Essere o non essere Shakespeare

Essere o non esseere Shakespeare - Giada Trebeschi cover front

Essere o non essere Shakespeare di Giada Trebeschi –

Non si sentiva il bisogno di un altro libro sul Bardo, direte voi, su di lui è già stato scritto tutto! Vero, il materiale su di lui è immenso e variegato, adorante e plurilingue, e potrei persino essere d’accordo con voi, se non fosse che al genio, bisogna pur sempre continuare a inchinarsi.I risultati di menti straordinarie come Leonardo o Shakespeare, Einstein o Copernico devono, a mio parere, essere costantemente studiati, avvicinati, insegnati, compresi fino in fondo. È l’unico modo che abbiamo per poterci sedere sulle spalle dei giganti del passato sperando, pur nella nostra infinitesima piccolezza, di riuscire a vedere qualche metro più in là di quanto non avessero fatto loro. Per farlo però dobbiamo arrampicarci alle loro altezze, vedere il mondo rispecchiato nei loro occhi, nelle loro opere, e cercare d’intuire fra i diversi frutti della loro arte straordinaria, schegge di quel divino di cui, da sempre, cerchiamo prova.
E allora seguitemi in quest’arrampicata che vi racconterà delle ombre e dei chiaroscuri dell’anima tratteggiati dal Bardo come fossero pittura, dei reietti sociali, delle donne di conoscenza linguacciute e ribelli. Osserveremo i principi fondanti dell’horror e del fantasy, analizzeremo diatribe di ordine teologico-giuridico, polemiche sociali, e capiremo che il teatro è il primo e unico vero mass-media della storia. Useremo il teatro come fonte storica collocandolo a metà fra la letteratura e l’arte poiché è fonte visiva, è parola nata per essere ascoltata e vista, non per essere intimamente letta. Per questo motivo, dulcis in fundo, abbiamo deciso di inserire tre pièces teatrali originali che, come in un labirinto di specchi, deformano, allungano, rimpiccioliscono l’immagine di Shakespeare che però resta pur sempre riconoscibile eppur mutato in un gioco infinito sul cruciale quesito dell’essere o non essere.

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Premessa

Non si sentiva il bisogno di un altro libro sul Bardo, direte voi, su Shakespeare è già stato scritto tutto e ancora più di tutto, non ci servono altri saggi, un’altra biografia, altre osservazioni critiche! Certo, il materiale su di lui è immenso e variegato, adorante e plurilingue, e potrei persino essere d’accordo con voi, se non fosse che, al genio, bisogna pur sempre continuare a inchinarsi.
I risultati di menti straordinarie come Leonardo o Picasso, Einstein o Copernico devono, a mio parere, essere costantemente studiati, avvicinati, insegnati, compresi fino in fondo. È l’unico modo che abbiamo per poterci sedere sulle spalle dei giganti del passato sperando, pur nella nostra infinitesima piccolezza, di riuscire a vedere qualche metro più in là di quanto non avessero fatto loro. Per farlo però dobbiamo arrampicarci alle loro altezze, vedere il mondo rispecchiato nei loro occhi, nelle loro opere, e cercare d’intuire fra i diversi frutti della loro arte straordinaria schegge di quel divino di cui, da sempre, cerchiamo prova.
Di nuovo Shakespeare dunque, e il suo teatro ma analizzato dal punto di vista di uno storico di professione. Una ricerca basata su un’idea vecchia e nuova insieme che considera il teatro come il primo vero mass-media della Storia dell’uomo.
È risaputo che, fino a poco più di cento anni fa, la popolazione fosse per la maggior parte analfabeta. Non c’era però alcun bisogno di saper leggere e scrivere per vedere uno spettacolo, per sentire e imparare dalla viva voce degli attori. Il teatro ha dunque un ruolo fondamentale non solo come luogo di semplice intrattenimento ma, soprattutto, come strumento d’insegnamento, di propaganda e persino di polemica nei confronti dell’ordine stabilito. È dunque in quest’ottica che analizzeremo i testi letterari conosciuti anche dal grande pubblico analfabeta elisabettiano, prendendo a esempio alcuni testi shakespeariani nel tentativo di vedere in essi l’immagine riflessa della Storia a conferma dell’interpretazione che dei fatti daremo.
