410 d. C. Pacta sunt servanda

410 d. C. Pacta sunt servanda di Francesco Giannetti

Un racconto intenso e forte che intreccia guerra e amore, costumi barbari e tradizioni romane.

Nell’Estate del 410 d.C. Alarico, re dei Visigoti, imperversa nel centro Italia mettendo a ferro e fuoco molte città. L’imperatore Onorio, seppur consapevole della sua debolezza bellica e mal consigliato dal burocrate Giovio, tergiversa nel mediare.

I primi di luglio il sovrano barbaro giunge ad Ariminum assieme a un imponente esercito e al suo fidato braccio destro Ataulfo.

Il romanzo si snoda attraverso le vicende dei protagonisti, tra cui emergono anche le figure di due donne: la principessa Galla Placidia, sorella di Onorio e fiera aristocratica romana, e Lucilla, la figlia del senatore Ezio, colui che accoglierà nella sua villa Alateo, uno dei principi barbari mandati a Roma con un compito ben preciso.

Donne romane e barbari. E il primo grande sacco di Roma.


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410 d. C. Pacta sunt servanda:

Premessa

Nel febbraio del 410 d.C. Alarico marcia verso Ravenna assieme ad Attalo Prisco, il re fantoccio che egli stesso ha fatto eleggere tempo prima per provocare l’imperatore Onorio. Il sovrano visigoto intende assediare la nuova capitale dell’impero, ma le possenti mura che la difendono e la circostante zona acquitrinosa lo inducono a rinunciare.

In primavera imperversa nelle città dell’Italia centronord e le depreda per rappresaglia, mentre Attalo torna a Roma. Nel frattempo, il blocco imposto da Eracliano, governatore della Diocesi d’Africa, nonché alleato di Onorio, sta funzionando: a Roma il grano non arriva più da mesi.

L’estate è ormai iniziata, ma Alarico non molla la presa.

Il primo luglio, nei pressi di Ariminum, la situazione sembra prendere una svolta decisiva.

Prologo

1 luglio 410 d.C., Accampamento visigoto, cinque miglia da Ariminum, sera

Alarico, appena fuori dalla sua tenda, osservava l’orizzonte in direzione di Ariminum. Il sentore salmastro delle paludi circostanti si insinuava a fondo nelle narici, confondendosi con il profumo del mare, sospinto da una calda brezza di levante. Molti dei suoi uomini erano indifferenti o infastiditi da quel miscuglio di odori; lui invece li respirava a pieni polmoni, perché gli ricordavano la terra natia, così lontana e irraggiungibile.

Si stirò la schiena facendo scrocchiare alcune vertebre e scostò un lembo della tenda per entrare. Raggiunse lo scrittoio da campo, sul quale erano appoggiati un piccolo scrigno in bronzo dorato, una ciotola di terracotta e una lucerna.

Allentò la cintura e, senza volerlo, con la mano destra sfiorò la pergamena che vi teneva infilata. Si stupì di non averla ancora messa a posto. La sfilò con cura e fece per riporla nello scrigno, ma non resistette alla tentazione di srotolarla e di leggerla un’altra volta.

Afferrò uno dei carboncini che teneva nella ciotola, pronto a tirare l’ennesima linea. Vedendo il documento già tutto pieno di cancellature e correzioni, scosse il capo e buttò a terra il carboncino.

Riavvolse il rotolo con cura, annodandolo con una striscia di cuoio. Tolse la piccola chiave che teneva al collo, aprì il cofanetto e ve lo ripose.

Si sfilò la tunica per darsi una rinfrescata al viso e al torso nel bacile che, come sua abitudine, teneva vicino al pagliericcio.

Stava per spegnere la lucerna, quando qualcuno entrò.

«Ah, meno male che sei ancora sveglio» esordì Ataulfo.

«Si entra così nella tenda del re?» domandò Alarico fingendo irritazione.

«Dimentichi che, prima di essere mio re, sei mio cognato.»

«Ah, bene… Si entra così nella tenda di tuo cognato? E se al posto di tua sorella, nel mio letto in questo momento avessi trovato qualche altra donna?»

«Non è di me che ti devi preoccupare» rispose Ataulfo alzando le mani. «Pensa se al posto mio fosse entrata proprio mia sorella…»

La tenda si riempì delle loro risa.

Ataulfo tornò serio, tirò fuori dalla veste un’epistola e allungò la mano verso Alarico.

«E quella, da dove spunta? Hai deciso di fare testamento?»

L’altro andò dritto al punto.

«Me l’ha appena consegnata il capo della nostra avanguardia.  Arriva da Giovanni, l’arcivescovo di Ariminum.»  

Alarico fece saltare il sigillo con la punta della sica che teneva sempre a portata di mano e lesse con attenzione quelle poche righe, accostandosi alla lucerna.

«Interessante, davvero interessante» commentò porgendo di nuovo la missiva al suo braccio destro.

Ataulfo la scorse con gli occhi e ragionò ad alta voce.

«Fino a oggi non è che i vescovi che abbiamo incontrato sulla nostra strada siano stati molto disposti a venire a patti. Chissà cosa ha davvero in mente questo qui.»

