Il bacio della mantide

Il bacio della mantide di Stefano Di Marino

E se il serial killer fosse una donna? Una manipolatrice, un’incantatrice criminale?

Fine stagione, il Lido di Latina si svuota. Gli ombrelloni si chiudono, le ombre si allungano eppure, nello stesso albergo, si ritrovano i protagonisti del celebre caso di Moira la Pazza, la serial killer rinchiusa in un manicomio criminale. Fra loro l’ispettore di polizia che ha risolto il caso, uno showman in declino e la sua stralunata fidanzata, un criminologo di successo, un’ambigua infermiera e la sua giovane amica che, indipendentemente gli uni dagli altri, hanno deciso di trascorrere una vacanza all’Hotel Lungomare.

Una tempesta improvvisa isola l’hotel e gli ospiti cominciano a essere misteriosamente uccisi. Mentre emergono segreti legami e scomode verità comincia a farsi strada il sospetto che nulla avvenga per caso e che sia in atto una vendetta. Quale significato ha il quadro che Rossana, direttrice dell’albergo, espone nell’atrio? Anche lei ha conosciuto Moira la Pazza uccisa da una mano ignota durante un tentativo di fuga?

Gli intrighi, le passioni e la tensione dell’Italian Giallo degli anni ‘ 70 rivivono in un romanzo che sembra un film.

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Il bacio della mantide:

1

Milano

Uscito dalla doccia, Franco Belli si strofinò vigorosamente con il telo di spugna che lanciò sul bordo del box. Infilò la biancheria, i pantaloni scuri, le scarpe di cuoio lavorate a mano, la camicia nera e la cravatta blu petrolio. A quel punto, soddisfatto del suo aspetto, si avvicinò al tavolino dove aveva lasciato la pistola con la fondina, l’orologio e il cellulare.

La ragazza sgusciò nuda dalle lenzuola e posò le dita smaltate sul calcio della Beretta.

«Devi proprio andare?»

Franco le sottrasse l’arma che fissò alla cintura dietro la schiena, guardando la giovane negli occhi.

«Assolutamente, sono già in ritardo. Oggi abbiamo una riunione con il Vice Questore.»

Lei sembrò ritrarsi nel bozzolo del letto sfatto, facendo le fusa. «È vero che tieni sempre il colpo in canna e non metti la sicura?» domandò mordicchiandosi una ciocca ricciuta. Appetitosa.

Franco sorrise appena. Come nascono le leggende…  «No, e ti confesso una cosa. Quando non sono in servizio la pistola è scarica.» Cogliendo lo sguardo incuriosito della ragazza, decise di concederle quel piccolo spettacolo di virilità che, alla fine, non faceva male a nessuno. Trasse l’arma d’ordinanza dalla fondina e ne espulse il caricatore. Lo posò sul comodino e ne prese uno dalla custodia inserita nell’apposito contenitore. «Questo è vuoto, dicevo. Niente imprudenze, niente pericoli.»

Inserì nel calcio il serbatoio pieno, tirò indietro il carrello provocando una serie di scatti che il loro effetto teatrale l’ottenevano sempre, e premette il pulsantino della sicura prima di infilare tutto nella fondina. 

 «E se arrivano i banditi?» domandò lei con quella voce che identificava i banditi  con un’entità astratta, lontanissima dal suo mondo.

Franco continuò a giocare al duro. «Posso estrarre più veloce di loro. O farli fuori a pugni. O col coltello.»

Marcella sgranò gli occhi. Lui le accarezzò il mento baciandola sulle labbra.

«Io ho sempre una lama», le disse.

Marcella, a letto, aveva uno sguardo eccitato. Si rigirò sul giaciglio mostrando le sue nudità come offerte. Una tentazione.

Lui sorrise poi scosse appena il capo e infilò la giacca.

  «Mi piacerebbe, ma sono in ritardo.»

  «Perché non sei commissario?» domandò Marcella con un’espressione un po’ imbronciata.

«Perché non ho fatto l’università»,  rispose lui. Il resto erano fatti suoi e lei lo intuì dallo sguardo che Franco le scoccò dalla soglia.