Il tramite di questo studio sarà dunque il palcoscenico con le sue sottigliezze e le sue allegorie poiché il teatro, proprio come l’immagine, ci consente di rappresentare il passato in maniera più vivida, rappresentando un genere di prova storica paragonabile a una testimonianza oculare[1].
Marc Bloch diceva, e non possiamo che concordare con lui, che la storia è la scienza degli uomini nel tempo e che «la diversità delle testimonianze storiche è quasi infinita. Tutto ciò che l’uomo dice o scrive, tutto ciò che costruisce e che tocca, può e deve fornire informazioni su di lui»[2].
Poiché uno storico generalmente usa per le proprie ricerche fonti materiali, cioè oggetti e manufatti, fonti iconografiche o artistiche e fonti documentarie per ricavare gli indizi per una miglior conoscenza del passato[3], aggiungeremo ora a quest’ultime anche la forma più alta di teatro elisabettiano, e cioè quello del Bardo di Stratford-upon-Avon, fra le fonti indispensabili per la nostra ricerca.
È chiaro che, la raccolta delle fonti disponibili sia solitamente compiuta da molti specialisti di settore, come archeologi, storici dell’arte, plaleontologi, paleografi solo per citarne alcuni, e che poi allo storico spetti il compito di mettere insieme tutte le informazioni per ottenere una visione d’insieme quanto più precisa possibile. Il lavoro di chi racconta il passato e, a ben vedere, di chiunque si applichi in studi umanistici, non può essere, infatti, inteso a compartimenti stagni, non avrebbe nessun senso, e non aiuterebbe a vedere il complesso di tutte le tracce che portano alla risoluzione del caso.
Un caso, dicevamo, proprio come se si trattasse di un’indagine di polizia, poiché non è certo fuori luogo paragonare il lavoro di ricerca storica a quello di un investigatore che raccoglie gli indizi come fossero le tessere di un mosaico da ricostruire.
Ma se le immagini dell’arte aiutano «i posteri a sintonizzarsi con la sensibilità collettiva di un’epoca passata»[4], la letteratura racconta qualcosa di più reale e importante di se stessa[5] rivelando il contesto sociale, politico e ideologico percepito dall’autore. L’artista e lo scrittore sono allora fra i più importanti specchi della società in cui vivono e operano e, senza il loro aiuto, non arriveremmo a capire il punto di vista di chi quel passato lo ha vissuto davvero[6].
La prima parte di questo volume è dedicata allo studio trasversale storico e teatrale delle opere ed è divisa in saggi che si occupano di argomenti specifici.
Il teatro come specchio storico della società chiarisce il punto di partenza cui abbiamo già brevemente accennato in questa premessa e siamo certi possa costituire una buona base sulla quale iniziare uno studio superiore più approfondito.
Con L’idea dei due corpi del re e la polemica dogmatico-giuridica nel Richard II prenderemo in esame una diatriba di ordine teologico-giuridico di grandissima impotanza nel periodo in cui Shakespeare scriveva in quanto racconta i dubbi e le difficoltà relative alla legittima successione di Elisabetta Tudor.
Dalla regina vergine si passerà poi alle Donne ai margini, un saggio che affronta il tema, ancora attualissimo, della posizione delle donne di conoscenza, linguacciute e ribelli nella società.
Il saggio Reietti Sociali: il negro e l’ebreo si occupa di quello che la società elisabettiana e non solo quella, pensava di queste due figure liminali, respinte e indesiderate.
