American Movies Mon Amour

American Movies Mon Amour di Alessandra Calanchi

Un viaggio nel cinema americano dagli anni Ottanta a oggi.

Postfazione di Andrea Maluguti – University of Massachusetts Amherst, USA

Siamo pronti a compiere un viaggio vertiginoso nel cinema americano, da D. W. Griffith a Tarantino, facendo surfing attraverso i Generi (western, noir, fantascienza, horror) e la Storia (il Vietnam, l’Iraq) e incrociando, lungo il percorso, Michelangelo Antonioni e Nanni Moretti, Wim Wenders e Pupi Avati?

In questo volume sono raccolti articoli e recensioni pubblicati in vari periodi su riviste di cui oggi solo alcune sopravvivono con coraggio. Negli anni Ottanta del secolo scorso, parlare di film era un modo di trasmettere cultura, fare politica e alimentare il dibattito. Nel nuovo millennio le cose sono cambiate, ma voglio pensare che il cinema possa ancora proporsi come un’arena importante di riflessione e di condivisione di idee.

Questo, comunque, è il mio viaggio, che è iniziato nel 1982 e non si è ancora concluso.

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American Movies Mon Amour:

Introduzione

Senza macchina e senza paura

Una volta si andava al cinema.

Quando ero giovane io era già vietato fumare, ma i miei genitori mi dicevano che prima si fumava, e si vedeva lo schermo attraverso una cortina di nebbia.

Io ero contenta che non si fumava più.

Quando ero giovane mi piaceva andare al cinema da sola, armata di quadernino e biro. Ci vedevo al buio? No: avevo imparato a scrivere senza guardare il foglio.

I ragazzi cercavano di toccarti, al buio. Le ragazze volevano solo chiacchierare. A me piaceva guardare i film. Così ci andavo da sola. A volte mi nascondevo nei bagni, fra uno spettacolo e l’altro, così riuscivo a vedere un film due volte.

Quando ero giovane non c’erano i dvd e non c’era Internet. Quando volevo scrivere un articolo dovevo stare attentissima, perché poi non avevo modo di controllare i nomi, i luoghi, le trame.

Le sale erano piccole, le sedie scomode.

Non c’erano i pop corn. Sceglievi tu il posto dove sederti. Non potevi prenotarlo. E quando perdevi un film potevi sperare solo nei cinema di seconda visione o nelle sale parrocchiali di periferia.

Quando ero piccola frequentavo i cinema parrocchiali, e credo di aver visto, durante le vacanze in un paesino di montagna, tutti i secondi tempi della storia del cinema, perché mi facevano entrare senza pagare il biglietto. A memoria ricordo Godzilla, che sfido chiunque a capirci qualcosa senza aver visto il primo tempo.

Quando ero giovane odiavo la tv e amavo il cinema. Per questo non mi perdevo un film. Mi è successo di marinare perfino la scuola per andare ai matinees del cinema Rialto, a pochi metri dal liceo Galvani dove studiavo. Fu lì che vidi, per esempio, Zabriskie Point la prima volta. E con mio padre vedevo i film western, e così l’America entrava in punta di piedi, ma con tenacia, nel mio immaginario.

Poi arrivò l’università – e il movimento studentesco, le occupazioni, i collettivi femministi. La serie dei film di Sam Peckinpah alla televisione mi riconciliò col piccolo schermo, salvandomi al contempo da una broncopolmonite bilaterale con sfregamento pleurico (davano i film di notte, e io li guardavo seduta in poltrona, bevendo whisky per bilanciare l’antibiotico, mentre il resto della famiglia dormiva).

Negli articoli che seguono, soprattutto quelli degli anni Ottanta, si percepiscono le ultime resistenze di tutta una generazione alla cultura degli yuppies e dei paninari che stava per avere il sopravvento su quella residuale dei figli dei fiori e dei movimenti di protesta; e si percepisce anche il bisogno di trovare nuove forme di comunicazione – una parola ricorrente, a prova di quanto fosse centrale questo bisogno nell’inquieta società che ancora non era liquida e che ancora non si declinava nei social networks – ma era questione di poco tempo. Si sente ancora, di quegli anni, la libertà di spostarsi, all’interno della cultura, fra le discipline. Una libertà che si è andata perdendo nel tempo, grazie alle griglie e alle sigle a cui ci siamo arresi nel nuovo millennio.

Erano anni di sperimentazioni, contaminazioni, ibridazioni.

Fu allora che conobbi Guido Fink, il mio professore di letteratura americana. Fu lui a incoraggiarmi a scrivere di cinema, un’attività che avrebbe poi accompagnato il mio lavoro vero, quello di insegnante e di ricercatrice. Fu lui a iniziarmi al film noir. E fu lui a insegnarmi a studiare tutto con occhio critico, a problematizzare, a contestualizzare, a incrociare, ad aprire porte e ad abbattere muri. A lui, alla sua fiducia, alla sua stima, alla sua amicizia, dedico queste pagine che cominciai a scrivere e pubblicare quando avevo vent’anni ed ero un’inesperta sognatrice militante.

