La promessa

La promessa di Enrico Scognamiglio

Viaggio all’inferno. Dal ghetto di Varsavia al campo di Auschwitz.

Aharon Rosenberg è un affermato architetto a cui la follia nazista ha portato via tutto. Con la sua famiglia, subisce le sorti delle migliaia di ebrei polacchi. Prima le leggi razziali, poi le privazioni e le violenze, infine l’isolamento nel ghetto di Varsavia, dove sopravvivere è una lotta continua ed estenuante. Dovrà combattere contro la fame le malattie, contro un uomo di potere invaghito di sua moglie, contro il male oscuro che assale sua figlia Maria e molti altri terribili eventi. Ma nulla potrà per impedire che separino la sua famiglia. È durante la drammatica notte che precede il distacco che nascerà la sua solenne promessa. A Olga, a Eliza e a Maria serve una speranza, ma quali parole trovare per alleviare la loro pena e per convincerle che un futuro è ancora possibile?

Acquista qui – Formato Kindle – Copertina flessibile

Comincia a leggere qui gratuitamente l’incipit del libro
La promessa:

1

Varsavia, 11 Settembre del 1942

Nuvole basse e grigie stagnavano sulla città. Il cielo sembrava trasudare tristezza, quasi avvertisse il dolore di quanti erano radunati sulla Umschlagplatz. Bambini senza più la gioia della loro età, uomini e donne dagli sguardi smarriti, stretto in pugno quell’ormai inutile permesso di lavoro costato a chi era riuscito ad averlo buona parte dei pochi beni, a tante donne qualcosa di più prezioso.

Loro non dovevano essere su quella piazza.

Di certo ci sarà un errore!

Si dicevano l’un l’altro, come a voler trovare una ragione diversa da quella che ognuno ben conosceva e che giustificasse la loro presenza in quel luogo.

Non possono trasferirci! Vedrete che presto arriverà qualcuno per mettere in chiaro le cose. Hanno bisogno di noi! Chi manderà avanti le loro industrie, chi cucirà le loro uniformi, chi sistemerà le strade o spalerà la neve se non noi?

Era la speranza di quanti ancora credevano in quell’effimero feticcio, che tuttavia li aveva tenuti in vita. Speranza che svanì quando comparve il convoglio trainato da una locomotiva sbuffante. Allora la paura emerse in tutta la sua forza ed ebbe presto il sopravvento sulla già sfuggente illusione. Le porte dei carri vennero aperte, oscure fauci che a breve avrebbero divorato gli affetti, i ricordi, il presente e il futuro di ognuno; furono avvicinate le rampe, poi un ordine perentorio attraversò l’aria e la scena, fino a quel momento immobile, si animò.

Spinte, percosse inferte a chiunque capitasse a tiro, ingiurie gridate dai soldati tedeschi, dalle guardie ucraine e lettoni, dagli uomini della polizia ebraica; i cani, tenuti al guinzaglio lungo, abbaiavano furiosamente e mordevano i calcagni di chi non si affrettava. Cadere significava morire; allora c’era sempre qualcuno pronto a colpire, a colpire per uccidere. Grida soffocate dalla paura, pianto di bimbi, invocazioni di aiuto a chi aiuto non poteva darne, poi, in un silenzio rassegnato, i primi cominciarono a salire sui vagoni, mentre la voce metallica di un altoparlante rassicurava circa la destinazione del viaggio che presto avrebbero intrapreso. Era solo una menzogna a cui, tuttavia, ognuno voleva credere. Non ci sarebbe stato alcun luogo migliore ad attenderli, non ci sarebbero stati stabilimenti termali, nessuna ridente cittadina pronta ad accoglierli, nessun lavoro.