Ombre tratta dei chiaroscuri, dei fantasmi, dei personaggi malefici o che appaiono tali, di tutte quelle ombre insomma che si nascondono fra i versi shakespeariani e che sono tratteggiate dal Bardo esattamente come Caravaggio le dipinge sulla tela.
In principio era il fantasy è un saggio inedito che dimostra come tutta la letteratura, per dirla con Borges, dovrebbe essere considerata fantastica. Senza la magia della parola e il fantasy nessuna letteratura, compresa quella teatrale, potrebbe, infatti, esistere.
Abbiamo dunque scientificamente usato il teatro, come fonte storica, ma è una fonte che collocheremo a metà fra la letteratura e l’arte. Difatti, la letteratura teatrale pur essendo una fonte documentaria è molto più mobile e flessibile grazie alla sua peculiare caratteristica di adattabilità alla scena. Allo stesso tempo, è anche una fonte visiva giacché è parola nata per essere ascoltata e vista, non per essere intimamente letta per questo, dulcis in fundo, abbiamo deciso di inserire tre pièces teatrali originali.
Nella prima opera A letto con… Willy! l’intenzione è quella di condurre lo spettatore attraverso piú di una pièce shakespeariana alla volta in un tempo relativamente breve, in una girandola di echi e suggerimenti che, ci auguriamo, spingano fin dalla prima lettura a leggere a voce alta, a recitare, magari a più voci, il testo proposto.
Il secondo dramma La tragedia del re di Scozia, è caratterizzato dalla presenza del fool che non c’è però nell’opera originale. Abbiamo deciso di inserire questo personaggio, perché è quel giullare, quel matto che Shakespeare usa per sbeffeggiare i potenti e la società, senza paura di condannarne le mancanze. Questo personaggio dolce e amaro insieme, crea spesso scompiglio negli animi degli altri personaggi e del pubblico ma non ha il potere di influire sulla trama.
È come se egli osservasse quello che succede in scena commentandolo dall’esterno, come se gli altri personaggi non fossero altro che pesci in un acquario; pesci che lui, a volte, ha il permesso di sfiorare ma che normalmente preferisce sbeffeggiare. Il matto, il servo, ridicolo e clown che corrompe le parole, che usa la velocità d’ingegno per raccontare la verità, un privilegiato che, nascosto dietro a una finta pazzia, può azzardarsi a dire qualunque cosa.
Il fool, dunque, proprio per le caratteristiche appena descritte ci accompagnerà alla presenza di Macbeth. Come abbiamo già sottolineato, nella tragedia originale non appare nessun giullare ma l’idea della pièce La tragedia del re di Scozia nasce proprio dalla volontà di provare a mettere in scena un Macbeth raccontato non solo da se stesso ma anche da una voce esterna, la voce di un narratore onniscente che ne scandisca la discesa agli inferi. In fondo non nasce forse il fool dal buffone di derivazione popolare, dallo Zanni della commedia dell’arte, dai Vices (i Vizi) dei Morality Plays medioevali? E dove andare a cercare i Vices se non nella bocca del Leviatano?
Ma se il fool è paragonato a un folletto maligno, come per sua stessa ammissione lo anche è Puck, il giullare di Oberon in Sogno di una notte di mezz’estate, non dovrebbe esserlo allora anche Iago che addirittura ci confessa d’aver concepito un piano che solo l’inferno e la notte porteranno alla luce? E dunque non poteva che essere Iago il personaggio principale della riscrittura per il teatro-danza Iago. O della gelosia.
In quest’ultima pièce, tutto l’Otello gira attorno al punto di vista di Iago che non esce praticamente mai di scena e che si avvale non solo delle parole ma anche dei movimenti per spingersi fino alla danza di morte finale che lo vedrà ballare sulle sue vittime. La musica per le danze e le pantomime è, per ovvi motivi, il tango.
Che altro aggiungere?
Buona lettura!