Dedico queste pagine anche ai miei figli e ai miei studenti, che hanno l’età che avevo io quando iniziai a scrivere, perché mi piace pensare di poter trasmettere loro la passione che mi fu regalata tanti anni fa.

E prima di concludere, voglio spiegare il titolo di questa mia Introduzione. Si tratta di un refuso che ho trovato mentre trascrivevo gli articoli qui raccolti. Ovviamente intendevo «senza macchia e senza paura» e la frase era riferita all’eroe tipico del cinema western. Trovare questo refuso, a distanza di oltre trent’anni, mi ha commossa e divertita insieme. Allora non c’era il computer, gli articoli si scrivevano con la macchina da scrivere e si mandavano per posta alla redazione, e poi c’era qualcuno che si occupava della composizione tipografica. Chissà di chi fu quell’errore? In ogni caso, lo trovo bellissimo. Mi fa pensare a The Machine in the Garden di Leo Marx, che ha accompagnato i miei anni di studio; mi fa pensare alla MdP, la macchina da presa; e mi fa pensare al pc, macchina oggi per noi insostituibile. Ma forse non fu uno sbaglio: forse fu uno scherzo a cui il compositore (o la sottoscritta) non seppe resistere, e che seminò come un indizio affinché oggi io lo trovassi.

L’eroe imperfetto del film noir americano

Anche se in apparenza il protagonista del film noir americano degli anni Quaranta è fondato su tutti gli stereotipi della mascolinità, di fatto mostra spesso una profonda incertezza. Basta a dimostrarlo la struttura labirintica di molti film, che esprime le tensioni inconsce dei personaggi, i quali cessano di essere eroi appena li si pone di fronte alle loro responsabilità e al loro passato. È in quel momento che la donna ribalta il proprio ruolo e recupera il suo potere. Questo articolo si colloca in un settore di studio ancora giovane al tempo, ovvero i men’s (o male) studies, nato negli anni Settanta nel mondo anglosassone e americano e in Italia ancora poco praticato nel decennio successivo. [2020]

In un’epoca in cui la questione femminile ha assunto tanta importanza, e in cui si cerca di riscoprire la posizione e il ruolo della donna nella storia e nelle arti, potrebbe sembrare scontato parlare ancora degli stereotipi a cui viene tradizionalmente ricollegata. Per questo mi pare più interessante ribaltare i termini: prendere cioè in considerazione il ruolo non della donna, bensì dell’uomo in uno dei generi maschili per eccellenza, vale a dire il film noir americano degli anni Quaranta. È indubbio che in esso il protagonista sia sempre un uomo e non una donna; e per lo più l’immagine tipica che tale uomo dà di sé è quella o del private eye protettivo ma distaccato e moralmente superiore, o viceversa del gangster violento e brutale. Ma se riusciamo ad allontanarci il più possibile da questi due stereotipi scopriremo – sia pure attraverso di essi – che il personaggio maschile è anche protetto e non solo protettore, che è anche figura filiale e non solo paterna, che anch’egli viene spesso incastrato e umiliato. Ciò è dovuto in parte alla misoginia americana che assolve più volentieri l’uomo che la donna, facendo in modo che quando è lei a reggere i fili del gioco sia in genere malvagia e calcolatrice e porti spesso il maschio alla rovina; e questo risveglia un’immagine della donna come strega ingannatrice o serpente ammaliatore, immagine contrapposta e complementare a quella della vergine indifesa. A questo punto è legittimo domandarsi se anche i ruoli maschili siano da considerarsi tali e acquisiti o se non vi sia da riconoscere una diversa realtà al di là dei modelli che conosciamo.

Esaminiamo innanzitutto la professione svolta dal protagonista del film noir: egli è per lo più un detective privato o un poliziotto o ha comunque a che fare con assassinii, ricatti, furti e misteri di ogni sorta. Agisce comunque dalla parte della legge, e questo gli conferisce un’aura di superiorità morale e civile e, automaticamente, la qualifica di protettore dei più deboli. Una delle situazioni più comuni in cui viene a trovarsi è la richiesta d’aiuto da parte di una donna, richiesta che prima o poi finisce per accettare, anche quando è ingannevole o altamente rischiosa per il protagonista stesso. Può capitare che sia un altro uomo a formulare la richiesta; ma il protagonista è comunque colui che viene chiamato ad assolvere un compito, e questa chiamata ha qualcosa di mitico in quanto l’eroe deve spesso inoltrarsi in un mondo sconosciuto o, se già sperimentato in passato (vedi Out of the Past / Le catene della colpa, J. Tourneur 1947), molto pericoloso e simile a una waste land da cui egli dovrà uscire trionfante sul male, anche se il prezzo della vittoria dovesse essere la propria vita.