«Mi telefoni?» domandò, gattina più che mai.

«Sicuro.»

Franco uscì dall’appartamento dicendosi che, probabilmente, non l’avrebbe rivista più. Vent’anni meno di lui, buona società milanese, viziata. Senza parlare delle pastiglie che Franco aveva finto di non aver visto nel bagno. L’aveva conosciuta a una serata ed era finita nel modo prevedibile. Nel modo in cui finiva tutte le volte. Ristorante, discoteca, sesso praticato con vigore ed entusiasmo. Lui era lo sbirro famoso, quello dei giornali. Non pensava realmente che a Marcella interessasse vederlo per più di un paio di volte. Giusto per rotolarsi a letto e farlo vedere in giro alle amiche. Il fascino del pericolo.

Franco si aggiustò il nodo alla cravatta guardandosi nel riflesso della cabina dell’ascensore. Marcella viveva in un palazzo lussuoso lungo Viale Maino. Pulitissimo e asettico. C’era persino la filodiffusione nei corridoi. Franco salì nella cabina e premette il pulsante di discesa. Sfiorando i quarant’anni poteva essere soddisfatto di se stesso. Chissà se suo padre e suo fratello lo sarebbero stati? Loro erano stati sbirri diversi. Sempre in divisa. Morti sulle strade.

Il pensiero portò un velo sul viso di Franco. Un’ombra sugli occhi scuri, i lineamenti fini, il cenno di barba lasciato appositamente incolto, ma non a sufficienza per suscitare reprimende in Questura. Lui era il poliziotto spericolato, il duro. Ma non un incosciente. Con la gerarchia cercava di non fare a cornate. Lui faceva comodo a loro sinché andava sui giornali, ma c’erano limiti che non poteva superare.

Si chiese se, alla sua età, avesse senso continuare quel genere di sceneggiata. Uscendo dal cancello, diretto alla sua Micra, decise improvvisamente di sì. Proprio non si vedeva come certi suoi colleghi con il ventre che debordava dalla cinta, i polmoni intasati dalla nicotina e la testa lontanissima dal lavoro, occupata in dispute familiari o interessi da uomini di mezza età. Calcio, Tv, donne sognate e mai conquistate. Lui continuava a ingannarsi, a volersi sentire giovane. Un eroe da film, malgrado tutto.

Si strinse nelle spalle. Milano, a fine settembre, era già fredda. Il cielo pareva una pentola di peltro rovesciata e forse, prima di notte, avrebbe piovuto. Compì ancora qualche passo immaginando come sarebbe stata la sua giornata. Casi grossi non ce n’erano, ma si poteva sempre sperare in qualche novità.

 E, per il vecchio adagio che raccomandava di non desiderare nulla, altrimenti si poteva ottenere ciò che si anelava e allora sarebbero stati guai, le novità arrivarono. Da un angolo. Un movimento rapido che Franco intuì appena. Un presentimento più che altro.

Una figura nera, con un cappotto e un cappello scuro di quelli fuori moda ma che, calcati sul viso, impedivano di riconoscere il volto.

Franco annaspò per un istante. Vide la mano che usciva dalla tasca. Riconobbe la 38 special, piccola, a tamburo, micidiale a quella distanza. Tentò di voltarsi, di reagire. La mano corse persino alla pistola.

Niente da fare. Due spari a bruciapelo. Quasi colpi di tosse nel traffico mattutino. Vampate ridotte e refoli di fumo.

Ma un terrificante bruciore alla gamba. Il ginocchio esplose. Sangue dappertutto. Franco cercò disperatamente di aggrapparsi alla sua leggenda, ma riuscì solo a scivolare lungo la sua auto.

Prima di svenire vide lo sconosciuto che allungava il passo e svicolava all’incrocio successivo senza che nessuno si accorgesse di nulla.

2

Un anno dopo

L’allarme, una sirena lacerante, continua, più simile a un urlo che a un suono prodotto da un’apparecchiatura meccanica, iniziò di colpo, diffusa in tutta la struttura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario A.S. di Aversa.

