Errata corrige

Errata corrige di Vincenzo Maimone

Il controllo del linguaggio è controllo del pensiero?

Le parole pesano, talvolta feriscono, molto spesso liberano.

Di ciò è fermamente convinto Ermes Lazzari, di professione correttore di bozze. La coerenza grammaticale è per Ermes non soltanto una questione professionale, ma anche una prospettiva esistenziale: un rifugio solido, forse l’ultima spiaggia sicura dove trovar riparo dal naufragio culturale della società.

È su questi principi che si fonda la sua personale battaglia contro gli anacoluti, i congiuntivi dimenticati e le imprecisioni linguistiche. Una guerra che lo pone di fronte a un nemico subdolo e astuto che imperversa ovunque appropriandosi di ogni spazio privato e pubblico esattamente come farebbe il grande fratello. In questo clima da distopia non troppo lontano dalla verità, quello che sembra uno scherzo innocente si trasforma in un terribile assedio che trascinerà Ermes nel gorgo della neolingua e della manipolazione psicologica fortemente tese a cancellare le potenzialità critiche del pensiero.   

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Errata corrige:

1

Rimase per oltre un minuto con gli occhi fissi su quel «.» e con un sorriso appena accennato, ma gioioso, stampato sul viso. Considerava quel momento come un rito irrinunciabile: una cerimonia pregna di significati nascosti e di esperienze che avrebbe conservato con cura nel suo scrigno dei ricordi.

Sospirò, distogliendo lo sguardo con una punta di nostalgia, mentre con un movimento altrettanto misurato prese il calice di Syrah poggiato sul tavolino accanto alla poltrona e ne bevve un sorso lasciando che i profumi e gli aromi si presentassero al suo palato in tutte le loro sfumature. Anche quel passaggio faceva parte del cerimoniale. Era come l’ultimo brindisi prima di un lungo commiato. Quindi, senza indugiare ulteriormente, chiuse il libro, vuotò il bicchiere senza badare più troppo alla procedura e si alzò avvicinandosi alla libreria e ricollocando, non senza difficoltà, il volume nello scaffale.

Gran bella storia, pensò tra sé e sé.

«È proprio vero, allora. Niente ti riconcilia con il mondo come un libro», disse, rompendo il silenzio che fino a quel momento aveva riempito, insieme al leggero fruscio delle pagine, l’appartamento.

Perché per lui la lettura era proprio questo: un modo per stabilire una tregua con il resto del mondo; per continuare a coltivare un’insana fiducia che non tutto fosse perduto.

Fino a quando avremo voglia di raccontare delle storie e, soprattutto, il piacere, il desiderio e la curiosità di ascoltarle ci sarà ancora una speranza di redenzione, era solito giustificare così questa sua ottimistica affermazione.

Redenzione, usava proprio questa parola. E lo faceva quasi senza pudore. Con ostentazione, addirittura.

Lui, che in fatto di divinità, santi, martiri e compagnia salmodiante si manteneva felicemente scettico e distaccato. Ma con la lettura, con i libri, la questione era molto diversa. Per essi non aveva alcuna difficoltà o resistenza a inchinarsi e ad accettare il loro messaggio. Tuttavia, non si trattava di una fede cieca e incondizionata. Per nulla, anzi. Il suo livello di devozione ai libri era strettamente legato alla qualità di ciò che in essi era contenuto. Ne aveva cestinati parecchi nel corso degli anni, sia per passione che per professione. E probabilmente la seconda era stata una logica conseguenza della prima. Il suo lavoro era quello di correttore di bozze presso una rinomata casa editrice. Una di quelle col pedigree e con lo stuolo di autori da copertina di rotocalco da sala d’attesa di un centro estetico da esporre alle fiere, ai saloni e nei salotti delle trasmissioni televisive pomeridiane e serali.

In realtà avrebbe voluto cestinarli, ma il suo editore non intendeva sentire ragioni. Più di una volta gli era toccato di sorbirsi la tiritera sul mercato e sul rapporto tra offerta e domanda.

Con diplomatica accondiscendenza, il direttore era solito cassare il suo giudizio critico e il suo rigoroso dogmatismo letterario riconoscendone la competenza e, apparentemente avallandone la critica.

«Sì. Hai ragione. No, che dico. Hai mille ragioni. Scrive di merda. Ma cosa ci possiamo fare noi, se alla gente piace? E d’altra parte, perché ti avrei assunto, allora? Tu sei bravissimo a trasformare il letame in tartufi.»

Era questo il suo argomento principale, il cavallo di battaglia con cui chiudeva ogni conversazione. Blandire la sua capacità di riconversione.

E nel corso degli anni erano tante le palate di merda che aveva trasformato in preziosi tartufi e per tale ragione aveva cominciato a sviluppare una vera e propria fobia per ogni imperfezione del linguaggio, fosse esso scritto o parlato.

All’inizio lo aveva considerato quasi un dono, un utile strumento professionale che gli permetteva di orientarsi rapidamente nei meandri della sintassi contorta di molti scribacchini e di restituire ordine e simmetria lì dove regnava il più assoluto caos.

Poi la cosa era sfuggita al suo controllo, e tale idiosincrasia aveva cominciato a seguirlo anche fuori dall’orario di ufficio. Ovunque si trovasse: al bar, alla posta, al supermercato, o semplicemente sfogliando le pagine di un giornale, nelle sue orecchie rimbombavano gli sproloqui grammaticali di amici, parenti o perfetti sconosciuti e i suoi occhi con la precisione di un tiratore scelto coglievano al volo ogni refuso o strafalcione.