Abbiamo già delineato alcune delle qualità che contraddistinguono il protagonista maschile del noir: lavora dalla parte della giustizia, protegge chi gli chiede aiuto, accetta incombenze rischiose, ha insomma tutte le caratteristiche dell’eroe classico. Ma c’è dell’altro. Procedendo nella visione di un film noir scopriamo a poco a poco che molto spesso questa realtà è capovolta e lascia spazio a nuove e diverse interpretazioni. La donna non è solo la vergine indifesa che chiede protezione o, al contrario, la maliarda satanica che porta l’uomo alla rovina, ma può essere anche amica, madre, sorella: è il caso, ad esempio, di Effie Perine, la segretaria del detective privato Sam Spade in The Maltese Falcon (Il mistero del falco, J. Huston 1941). Ella rappresenta, nella sua pur attraente mascolinità, l’amico o l’alter-ego del P.I. stesso, la persona che lo consiglia, lo aiuta, lo prende bonariamente in giro, lo rimprovera dolcemente. Il suo ruolo può essere inteso anche come quello di figura sororale o materna, la sua funzione come quella di angelo custode e protettore. In nulla essa è soggetta al possesso o all’umiliazione maschile, anzi è sempre padrona della situazione, ha il pieno rispetto dell’investigatore e la sua confidenza. Rappresenta la Madre Terra, il grembo materno a cui l’eroe torna dopo ogni avventura, e per l’homo americanus, misogino per tradizione, è un riparo sereno alieno dal sesso e dalle passioni. Adesso l’eroe si presenta ai nostri occhi come un bambino, è lui a chiedere e a ricevere protezione.

Ci sono numerosi esempi come questo, anzi forse in ogni film possiamo cogliere uno o più momenti di debolezza da parte dell’eroe, e spesso è una donna ad aiutarlo, sostenerlo, farlo uscire dai guai (per esempio Crossfire / Odio implacabile, E. Dmytryk 1947; Cry of the City / L’urlo della città, R. Siodmak 1948). Inoltre, il personaggio maschile si trova spesso in situazioni piene di incertezze. La struttura labirintica di molti film traduce l’insicurezza e le tensioni inconsce dei personaggi stessi, che cessano di essere eroici appena li si pone di fronte al loro passato o alle loro responsabilità. La moglie, l’amante, la donna in genere si fa in questi casi amica e terapeuta piuttosto che oggetto del desiderio, assumendo in sé tutte le prerogative maschili che di norma non le vengono riconosciute (la forza fisica, la superiorità morale, il coraggio). Il protagonista di Crossfire, per esempio, non riuscirebbe mai a cavarsela dall’accusa di omicidio senza la presenza costante al suo fianco di due donne che lo aiutano pazientemente a ricordare tutto quello che ha fatto. Qui come in Out of the Past l’uomo è al centro di un’esperienza psicoanalitica, sorretto da una o più figure femminili di cui – sebbene possa trattarsi di creazioni inconsce della sua mente che, come tali, vivono in sua funzione – ha assolutamente bisogno.

Gli stessi eroi tipici come Sam Spade o Philip Marlowe, che all’inizio della vicenda ci sembrano così giganteschi nella loro statura morale e nel loro coraggio, sono in realtà il più delle volte uomini comuni, spesso in crisi. Spade maneggia per tutta la durata di The Maltese Falcon rivoltelle enormi senza mai usarle; in The Big Sleep (Il grande sonno, H. Hawks 1946) Marlowe è totalmente passivo, non ha quasi mai la forza di reagire: aggredisce solo le donne, e non riesce mai a impedire che qualcuno sia ucciso, pur essendo sempre presente, mentre in Murder, My Sweet (L’ombra del passato, E. Dmytryk 1944) sviene a più riprese, si lascia colpire e drogare. Anche il personaggio del gangster non è sempre sovrapponibile allo stereotipo che ci mostra solo violenza, minaccia e disperazione. Basta ricordare la scena di Murder, My Sweet in cui il terribile Moose Malloy si china, con un’espressione bambinesca ed ebete, sul corpo inerte della donna da lui amata, chiamandola «fiore di campo» con voce rotta dalla commozione.

Tornando alla figura del protagonista, notiamo ancora che difficilmente si tratta di un personaggio completo, a tutto tondo, dalla struttura e dal carattere ben delineati. Sam Spade è spesso rappresentato in frammenti, cioè vediamo più spesso parti del suo corpo che il corpo intero, e così è per il carattere, che ci sfugge e che non riusciamo a cogliere in toto. Marlowe è un personaggio già più completo, ma ci sono comunque dei buchi nel ritratto del suo comportamento, degli spazi bianchi da riempire. I suoi svenimenti, per esempio, sono delle mancanze, dei vuoti, dei punti di crisi che restano irrisolti.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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