Il treno sembrava non aver fine. Vagoni tutti uguali agganciati l’uno all’altro in un susseguirsi interminabile, nei quali la folla ammassata sulla piazza sparì in pochi minuti, poi le porte furono chiuse. Dei soldati si sistemarono nelle torrette di sorveglianza, simili ad avvoltoi appollaiati nei loro nidi, altri ancora si disposero lungo il convoglio. Gli ufficiali della Wehrmacht e delle SS, riuniti in piccoli gruppi, sostavano sulla piazza ormai vuota discorrendo come degli amici a un convegno associativo, come se quel che stava accadendo non li riguardasse, come se in quei carri fossero state stipate delle bestie e non degli esseri umani, il cui destino non era affar loro.

Servì del tempo perché il convoglio cominciasse a muoversi. C’era silenzio nei vagoni. Silenzio di voci, rotto solo dallo sferragliare delle ruote sui binari e dai lamenti dei bambini, dal sinistro cigolio di un secchio che serviva da latrina, attaccato a un gancio che pendeva dal soffitto. Disperazione negli occhi di ognuno, sguardi imploranti persi nel nulla, lacrime che scendevano silenziose, terrore in ogni cuore. Erano più di cento per ogni vagone. Bambini, uomini e donne marchiati da un brandello di stoffa del colore di un cielo sbiadito, stretti gli uni agli altri nell’aria che puzzava di abiti sporchi, di corpi da troppo tempo non lavati, di aliti cattivi, i piedi immersi nella poltiglia che ricopriva il pianale, paglia impastata con urina, escrementi e calce viva, le cui esalazioni bruciavano gli occhi e i polmoni. L’aria che penetrava attraverso la minuscola feritoia posta in alto non riusciva a disperdere il fetore e dava appena un po’ di luce. Era chiusa da un fitto reticolo di filo spinato pronto a mordere chiunque provasse a toccarlo. Chiusa sulla ragione, sul futuro, sulla libertà, chiusa sulla vita.

Con il trascorrere delle ore il freddo cominciò a farsi sentire, così la sete e la fame. La paura si trasformò in qualcosa di più profondo. I lamenti dei bambini divennero prima pianto, poi silenzio. Ora, nel buio dei vagoni, dormivano sfiniti tra le braccia delle loro madri, dei loro padri o di chi, in un coraggioso gesto di pietà, aveva voluto prendersene cura. Buio anche in tutte quelle anime disperate che correvano incontro all’inferno di Birkenau.

Avrebbero voluto che in fondo a quella strada ci fosse ad attenderli un letto pulito su cui distendersi a riposare, una minestra calda per scacciare il freddo e placare i morsi della fame, del pane appena sfornato, un fuoco accanto al quale scaldarsi, ascoltare le voci gioiose dei bambini e non il loro pianto, udire parole che dessero speranza.

Non avrebbero trovato niente di tutto ciò dove erano diretti se non l’orrore, il tormento, l’odio, l’indifferenza e il gelido abbraccio della morte. Nessuno di quanti erano su quel treno aveva certezze, ma ognuno voleva credere in una nuova stagione e allora tutte quelle anime pregavano perché quel viaggio finisse in fretta.

E quel calvario ebbe finalmente fine. All’inizio della seconda notte dalla partenza, il convoglio si arrestò in una grande spianata, non lontano da un tetro edificio che si stagliava contro un cielo rosseggiante, oltre il quale si sarebbe compiuto il destino di ognuno. Prima che le porte fossero aperte un uomo si chinò, raccolse una manciata di melma e con quella, senza un’apparente ragione, si sporcò le mani.

2

Due anni prima

C’era silenzio in casa dei Rosenberg, ed era così in tutte le case degli ebrei di Varsavia, un silenzio ammantato di tristezza. Dopo la recita del Kiddùsh, la famiglia consumò in fretta la misera cena: una patata lessa a testa, una ciotola di brodo in cui erano state cotte le patate insieme con qualche verdura, una fetta di pane raffermo. Dopo aver baciato sulla fronte prima Olga, sua moglie, poi Eliza e Maria, le sue due figlie e infine Sara, la madre di Olga, Aharon soffiò sulle candele dello Shabbat.