«Domani lo scopriremo. Certo che se spera che io m’inginocchi davanti a lui e gli baci l’anello, se lo può scordare.»

«Hai ragione, non ci resta che aspettare domani, tanto di rischi non ne corriamo; gli esploratori appena rientrati dicono tutti la stessa cosa: niente romani ostili nel raggio di parecchie miglia.»

«Già» rispose il re, «o si preparano a fotterci, oppure…»

«Oppure quel vescovo la sa lunga e mette le mani avanti. Ma rimane il fatto che questa calma è strana» concluse Ataulfo.

Alarico si passò una mano sulla barba incolta. Un’improvvisa vampata di caldo gli salì dalle gambe fino alla testa e non era solo per l’afa, piuttosto per una certa idea, che gli solleticava la nuca e riprendeva vigore. In verità non lo aveva mai abbandonato e quel pezzo di cartapecora che poco prima aveva riposto nel cofanetto ne era la prova.

«I tuoi ordini?» lo riportò alla realtà Ataulfo.

«Domattina marceremo fin sotto le mura di Ariminum, poi si vedrà» sentenziò il re.

Ataulfo annuì e se ne andò senza aggiungere altro.

Alarico rimase in piedi vicino al tavolo, tamburellando le dita sopra lo scrigno. D’un tratto la sua mente si riempì di congetture e progetti.

Cercò di mettere ordine nei pensieri.

Per prima cosa spense la lucerna con un soffio.

L’umidità, che s’impadroniva della notte, lo condusse ancora al catino per rinfrescarsi il viso.

Stavolta i polpastrelli delle dita esitavano, ricalcando la profondità delle tre rughe, che gli segnavano la fronte quasi da una tempia all’altra.

Quarant’anni, la maggior parte dei quali passati a combattere. E per cosa? Per assediare una città dopo l’altra, senza mai raggiungere lo scopo: ottenere il rispetto di Roma per sé e per il suo popolo. Bestiame da allevare, terre da coltivare e da difendere con la spada.

A quarant’anni non si è vecchi, ma non si è più neanche giovani.

Magari c’è ancora tempo per lasciare una impronta nella storia.

I

3 luglio 410 d.C., Ariminum, sera

Il re dei visigoti, con le mani sui fianchi e la schiena ben dritta, scrutava il foro dal portico della Basilica.

Il giorno antecedente, tra lo stupore generale, aveva raggiunto un rapido accordo con l’arcivescovo: occupare la città in modo pacifico, senza alcuno spargimento di sangue, in cambio di un notevole quantitativo d’oro gentilmente offerto, per così dire, dallo stesso prelato e da tutti gli aristocratici e benestanti che abitavano entro le mura.

Sulla carta, un accordo semplice ed efficace.

In verità, una volta spalancate le porte di Ariminum, il re immaginava che alcuni guerrieri avrebbero alternato risse a insidiosi atteggiamenti di ubriachezza molesta, specie all’imbrunire. Non che questo gli creasse qualche scrupolo, tuttavia, non sapendo quanto dovesse rimanere in città, per calmierare la situazione, aveva ordinato che tutto quanto venisse richiesto ai romani, fosse puntualmente pagato in denari: il vino, il cibo, le tuniche pulite, finanche le riparazioni delle armi o delle armature di cui ogni singolo milite necessitasse.

In fondo, per una volta, era soddisfatto di aver raggiunto lo scopo con la politica, invece che col ferro.

Ma acquartierarsi ad Ariminum in modo indolore era stato solo il primo atto e ora, dopo appena un giorno, era già passato oltre.

All’alba aveva deciso di impartire un nuovo ordine, ovvero il contenuto della preziosa pergamena.

A metà giornata la novità era ormai sulla bocca di ogni visigoto.

Era per questo che il sovrano sostava dinanzi la Basilica: voleva che tutti lo vedessero entrare nell’edificio. Così, se qualcuno avesse avuto qualcosa da ridire, avrebbe saputo dove trovarlo.

E quale posto migliore, se non il luogo deputato alla giustizia cittadina, per discutere di eventuali diatribe o ingiustizie.

Così ammirerò pure bei marmi e molti altri preziosi oggetti aveva pensato nel varcare la soglia del portone, ritenendo di essersi mostrato abbastanza.

Invece, eccetto i pregiati rivestimenti di pareti e pavimenti, nella grande aula non aveva visto molto: solo lo scranno di un magistrato che, fino a qualche giorno prima, aveva amministrato la giustizia e un grande candelabro in bronzo pesantissimo, dall’aria un po’ vetusta.

Deluso, appoggiò l’avambraccio sinistro su una colonna. D’istinto alzò lo sguardo e notò appesa una grande lucerna spenta. Fu una scoperta inaspettata. Afferrò lo scranno superstite, lo posizionò sotto di essa e ci salì sopra per rimirarla meglio: non ne aveva mai vista una così raffinata. Non era d’oro, né d’argento, ma doveva essere sua. Tentò di tirarla via a mani nude, ma non si mosse per niente. Prese la sica e forzò il gancio che la teneva ancorata al marmo, ma il chiodo di fissaggio era infilato troppo a fondo.

