A morte i razzisti

A morte i razzisti di Alessandro Ghebreigziabiher

A few Highlights like prices and/or location of plot.
about 50 words

Malick è un giovane di origini africane e, fin da bambino, ha dovuto subire discriminazioni per il colore della pelle, oltre a forme di bullismo reiterato da parte di alcuni compagni di classe più grandi.

Da un giorno all’altro decide di vendicarsi. Durante un viaggio in metropolitana assiste all’ennesimo atto di intolleranza da parte del branco verso un cittadino straniero e non riesce a rimanere indifferente. È così che uccide il suo primo razzista.

Da quel momento matura in lui l’idea che non si tratti di un evento casuale, ma l’inizio di una vera e propria missione: sterminare tutti i razzisti, cominciando da coloro che hanno ferito i suoi sentimenti, e dei quali non ha affatto dimenticato facce e nomi.

Tutto si risolve, ovvero si svela, nel finale, mentre il nostro ha alla sua mercé il suo primo nemico: il bullo Claudio.

Sarà quello il momento in cui scoprire la verità e, forse, guarire.

Qui il booktrailer di A morte i razzisti prodotto dalla Dum Tak Power per le Storie dipinte.

Acquista qui – Formato Kindle – Copertina flessibile

Comincia a leggere qui gratuitamente l’incipit del libro
A morte i razzisti:

Capitolo primo

Ho tutte le caratteristiche di un essere umano:
carne, sangue, pelle, capelli.
Sta succedendo qualcosa di orribile dentro di me
e non so perché.

Patrick Bateman

Chi sono

Mi chiamo Malick Ferrara, ho vent’anni e sì, sono negro. Non prendiamoci in giro, io non lo farò, lo giuro, quindi non lo permetterò neanche a voi. Non lo concedo a chicchessia.

Io sono negro perché è questa la parola che pensate quando mi vedete. La maggior di parte di voi, intendo, che significa quasi tutti, compresi i tolleranti e gli accoglienti sulla carta, per look o dichiarazione più o meno partecipata nelle serate con gli amici.

Io sono un negro perché questo è l’epiteto che mi è stato urlato, o solo mormorato, quale peggior insulto da quando vivo in questo paese.

Be’, sapete che c’è? Io per primo accetto di qualificarmi nel modo più sgradevole con cui mi identificano le persone maggiormente deprecabili, le quali non sono altro che la punta di un diamante marcio, che oramai non possiede più alcuna caratteristica della preziosa pietra che fu, semmai lo sia stato.

Mi riferisco al genere umano, il nostro mondo, la gente, come va di moda oggi, il popolo che ha sempre ragione e, laddove gli roda e decida di sfogare le proprie frustrazioni sulle persone che ritiene più fragili, va capito.

Questo dicono in tanti, troppi.

Ebbene, questa storia è a mio avviso la novità che manca, oh, se manca. È il senso di tale scritto. È la mia necessità. Ora, qui, da questo instante in poi, tocca a me sfogarmi.

La prima vittima

È mattino presto.

Sono seduto in un vagone della metropolitana. Ho trovato posto subito, appena salito a bordo del treno.

Come spesso mi capita, tutti i sedili sono occupati, tranne quello accanto al mio. È un caso, direte, non c’è alcunché di personale, può succedere a tutti.

Sì, certo, come no, continuate a blaterare. Il motivo è uno solo. Nessuno si è ancora accomodato vicino al sottoscritto perché io sono un ragazzone di un metro e novanta, tutto muscoli e rabbia, per quanto camuffati sotto una figura rotonda, conseguenza di qualche merendina di troppo, ma un ragazzone negro, già, s’è detto, non dimenticatelo, perché io non lo farò. Magari potessi, non mi è concesso, quindi devo ricordarlo e me lo sono anche fatto piacere, sapete?

Ho gli occhiali scuri, li porto sempre, anche al chiuso, e dietro le lenti osservo gli altri, voi. Non loro, certo, quelli come me, che sono gli altri per voi. No, io guardo voi che guardate me, leggo ciò che pensate, registro le conclusioni che traete, percepisco il vostro disprezzo, accolgo senza timore la vostra intolleranza, e ne faccio carburante per la mia collera.

Oggi è il giorno giusto, perché è vicino il momento in cui renderò pan per focaccia.

Difatti, a pochi metri da me, nella serie di sedute accanto a quella in cui mi trovo, va in onda una scena già vista, degna al massimo della viralità di un giorno su Youtube, rapita dal video intitolato aggressione razzista in metropolitana, con i commenti sotto che riescono a risultare perfino più vergognosi dell’atto in sé.

