Il bivio

Il bivio - Basile - Corciolani - Trebeschi et al

Il bivio di Angelo Basile, Riccardo Bruni, Brunella Caputo, Piera Carlomagno, Valeria Corciolani, Pelagio D’Afro, Claudia Funnicello, Fabio Girelli, Alessandro Morbidelli, Nicola Skert, Giada Trebeschi, Letizia Vicidomini –

Il bivio è un’antologia di racconti noir che narra il topos della scelta declinato in dodici modalità differenti le quali, considerate in un unicum, hanno come risultato un più che interessante canto polifonico.

Ognuno degli autori, ognuno dei personaggi di cui si racconta fa sentire la propria voce nell’esatto momento in cui si trova davanti a un bivio, cioè davanti a quella scelta che potrebbe cambiare completamente la propria vita o quella degli altri. E ciascuno di loro lo fa in tonalità diverse, a volte leggere e ironiche a volte spietate, imprevedibili o grottesche regalando al volume la grande qualità di mostrare molti punti di vista, molte sfaccettature utili a una riflessione più profonda sull’argomento, una riflessione che, ci auguriamo, non resti fine a se stessa.

LA SCELTA DEGLI AUTORI:

Anche gli autori si son trovati di fronte a un bivio quando hanno accettato di partecipare a quest’antologia e così, anche loro, hanno dovuto scegliere e hanno scelto la generosità decidendo di devolvere i diritti d’autore di questo libro per aiutare la ricerca sull’Alzheimer destinandoli a:

AIRALZH
Associazione Italiana Ricerca Alzheimer Onlus
Viale Primo Maggio 13
Barberino del Mugello (Firenze)
www.airalzh.it

Acquista qui – Formato KindleCopertina flessibile

Comincia a leggere qui gratuitamente l’incipit del libro
Il bivio:

L’incidente

di
Angelo Basile

Piero siede in pizzo alla piccola branda, un materasso sfondato gettato su una rete avvitata al muro. Addossati alla parete di fondo un lavabo macchiato e un water. Nessun tipo di tramezzo per nasconderli alla vista. Di fianco l’unico arredo, un tavolino di legno e una sedia. Nella cella non ci sono finestre e la luce dei neon in corridoio si diffonde sempre uguale, lattiginosa e malata, attraverso le sbarre.

Si domanda in quanti, prima di lui, siano rimasti a fissare il corridoio deserto da quella prospettiva.

In quanti siano invecchiati appoggiati alle pareti scrostate dall’umidità, con l’unica compagnia dei ricordi e quanti anni ci abbiano messo per impazzire, finalmente.

Poi si sofferma a pensare quante probabilità esistano che due meteore collidano nella vastità dell’universo.

E i ricordi prendono il sopravvento.

Piero era sempre stato un uomo mite, discreto, quasi dimesso.

La sua particolare timidezza non lo rendeva popolare tra i colleghi all’ateneo né la sua presenza era richiesta a incontri che non fossero di natura collegiale.

Alle feste di fine anno non era tra i docenti invitati, ma era quello cui le insegnanti più giovani rifilavano le sessioni d’esame estive, tra un sorriso sporco di rossetto o una strizzatina d’occhi, perché lui sembrava incapace di dire no. E avrebbero anche potuto risparmiarsi le moine, tanto lui avrebbe accettato lo stesso.

Perché a Piero piaceva insegnare. Non aveva altre distrazioni.

Tranne una.

Un segreto che custodiva gelosamente.

Scriveva poesie.

Lo faceva fin dai tempi del liceo e le conservava in una serie di diari nel suo studiolo, ricavato da una stanza dell’appartamento ricevuto in eredità dai genitori, scomparsi quando lui era ancora giovane. La camera era quella che lui occupava da ragazzo. Sarebbe anche potuto rimanerci, ma aveva preferito trasferirsi per dormire in quella matrimoniale e riadattare la sua vecchia cameretta, sbarazzandosi del lettino e ampliando la libreria. I diari erano il suo unico tesoro.

Conobbe Anita un pomeriggio di luglio, proprio durante una di quelle afose sessioni estive che lui spesso presiedeva. Lei era un membro esterno.

Fu subito conquistato dalla sua spigliatezza, la sua estroversione, così distante da lui. Opposta. Per questo lo attrasse.

Più giovane di lui di qualche anno, esuberante e disinibita, non nascondeva le proprie aspirazioni cattedratiche. Era votata alla carriera. Per questo forse lo scelse come compagno. Era sicura che non l’avrebbe intralciata.

Così Piero, dopo tanti anni di solitudine, incredulo nel destino che gli aveva concesso una simile gioia e abbagliato dal fascino ferino di Anita, ebbe un’inquilina con cui condividere il grande letto matrimoniale.