Ecco perché l’hanno lasciata pensò.

Ma l’eco di passi svelti e voci agitate lo distolsero dal suo intento.

«Alla fine qualcuno ha deciso di rallegrarmi la serata… Mi stavo quasi preoccupando» bisbigliò ironicamente a se stesso, grattandosi la nuca con la punta dell’arma, per poi riporla nella guaina. Scese dallo scranno, lo allontanò con un calcetto e rimise i panni del severo comandante.

Essendo quasi in fondo all’aula, prima ancora di vedere chi lo stesse cercando, riconobbe alcune voci; quella del fidato Ataulfo e quella alterata di Manfrido: un guerriero indomito, uno di quelli che, pur di ammazzare Romani, lo avrebbe seguito sino ai confini del mondo conosciuto.

Attese gli uomini con le mani dietro la schiena, in piedi e a testa alta, immedesimandosi in pieno nel magister della Basilica.

«Perché il nome del mio ragazzo è impresso su quella dannata pergamena? Dove deve andare? Che cazzo è tutto questo mistero?» esordì Manfrido, non appena giunse al cospetto del re. Le guardie lo affiancarono e attesero il verbo di chi comandava veramente.

«Tre domande e nemmeno un saluto, Manfrido. Le tue maniere fanno proprio schifo, lasciatelo dire.»

«Le mie maniere non c’entrano, Alarico!» replicò a tono, «degli altri me ne sbatto, ma perché prendere anche il mio unico figlio?»

«Rasserenati. Nessuno dei nostri giovani correrà alcun rischio, tanto meno il tuo. Per ora, ti basti sapere che sono parte di una nuova trattativa» sentenziò il re, ostentando una calma apparente e del tutto simile a quella della quiete prima della burrasca. «Comunque, domani farò un discorso pubblico» concluse.

L’irascibile Manfrido però non si accontentò della spiegazione.

«Mio figlio Alateo non si muove, rimane con me. Tira una bella linea nera su quel fottuto incarto che gira da stamattina e scegli qualcun altro!» insistette, mimando il gesto con le dita della mano.

«Guardie, fuori!» gridò Alarico, stendendo il braccio verso la porta, ma sostenendo lo sguardo sull’insorto capo clan.

Attimi di silenzio.

Accortosi che anche Ataulfo lo fissava con le braccia incrociate, Manfrido intuì che non si stava mettendo proprio bene, così schiarì la voce e cercò di aggiustare il tiro.

«Alarico, tu sai che voglio solo proteggerlo. Il divino Gaut mi ha concesso solo…» ma il re lo stoppò in modo brusco.

«Non bestemmiare col tuo paganesimo! Hai solo un figlio, lo hai già detto» e si avvicinò allo scranno che poco prima aveva calciato via, per raddrizzarlo proprio sotto la lucerna che voleva per sé. «Siedi» disse invitandolo con la mano.

Manfrido obbedì e pensò al peggio, memore delle punizioni che il supremo comandante poteva infliggere, se offeso o insoddisfatto. 

«Perché ogni volta che tratto con Onorio, tu e altre teste di cazzo cominciate a lagnarvi come puttane romane?» urlò alterato il sovrano. «Io cerco di trovare una soluzione per il nostro popolo! Lo capisci?»

Manfrido deglutì a fatica e, preoccupato nel vedere Ataulfo defilarsi alle sue spalle, abbozzò una risposta.

«Lo capisco, certo. Ma la nostra frustrazione è grande, non otteniamo mai niente. Siamo stanchi di essere portati per i campi dai romani.»

Quelle parole colsero Alarico nel vivo: sapeva che erano veritiere, ma non lo diede a vedere, piuttosto cercò di capire fin dove volesse spingersi l’insofferente capo clan.

«Sai, Manfrido, percepisco un po’ di astio nelle tue parole: ho come l’impressione che non approvi come guido il nostro popolo. Vuoi forse il mio posto?» domandò diretto.

Ataulfo, udita quella domanda, sfoderò lo stiletto in modo lento, provocando un forte stridio, che rimbombò nell’aula.

«E questo che c’entra adesso?» sobbalzò Manfrido, pensando subito che volessero fargli la pelle. «No, aspetta un momento» continuò, «io non ho mai detto nulla di simile.»

«Però, da come ti rivolgi a me, pare proprio che lo pensi. Allora, vuoi il comando? Te ne do l’occasione: un testimone ce lo abbiamo» e indicò Ataulfo, il quale, capite le intenzioni del cognato, tornò davanti a Manfrido per offrirgli l’arma dalla parte dell’impugnatura.

Solo nell’osservarla, il capo clan si agitò molto. Iniziò a sudare in modo vistoso e rispose:

«Re Alarico, non volevo offenderti. Domando perdono, se l’ho fatto.» Ignorò il pugnale e, poggiato un ginocchio a terra, chinò il capo. «Sai che ti sono fedele; il mio è stato solo uno sfogo: non mi sono mai lamentato, né per i bottini, né per altro. Ora protesto, è vero, ma solo per la sorte di Alateo.»

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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