Un tizio pelato, col giubbotto tipo bomber nero e attillato, nel vano scopo di sembrare più minaccioso del solito, si avvicina a uno di quegli omini del Bangladesh. Li avete presenti? Mi riferisco a quei tipi dal fare gentile che il più delle volte incontriamo nei negozi con tutto a poco prezzo, altrettanto spesso di proprietà di italianissimi signori dalla pancia prominente e immancabili nel venire a riscuotere l’incasso.

Lo straniero di turno è reo di essersi seduto evitando di farsi superare illecitamente dall’ennesimo bullo con il cranio rasato. Quest’ultimo è un uomo fatto, sarà sui quaranta, e non è solo, poiché altre teste a boccia gli sono subito accanto a dargli man forte.

Al contrario, l’imminente vittima dai capelli scuri come la classica pece e la carnagione dal colore sfavorevole è poco più di un ragazzo, e molto più basso dei suoi nemici.

In breve, l’energumeno lo apostrofa insultandolo fin da subito, invitandolo ad alzarsi immediatamente. Dato che il giovane malcapitato ha orgoglio da vendere, osa replicare alzando la voce rimanendo comunque seduto.

In pochi secondi, sotto gli occhi attenti quanto indifferenti dei presenti, il pelato afferra il cosiddetto immigrato per il bavero della giacca e lo solleva dal posto, per poi scaraventarlo in terra e dargli un calcio in faccia.

Ecco, mi sono detto, finalmente l’occasione per finirla una volta per tutte.

Mi alzo di scatto e con il sangue che rapido irrora tanto la testa quanto gli occhi muovo verso il vile farabutto.

Non se l’aspetta, non mi vede arrivare, perché è fuori copione e per questo godo come un matto nell’essere autore e protagonista principale di ciò che sta per accadere.

Nell’attimo esatto in cui volta il capo e incrocia il mio sguardo colpisco il suo viso con un destro terribile dritto al naso.

Chi parla per esperienza, sa perfettamente che i pugni in faccia, soprattutto con le nude nocchie a far d’ariete, non sono affatto innocui come nei film, dove le persone si picchiano per svariati minuti, anche più volte per tutto il lungometraggio come se nulla fosse.

Con un pugno in faccia puoi morire. Con un pugno in faccia puoi uccidere. Ebbene, con un pugno in faccia ho ammazzato il mio primo razzista.

Attenti a voi

Ciò che segue lo rivedo al rallenty nella mia testa mentre fuggo via sulle scale del metrò, dopo aver abbandonato altrettanto rapidamente la scena del crimine nel vagone.

I due compari del bruto, ormai senza vita riverso in terra, sono sconvolti dal mio gesto, ma trovano comunque la forza di farsi sotto. Grave errore, penso io in quella frazione di secondo, e con un ghigno assetato di sangue colpisco il primo che si fa sotto con una tremenda testata sul muso, frantumando tutto quel che c’è oltre tale sgradevole protuberanza che non sarà mai più la stessa. L’altro mi limito a schiaffeggiarlo con un movimento della mano neppure così violento, ma che è sufficiente a scaraventarlo contro le porte del treno.

Grida di spavento e silenzio assordante altrettanto impressionato sono la colonna sonora che segue, mentre gli sguardi degli altri passeggeri si fondono in uno solo, sbigottito e spiazzato.

Già, lo so, caro pubblico, anche tu non l’hai vista arrivare, questa, vero? Bene, perché è ciò che voglio, è ciò che desidero da tempo, non sapete da quanto.

Vivo per questo, adesso, ovvero cambiare una volta per tutte l’ingiusta sceneggiatura che mi avete imposto quale unico copione possibile.

Rivedo la moviola del mio primo assassinio, dicevo, e godo alla stregua di un tifoso che riguardi più volte il gol del proprio beniamino. La differenza è che io non sono un semplice spettatore dell’azione decisiva. Sono l’attore e l’autore, il regista e il produttore nella stessa persona. Che dico? Nel medesimo, unico e fenomenale pugno sul volto del razzista di turno.

Com’è che fanno, questi vigliacchi? Com’è che agiscono di solito, che siano leoni da tastiera, piuttosto che conigli ringalluzziti dal trovarsi in tanti contro uno? Aggrediscono e inveiscono su quest’ultimo a monito degli altri.

Ebbene, è lo stesso per me, ma al contrario, stavolta. Che sia di ammonimento, ovvero, minaccia, terribile minaccia per tutti coloro che saranno attraversati dall’insana idea di prendersela con la vittima sacrificale di turno.