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Introduzione
di
Elena Frasca
– Università di Catania –

Il rigenerarsi benefico del ciclo vitale dell’umanità che, secondo i rigidi paletti dettati dalla didattica della storia, segna il traghettamento dall’età di mezzo a una nuova era contraddistinta da sintomi di modernità, passa attraverso una renovatio delle menti e l’approssimarsi di nuovi virgulti nelle anime.
L’uomo, tassello significante nello schema complesso di un universo sconfinato e misterioso, decodificato mediante complicate congiunture astrali e rigurgiti di una fede flagellante, trova il suo spazio nel mondo, divenendo il fulcro attorno al quale ruotano circostanze e avvenimenti, inseguendo una wheel of fortune che, adesso, avrebbe girato non secondo i capricci di un Dio vendicatore, ma grazie alla virtus individuale.
È il Rinascimento, la renaissance di Jules Michelet e poi di Jacob Burckhardt, forse strascico e degno punto di arrivo di quell’autunno del Medioevo di cui parla Huizinga, certamente un sistema di pensiero che nasce dalle ceneri di un impianto dogmatico e tradizionale che segna le prime incrinature e che, di contro, conosce un rinnovato vigore sulla scia del neoplatonismo e del rigore filologico, delle innovazioni tecnologiche e della spasmodica ricerca simbiotica dell’armonia degli antichi.
Il culto dell’immagine, l’arte dell’apparire e del sorprendere guida pennelli, scalpelli e penne di artisti tormentati che inseguono il fine ultimo di ammaliare le masse, di suscitare emozioni attraverso stratagemmi eclettici e astuzie trionfalistiche, di stupire e di dissimulare.
Ma anche di raccontare.
E di esprimere il dissenso.
Il parallelismo tra i rivoluzionari Caravaggio e Shakespeare, ciascuno nel proprio campo d’indagine e di espressione, coglie appieno le sfumature di un’intera epoca, segnata dai rigori post tridentini e dal conformismo impositivo della cosiddetta Controriforma.
La ricerca della verità, di natura e di morale, è ampiamente espressa in entrambi i casi e in ambedue le arti, anzi, nelle tre arti: la pittura, la letteratura e il teatro.
Le fonti teatrali divengono così documenti storici, abilmente manipolati dall’autore della pièce, perfettamente conscio di quanto lo strumento in suo possesso rappresentasse un’arma insostituibile per veicolare pensieri e idee attraverso l’utilizzo di parte dei cinque sensi e di come tale strumento potesse raggiungere diversi interlocutori, anche quelli senza lettere e senza conoscenza del latino.
È l’opinione pubblica insorgente che si affaccia con pioneristica curiosità tra le assi di un grande palcoscenico.
Giada Trebeschi ci conduce per mano nel mondo immaginifico e tuttavia tangibile creato dal genio di William Shakespeare, attraverso spazi e luoghi impressi nel tempo, in compagnia di personaggi caratterizzanti che sviscerano fin nel midollo virtù e bassezze dell’umanità e che – sottolinea con forza l’autrice – sono molto più di ombre fredde e quasi spettrali che si muovono sul palcoscenico.
Ombre.
Sagome inanimate che prendono forma vitale non solamente e non soltanto grazie al corpo di questo o di quell’istrione cui è affidato il compito di dar loro movimento e voce. L’alone di vitalità è un omaggio che il celebre playwright dona alle sue creature sin dal momento in cui si accosta al tavolo e intinge la penna nell’inchiostro.
Ombre.
Contorni sfumati di tormenti dell’anima.
Gelosia, follia, risentimento, rimorso. Sono questi i feelings che straziano le menti dei più noti personaggi shakespeariani; sono questi i motori propulsori che rendono tali personaggi immortali.
Il Bardo pennella i suoi eroi con un rigore quasi maniacale, forgiandoli e plasmandoli, tirandoli fuori dalla semioscurità della pagina e collocandoli sul palcoscenico che prende vita.