In un primo momento, ci aveva riso anche su, limitandosi a correggere mentalmente l’errore e forse per timidezza, educazione o per il semplice desiderio di non innescare inutili discussioni, lasciava correre e evitava di riprendere pubblicamente, mettendolo alla gogna, l’incauto violentatore della grammatica. In cuor suo, giudicava con indulgenza l’imputato attribuendo lo scivolone linguistico alla fretta, allo stress, alla concitazione della discussione. Allo stesso tempo, sperava, chissà, in una spontanea maturazione sintattica, una presa di coscienza linguistica.

Errare è umano, era solito dire. E dunque, quella fallibilità era il suggello che attestava l’appartenenza alla specie, la comune umanità.

Poi, però, le cose erano drasticamente cambiate, in peggio ovviamente. Il salto evolutivo non si era verificato disattendendo completamente le sue previsioni ed anzi la discesa verso la totale anarchia lessicale si era fatta sempre più scoscesa e ripida. La perseveranza diabolica ne favoriva l’accelerazione e quella corsa disperata verso un abisso senza fondo.

La sensazione che provava era quella di un vero e proprio assedio: iniziava a sentirsi accerchiato.

E quindi, mettendo da parte ogni ritrosia o timidezza si era assunto l’ingrato ruolo del vendicatore, del giustiziere del lessico, dichiarando guerra all’esercito dei vocaboli linguisticamente osceni e a coloro che ne facevano uso abusando quotidianamente e senza alcun freno della grammatica.

Attenzionare, piuttosto che utilizzato impropriamente, e la fitta guarnigione degli apposto tutto attaccato, erano i suoi nemici più ostici, insieme alla mai doma legione dei nemici del congiuntivo. Era una guerra che non prevedeva al momento spargimento di sangue ma che lo impegnava strenuamente e aveva contribuito ad acuire il suo isolamento sociale. Alla lunga, infatti, le sue azioni riparatrici avevano alimentato la diceria secondo la quale lui, il dottor Ermes Lazzari, era una discreta rottura di coglioni, un insopportabile precisino pronto a bacchettare ogni piccolo errore. La nomea aveva cominciato a circolare rapidamente moltiplicando le prese per il culo e qualche reazione scomposta. Ermes ne era perfettamente consapevole e aveva accettato la cosa con grande eleganza convinto del fatto che da grandi poteri derivano grandi responsabilità e una equivalente quantità di insulti e contumelie. Ne aveva avuto la prova quella stessa mattina, recandosi, come faceva ogni giorno al bar sotto casa, per prendere un caffè prima di scappare in ufficio. Il ricordo di quanto accadutogli era ancora vivido nella sua mente e cominciò a riemergere proiettandolo indietro nel tempo.

«Dottore, ce lo mette lo zucchero nel caffè questa mattina?», gli aveva domandato il titolare del bar sotto casa con tono sarcastico dopo che lui, il giorno prima, lo aveva ripreso per un uso naif degli ausiliari.

Ermes aveva abbozzato un sorriso compassionevole e aveva trangugiato l’espresso bollente, amaro, per non dare soddisfazione al suo avversario.

Quindi, si era avvicinato alla cassa per saldare il suo conto ed era rimasto in attesa con i soldi in mano per circa cinque minuti, cercando senza alcun successo di richiamare l’attenzione del titolare. Questi era assorto in una qualche operazione complicata con il portatile posto sul bancone accanto alla gloriosa Cimbali.

«Dottore, mi deve scusare, due minuti e sono da lei sto votando sulla Piattaforma. D’altronde, se lei avrebbe aspettato che il caffè si raffreddasse a quest’ora non starebbe lì».

«Se avesse aspettato… e si fosse raffreddato», lo corresse Ermes.

«Va bene, come vuole lei. Un attimino e arrivo», rispose sferzante il barista.

«Ci mancava solo un attimino», mormorò Ermes con disappunto pensando al ritardo accumulato.

«Ma proprio adesso doveva fare questa operazione?», aggiunse con un tono questa volta più sostenuto e alterato.

«Eccomi, eccomi! Non c’è bisogno di alzare la voce. Mi fa scappare i clienti così. Cosa ci vuole fare. La votazione dura solo trenta minuti e quindi non potevo fare altrimenti», replicò il barista.

«Ma di che votazione parla?», chiese Ermes, pentendosene quasi subito.

«Ma come di che votazione! Non conosce la Piattaforma?», lo redarguì stupefatto il titolare.

«No! Non la conosco ma credo di poter sopravvivere alla curiosità», rispose stizzito Ermes.

«Contento lei, dottore! Ecco il resto. Siamo apposto. La saluto. Scappo che inizia il forum», lo liquidò il barista porgendogli le monete.

Ma vaffanculo!, pensò tra sé e sé Ermes guadagnando rapidamente l’uscita del locale.

 Si ritrovò catapultato nel soggiorno. Guardò l’orologio alla parete e lanciò un’imprecazione.

«Cazzo! La cena!»

La lettura del libro e il ricordo di quell’incubo mattutino lo avevano talmente assorto che stava per dimenticare la serata in pizzeria con Sabina, la sua compagna, e con alcuni ex colleghi dei tempi dell’Università. Rimise on line il cellulare, disinserendo la modalità aereo che attivava tutte le volte che decideva di godersi un bel libro. Una raffica di notifiche illuminò lo schermo.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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