Sparecchiarono in fretta e nella poca luce e in silenzio rimasero seduti intorno al tavolo, i sensi tesi per cogliere i rumori che dalla strada salivano fino in casa. Abbaiare di cani, voci aspre, passi pesanti sul selciato, un grido disperato, un insulto gridato in tedesco, un colpo di fucile e il borbottio di un motore che si allontanava. Aharon volse lo sguardo alla finestra. Avrebbe voluto avvicinarsi, aprire gli scuri e dare un’occhiata in strada, ma sua moglie lo trattenne e con un cenno del capo gli chiese di non farlo.

Aharon Rosenberg era un architetto apprezzato e conosciuto in tutta Varsavia, città che lo aveva visto nascere quarant’anni prima. Uomo di successo, pieno di interessi e dal bel portamento. Senza alcun dubbio affascinante, era, a detta di molti, la copia esatta di Cary Grant. I suoi lineamenti somigliavano in maniera incredibile a quelli dell’attore. Aveva la sua stessa altezza, lo stesso colore degli occhi e lo stesso sorriso. Dell’attore aveva anche quel tenue taglio sul mento.

Era l’unico figlio di Nathan, una vita, quest’ultimo, trascorsa come docente presso l’Istituto di Letteratura dell’Università di Varsavia, e di Henriette Strauber, insegnante di violino al conservatorio. Aharon aveva condotto un’esistenza priva di problemi, un’infanzia serena e un’adolescenza vissuta nel benessere, la giovinezza dedicata allo studio, allo sport, agli amici. Dopo le scuole superiori, la facoltà di architettura e la laurea a pieni voti. Conobbe Olga Widmann in occasione di una visita presso l’ospedale civile, dove la donna frequentava un corso di specializzazione, e la sposò dopo pochi mesi. Nei due anni successivi nacquero Eliza e Maria, poi la famiglia si trasferì a Berlino, città in cui visse fino a quando le leggi razziali lo consentirono. Olga riprese la sua professione di medico una volta tornati a Varsavia mentre Aharon, che in quegli anni aveva lavorato sodo, si concesse qualche mese di dolce far niente, dedicandosi tuttavia all’antica passione per il violino.

La vita si era dimostrata magnanima con i Rosenberg, concedendo loro più di quanto fosse necessario. Una casa accogliente in un buon quartiere, professioni che amavano, delle splendide figlie e nessun problema economico. Avevano tutto, fino al giorno in cui avvenne l’invasione, quando qualcuno decise che non dovesse esserci più pace, quando il mondo sembrò capovolgersi e sprofondare in un abisso senza fine.

Nathan ed Henriette furono tra i primi a essere deportati. I soldati tedeschi li prelevarono dalla loro casa e li internarono nel campo di concentramento di Stutthof. Leopold, il padre di Olga, fu ucciso quella stessa notte. Insegnava storia dell’arte all’università e il suo nome, come quello dei genitori di Aharon, era da tempo incluso in un elenco di persone potenzialmente pericolose per il Reich. L’uomo aveva opposto resistenza all’arresto e decretato così la sua fine.

Era solo l’inizio dell’oscura notte calata su Varsavia, per Aharon e per la sua famiglia fu il battesimo del dolore. Prese in casa Sara e invano cercò di avere notizie circa il destino dei propri genitori. Provò a rivolgersi ai tanti amici che occupavano cariche importanti nelle istituzioni cittadine, ma molti, proprio perché ebrei, erano stati uccisi, deportati o dimessi d’autorità. I pochi che ancora restavano, confessarono con franchezza di non poterlo aiutare. Forse per paura, forse perché già diventati ingranaggi di una spietata macchina che li avrebbe prima usati per poi liberarsene senza alcun riguardo.