Sovrani e uomini di potere, aristocratici e nobildonne vengono accostati quasi con candore a personaggi dalla dubbia moralità, talvolta negletti dalla società, come le streghe, più spesso collocati in prossimità dell’apice, come i fools, quasi sempre guardati con sospetto o, almeno, con imbarazzante disagio.
Ma sono proprio loro il negativo della fotografia. Sono loro le ombre che, lentamente, assurgono al ruolo di sagome; sono loro che escono all’esterno dell’alone che le contorna e che le sfuma, ponendosi con sfacciata prepotenza al centro del proscenio.
Personaggi, feelings, tormenti.
Lo schermo di Shakespeare s’illumina gradualmente, in uno stillicidio di sensazioni e di emozioni.
Il palcoscenico del mondo shakespeariano si affaccia incontenibile nei meandri contorti di un’Europa scossa da conflitti dinastici e religiosi, da traumi geografici e antropologici, da interrogativi ancestrali e inquietudini correnti.
Il mondo alla rovescia – sapientemente raccontato da Peter Burke – s’insinua subdolo nelle anse della cultura popolare, trova un suo spazio vitale nella percezione del diverso, inteso come elemento oppositivo, divergente dalla rassicurante strada maestra, entità che rappresenta il sé capovolto, posto ai limiti della marginalità sociale.
Anche Shakespeare, mattatore assoluto del redivivo teatro inglese di matrice elisabettiana, dona forza e vitalità a personaggi alla rovescia.
Shylock, l’ebreo, e Otello, il moro, uomini apparentemente relegati ai lembi di una società conservatrice e perbenista che li osserva sprezzante dall’alto di un piedistallo permeato di altero conformismo. È proprio l’autore di Stratford-upon-Avon a rovesciare le cose; è la sua penna a strappare gli esclusi sociali dal fondo oscuro entro il quale li si vuol vedere confinati; è la sua prorompente arte a collocarli con forza sul palcoscenico, a rivestirli di dignità e a far sì che i margini vengano sorpassati.
Personaggi che si muovono aggraziati tra le righe delle opere letterarie e tra le assi rumorose del palcoscenico, circondati da un alone di mistero e da un’aura di magia.
Ed è proprio il tema della magia, dibattuto animosamente nelle aule dei processi inquisitoriali e osservato, quasi toccato, da un pubblico curioso e assetato di torbido spettacolo che assiste alle alte fiamme degli autos da fé, a ritornare puntuale, come un refrain, in tante delle opere shakespeariane e a dare anima e sostanza ad alcuni dei suoi personaggi più vigorosi.
Il magico, l’esoterico, l’occulto, accompagnano tuttavia non soltanto tristi uomini e donne destinati al rogo.
Uomini di scienza, impegnati a scrutare empiricamente l’universo e la natura, si muovono con dimestichezza nei campi sconfinati della scoperta, miscelando abilmente arcano e rigore scientifico, credenze popolari e indiscutibili assiomi matematici. Alchimia e chimica, astrologia e astronomia convivono pacificamente persino nei laboratori di Keplero e di Newton. Non è una sovrapposizione di antico e di moderno; non si tratta di residui di un passato oscuro che torna per falsare il progresso della scienza. È, piuttosto, un elemento significativo che gioca un ruolo di una qualche importanza nell’evoluzione piena del pensiero scientifico.
La magia reca con sé, poi, un mix esplosivo di pensieri e di sentimenti, spesso legati al tema della fertilità e a quello della morte, attraversando trasversalmente il campo della fenomenologia miracolistica e sovrannaturale che, il più delle volte, viene battuto dalla donna.
Le streghe, donne ai margini della società benpensante, agli occhi di Shakespeare assumono contorni fisici che vanno al di là di facili stereotipi e di banali personificazioni. Si rivestono però di quei tratti sostanziali che facilmente le rendono condannabili agli occhi di una collettività tradizionalista e giudiziosa, preoccupata di non deviare dai rassicuranti binari del corretto vivere civile.
