo l’ha rovinata ma si riesce a scorgere una parte del disegno di un fiore, simile a quello di colore bianco di cui si era trovata traccia negli scavi in Turchia, nell’area mesopotamica.

«Rod che pensi?»

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