Anche il tentativo di procurarsi un lavoro, un qualsiasi lavoro, si rivelò inutile. Presto Aharon comprese che trovarne in una città così provata, dove gli ebrei non avevano più alcun diritto, dove chiunque li favorisse rischiava pesanti conseguenze e dove la sola preoccupazione era sopravvivere, significava perdere tempo. A Olga non andò meglio. Le fu impedito di esercitare e di rimettere piede in ospedale. Sapeva che prima o dopo sarebbe accaduto. È solo questione di tempo ripeteva spesso a suo marito, poi per noi ebrei ci saranno solo porte chiuse. È una follia! le rispondeva Aharon ogni volta, un’incomprensibile follia! Non c’era niente che potessero fare per arginare quella marea di disprezzo e di ottusa malvagità che aveva sommerso Varsavia e l’intera Polonia. Nessuno poteva fare niente.

Olga aveva qualche anno meno di Aharon. I capelli biondi portati molto corti scoprivano un volto dall’incredibile bellezza, arricchito da straordinari occhi blu. Eliza, la primogenita, quindici anni, vantava la stessa bellezza e un carattere più che determinato per la sua età. Maria di anni ne aveva quattordici, ingenua e sensibile forse più del dovuto. La sua era una bellezza diversa, simile a quella di suo padre.

«Perché le spegni ogni volta? Non si offenderà Dio?» chiese Eliza dopo che il fumo delle candele si fu dissolto. Parlò in un sussurro, come ormai tutti facevano.

«Dio capirà, Eliza» rispose suo padre prendendole la mano. «Ne sono rimaste poche e non se ne trovano più da nessuna parte, è per questo che dobbiamo cercare di farle durare il più a lungo possibile.»

«Stamattina sono stata a casa degli Eigenfeld» continuò Eliza. «Josef mi ha confidato che suo padre ne ha una scatola intera. Potresti chiederne a lui.»

«Ci hanno tolto tutto» rispose Aharon senza riuscire a nascondere l’amarezza, «e quel poco che la gente è riuscita a salvare lo tiene per sé, anche se si tratta di stupide candele. E poi non voglio chiedere l’elemosina a nessuno.»

«Potremmo farle noi» propose Maria con gli occhi che le brillavano. «Basta sciogliere del sapone e aggiungere della segatura, per lo stoppino potremmo usare dello spago o del cotone… la scatola dei fili ne è piena.»

«E dove pensi che si possa trovare del sapone?» ribatté Eliza «Ne abbiamo a malapena per lavarci e sai che non ci è permesso entrare nei negozi dei gentili.»

Eliza e Maria continuarono nei loro discorsi, ma Aharon aveva smesso di ascoltarle, preoccupato dalla possibilità di nuove irruzioni. Ne avevano già subite due e non era stato piacevole. Che a perpetrarle fossero i soldati tedeschi, le guardie ucraine o la polizia dello Judenrat aveva poca importanza: la barbarie che li distingueva era la stessa. C’era qualcosa, tuttavia, che più di ogni altra lo affliggeva, ed erano le voci che già da qualche giorno circolavano. Cosa ancora potrà accadere? si domandò quando quelle voci arrivarono fino a lui. I nazisti li avevano privati di ogni diritto e derubati di tutto ciò che non erano riusciti a nascondere, marchiati come degli animali e costretti a dipendere da loro per qualsiasi bisogno, cosa poteva ancora accadere che già non fosse accaduto? Eppure quelle voci facevano pensare che la storia fosse appena agli inizi e che la parte peggiore dovesse ancora essere scritta.

«Quando potremo tornare a scuola, Eliza e io?» chiese Maria mentre osservava sua nonna rammendare delle calze. «E voi, quando riprenderete il vostro lavoro?»

«Quando tutto questo sarà finito» rispose Olga sollevando lo sguardo da un testo di medicina che stava sfogliando.

«E quando finirà?» domandò Eliza.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

Acquista qui – Formato Kindle – Copertina flessibile

I libri di Enrico Scognamiglio