Attenti, codardi, state molto attenti, da oggi in poi. Perché io sarò là fuori, ogni giorno, a non aspettare altro che beccarvi sul fatto.

La vostra peggiore paura

Con le nocchie arrossate e leggermente doloranti, oltre alle macchie di sangue sulla fronte sui cui si è infranto il becco del vile compare del bullo, arrivo a casa rapidamente ed entro con andatura fiera e tronfia nell’appartamento.

Mamma, ovvero la mia madre adottiva, mi vede sfilare nel corridoio dalla poltrona nel soggiorno, dove riceve la sua dose quotidiana di droga. O, forse, dovrei chiamarlo tranquillante, come se fosse un farmaco prescritto tramite il canone Rai. Il rimedio migliore che ha trovato finora per l’ansia.

Mentre sono in bagno a lavarmi la faccia e le mani mi chiede da una stanza all’altra come mai sia a casa e non a lavoro.

Lavoro? Me lo chiami lavoro, mamma? Ma che razza di lavoro è stare al telefono per fare da capro espiatorio per i clienti dell’operatore telefonico che neanche mi ricordo più come si chiama? Già, noi dei call-center siamo un po’ tutti come quel Malaussène del romanzo di Pennac, a far da incudine al posto dei proprietari dell’azienda per martelli incazzati a causa dell’ennesimo malfunzionamento, o magari anche truffa.

Andate al diavolo anche voi, facce invisibili a cui ho prestato fin troppe attenzioni in questi ultimi due anni. D’altra parte, è l’unico impiego che sono riuscito a trovare, e la ragione è evidente.

Non prendiamoci per il culo, okay? L’ho spiegato all’inizio e lo ripeto ancora una volta, anche a rischio di sembrare monotono. Anzi, no, va benissimo che risuoni come una sorta di seccante litania. Io voglio dare fastidio, dove nessuno ha avuto il coraggio finora. Per questo sono qui a farlo nel modo migliore: vi dico la verità. E la verità è che nessuno mi ha assunto non appena mi ha visto. L’unico posto che ho trovato, oltre al buttafuori nei negozi di abbigliamento, è stato l’operatore call-center, esatto, perché chi chiama non sa chi ha davanti, occhio non vede, razzista non rompe.

È uscito quell’ultimo film di Spike Lee, BlacKkKlansman, a dimostrare che una voce senza volto sia il modo migliore per ingannare chiunque, pure la gente che ancora oggi ha la testa infettata dall’ossessione per la razza. Già, ancora oggi, signore e signori. Perché il razzismo non è mai andato via dal nostro cuore. E allora, sapete la novità? Ci penso io a rimediare in maniera definitiva. Quel cuore maledetto lo fermo con le mie stesse mani. Se è la paura che vi piace, paura avrete.

Eccomi, razzisti di questo paese, io sarò la vostra peggior paura.

Un semplice piano

Il piano è semplice ed è inevitabile, oramai, visto che i vagoni della metropolitana e l’intera stazione hanno le telecamere. Oltre ai cellulari e i testimoni oculari.

Mentre sono nella mia stanza, seduto sul letto a riflettere sull’accaduto, so bene che la foto segnaletica del sottoscritto sta facendo il giro dei monitor, tra forza pubblica e giornali. Per non parlare del video che mi ritrae nell’atto di abbattere il mio primo razzista.

Eppure, non sono affatto preoccupato. Sono piuttosto eccitato e a dir poco raggiante. Sapevo che avrei pagato in prima persona le conseguenze delle mie azioni. Ma voglio farlo, è una spesa volontaria, non c’è alcunché di improvvisato, qui. Oltretutto, il paradosso è che da quando sono nato, alla stregua di tanti, troppi miei simili, mi faccio carico delle conseguenze dovute alle azioni degli altri, ovvero alla loro imbecillità e incapacità ad andare oltre ciò che gli suggerisce lo sguardo. Ebbene, come già detto, sono qui per invertire il flusso e cambiare la storia, la mia.

Dicevo, il piano è banale quanto ineludibile, i film insegnano. Nei momenti di emergenza e necessità di sopravvivenza occorre muoversi, farlo rapidamente, cercando di non lasciare tracce alle spalle. Anzi, disseminando informazioni errate e fuorvianti. Inoltre, occorre un bagaglio leggero, quindi il mio zaino da battaglia andrà benissimo. Acqua, soldi, spazzolino e dentifricio, un paio di cambi di biancheria e Il conte di Montecristo, il mio romanzo preferito, che avrò letto almeno venti volte.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

Acquista qui – Formato Kindle – Copertina flessibile

I libri di Alessandro Ghebreigziabiher