E una donna che osa deragliare verso contesti differenti da quelli che la società ha stabilito per lei non può non essere ritenuta condannabile.
È Shakespeare, un uomo della prima età moderna, a dare voce a queste donne ai margini, da lui viste quasi con indulgenza e gratitudine per quanto possono offrire agli occhi arguti del genio letterario che, in loro e nelle loro imprese, ravvisa elementi di caustica innovazione.
Magia, mistero, immaginazione danno vita a un genere letterario e teatrale destinato a risiedere stabilmente tra le molteplici sfaccettature dell’arte e della cultura, incardinato sulla via che condurrà, in tempi assai recenti – osa la Trebeschi – verso quel fantasy di cui lungamente ci parla l’autrice, marcando talune sottigliezze che inducono a riflettere, accostando coraggiosamente Shakespeare a Tarantino, svelando allusioni neanche tanto sottili tra le opere del Bardo e i capisaldi attualissimi del genere fantascientifico.
La fantasia, l’immaginifico rimangono i tratti essenziali di tante delle opere del nostro playwright il quale, tuttavia, non disdegna di scomodare personaggi storici di una qualche valenza per portare alla ribalta fatti ed eventi coevi, per dare voce a dibattiti e a discussioni dai toni spesso sferzanti.
Critiche ai costumi sociali, riferimenti malcelati a malumori del popolo e a inquietudini sociali, rimandi a questioni economiche segnate da primordi inflazionistici e da preoccupanti recessioni agrarie.
E, ancora, investigazione profonda dell’animo – interiore ed esteriore – di un re, immagini sfaccettate di un prisma dai colori infiniti che rivela le maglie imponenti della sacralità sovrana, rivestita di un cocktail succulento di ritualità e simbolismo, di poteri taumaturgici di blochiana memoria e di fattezze imperiture e inattaccabili di cui solo un sovrano di sangue può fregiarsi con orgoglio e dignitas.
Ed è proprio il teatro, ancora, a stimolare la fantasia della Trebeschi che rilegge, con intelligenza, alcune delle tragedie immortali di Shakespeare, servendosi dei suoi personaggi più tormentati per ricreare atmosfere nuove e affascinanti.
A letto con… Willy! risponde perfettamente all’intento arguto dell’autrice.
Le anime imperiture di Giulietta e di Macbeth, di Otello e di Marc’Antonio si ritrovano sullo stesso palcoscenico a condividere le vicende semiserie di un oscuro regista contemporaneo, in preda a un delirio – e a un deliquio – onirico.
Quello che ai puristi shakespeariani potrebbe sembrare quasi un atto di blasfemia, diviene invece un felice esperimento teatrale, quasi un gesto di giustizia nei confronti di personaggi sopraffatti dalle angustie nella loro collocazione primigenia, e adesso riletti con leggiadria e sana ironia, che non guasta mai.
Riletture che l’autrice sperimenta anche con Macbeth dando voce al fool, una voce caustica e veritiera che ci conduce nei meandri del dramma con ansiogena velocità.
E, ancora, con Otello, attraverso una rilettura avvincente che tinteggia i personaggi principali nei tre colori bianco, nero e rosso a simboleggiare l’eterno conflitto tra ciò che si ritiene diverso da sé e la fiamma di un sentimento corrotto e malato che galoppa negli animi e nelle azioni con un ritmo incalzante.
Incalzante come un tango.

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[1] Cfr., P. Burke, Testimoni Oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci, 2002, p.37.
[2] M. Bloch, Apologia della Storia, Einaudi, Torino 1950, pp.70-71.
[3] Paul Kirn, Einführung in die Geschichtswissenschaft., De Gruyter, Berlino 1968.
[4] Cfr., P. Burke, op. cit., p.37.
[5] Cfr., Christopher Pye, The Regal Phantasm, Routledge, London and New York 1990, p.7.
[6] Cfr., P. Burke, op. cit., p.217.