Erano quasi le sette di sera. Giornata piovosa, forse la prima che annunciava il cambiamento di stagione dopo un’estate insolitamente calda e mite, protratta sino ai primi di ottobre.

Il direttore Lanzoni, uomo posato, elegante, con il viso appena indurito dagli anni trascorsi in quella istituzione che, con i suoi centottanta ospiti, richiedeva civiltà e polso fermo in eguale misura, stava radunando le pratiche e si preparava a tornarsene a casa dalla famiglia. Sulla scrivania dell’ufficio erano impilate le cartellette rigide, divise in due categorie. Quelle che avrebbero avuto l’opportunità di arrivare sino alla commissione per il riesame della condizione dei detenuti e quelle che, ancora una volta, sarebbero state respinte. La seconda categoria superava nettamente la prima. All’A.S. di Aversa non si arrivava per sbaglio. La struttura, come quelle simili che dalla metà degli anni ’70 avevano sostituito i manicomi criminali, ospitava solo soggetti definiti ad alta pericolosità. Persone disturbate, feroci, pericolose per se stesse e per i loro simili. Nella maggior parte omicidi, che avevano praticato la loro follia distruttrice con selvaggia brutalità. Consapevoli o meno, guidati da voci o da istinti che neanche la psichiatria riusciva mai perfettamente a comprendere. Erano i dannati. Quelli che la società non voleva vedere. Placatosi lo scalpore sulle pagine dei giornali, venivano rinchiusi in posti come quelli. Non puniti in nome di un principio di civiltà e giustizia che invocava l’infermità mentale come giustificazione, ma, in realtà, destinati a qualcosa di peggiore, di più oscuro della detenzione in un carcere normale o persino di una esecuzione. L’oblio.

L’ospedale psichiatrico criminale A.S. di Aversa era, secondo la definizione del direttore Alberto Lanzoni, un inferno in terra. Spesso si era chiesto se fosse giusto, civile, che esistessero luoghi come quello, ma, alla fine, era sempre giunto alla stessa conclusione. Se non qui, dove? Dove avrebbero potuto tenere esseri che di umano non avevano già più nulla al loro ingresso e che, con gli anni, malgrado terapie e medicine, peggioravano sempre più precipitando in un gorgo senza fondo?

In certi casi non si poteva curare, guarire, redimere. Si poteva solo sedare. Questa era la sua opinione e la ragione per cui il suo parere era, nella maggior parte delle situazioni, contrario a un riesame delle condizioni del soggetto che avrebbe aperto le porte a un eventuale reinserimento.

 L’idea stessa gli metteva paura.

 Là dentro c’erano creature tormentate, così irrecuperabilmente sprofondate nel male, che il solo pensiero di lasciarle tornare in mezzo agli altri lo raggelava.

Quando il segnale scattò Lanzoni rimase quasi fulminato. Non accadeva spesso. Non accadeva mai, per la verità. Spinto da un impulso, si alzò e andò alla finestra. Il suo ufficio, al terzo piano dell’edificio principale, si affacciava sul cortile interno occupato da ampi giardini in quel momento vuoti sotto la pioggia che cadeva furiosa. Oltre il muro di cinta c’erano le campagne del casertano, i campi incolti, i fossi, un percorso di guerra che andava a lambire la terra dei fuochi dove bruciavano discariche abusive. Con il calare della luce e quel maledetto segnale che lacerava i timpani, era uno scenario dantesco. Lanzoni appoggiò le mani al vetro, sforzandosi di distinguere qualcosa sotto la tormenta. Un camice bianco, alcune divise. Sognò che fosse tutto un malinteso. Che si concludesse in fretta. Quasi volle immaginare le tute dei sorveglianti che apparivano nel viale e circondavano il fuggiasco atterrandolo e riportandolo all’interno della struttura ben prima che avesse potuto superare il muro. Tutto sarebbe finito in poco tempo. Tutto sarebbe tornato normale.

Sorrise. Là dentro non c’era niente di normale. E, infatti, il parco interno restava desolatamente vuoto, le panchine, le siepi, gli angeli, fustigati dal vento e dalla pioggia.

Niente.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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