Votato al raggiungimento degli scopi e della felicità muliebre, al suo posto correggeva tesi, produceva articoli per la letteratura che lei si limitava a firmare, colmava le lacune dovute all’esuberanza e alla smania di successo.

Negli anni di matrimonio la sua iniziale devozione alla donna si tramutò in condiscendenza, in rassegnata accettazione.

Lei prese quasi immediatamente a tiranneggiarlo, a dileggiarlo nei salotti colti che frequentava, da sola, per accaparrarsi le simpatie di quanti avrebbero potuto aiutarla nella sua ascesa professionale, che infatti non tardò ad avverarsi.

Il letto matrimoniale che aveva visto Piero dormire in solitudine per anni prima dell’arrivo di Anita, prese ad accogliere con una certa frequenza ospiti clandestini. Di qualcuno di questi Piero ne ebbe il sospetto, di altri certezza, ma finse sempre di non accorgersi di nulla. A lui bastava rifugiarsi tra le pagine dei suoi diari per fugare le frustrazioni.

Con sorpresa dello stesso Piero, che non sospettava di essere capace di nutrire simili sentimenti, negli ultimi anni conobbe dapprima una profonda amarezza, destinata a tramutarsi in disprezzo per la donna che aveva amato. Provava vergogna per questa emozione, sentendola pesare nell’animo come una colpa, che sfogava chiudendosi nel piccolo studio a scrivere versi colmi di tristezza.

Fino al giorno maledetto in cui conobbe l’odio, potente e incontenibile.

Chiara era una donna cresciuta in una famiglia amorevole. Se avesse dovuto descriversi, lo avrebbe fatto come una persona semplice, felice. E lo era stata, fin quando non conobbe Ivan.

Lui sembrava un ragazzo a modo come ce ne sono tanti nei piccoli paesi che affacciano sul lago.

S’incontrarono ai tempi dell’università. Fu subito amore. Lui trovò posto in uno studio legale, dopo l’università, lei rinunciò a fare la maestra per dedicarsi completamente a lui. Si sposarono e andarono a vivere in una villetta impreziosita da un giardino all’inglese e un patio colorato da vasi di fiori profumati.

Le amiche di Chiara furono le prime ad accorgersi che qualcosa, dietro le finestre coperte da tendine di pizzo, non funzionava. Cominciò a disertare gli aperitivi del giovedì, smise di frequentare la palestra, abbandonò i gruppi di WhatsApp, non partecipò più alle feste di compleanno.

Poi comparvero i primi lividi, nascosti dietro grossi occhiali da sole. Anche l’abbigliamento mutò gradualmente: maglioni a collo alto e pantaloni lunghi, le rare volte che si faceva vedere in giro.

Ma la cosa che ferì di più chi la conosceva bene fu il progressivo cicatrizzarsi del suo sorriso.

Come spesso accade, con il passare degli anni nemmeno la cercarono più, dimenticata dietro i muri della villetta che la rinchiudeva.

L’ultimo incidente, come li chiamava lei, era capitato a causa di una sua leggerezza.

Proprio non si capacitava di come avesse fatto a essere così incauta, come non avesse capito che stava tirando troppo la corda.

Ivan era rientrato stanco dallo studio, aveva chiesto una birra prima di cena e si era seduto sulla poltrona preferita a guardare la tele, mentre lei preparava in cucina.

Doveva stare attenta a che l’arrosto non fosse troppo secco o le patate troppo salate, perché sapeva che altrimenti sarebbe potuto capitare un incidente, ma non fu una sua disattenzione ai fornelli a scatenarlo.

Ebbe l’impudenza di chiedere al marito, con l’approssimarsi di un anniversario di matrimonio, se avesse pensato a qualcosa di speciale per festeggiarlo.

Lui la guardò con un mezzo sorriso e le chiese a cosa stesse pensando lei, invece.

Già in quel momento avrebbe dovuto capire che sarebbe stato molto meglio tornare in cucina e lasciarlo in pace a guardare il telequiz, invece commise l’errore di sottovalutare i segni premonitori, il suo respiro che accelerava e quello stringere la lattina tanto da sbiancare le nocche, e gli confessò che le sarebbe piaciuto fare un viaggio speciale, magari negli Stati Uniti, dove lei non era mai stata. Non che fosse stata in molti altri posti da quando si era sposata.

Quella volta il castigo fu piuttosto duro, probabilmente dovuto al fatto che la giornata di Ivan passata fra tribunale e studio a conversare con clienti fastidiosi, era stata davvero pesante.

L’anniversario, due settimane più tardi, le macchie scure come petrolio sulle cosce e sull’addome avevano lasciato il posto a una marezzatura violacea, mentre le labbra si erano sgonfiate quasi completamente, almeno da consentirle di brindare, sola con lui, prima di fare l’amore, come lei si ostinava a chiamare le prestazioni sessuali alle quali era costretta, nei tempi e nei modi che lui decideva.

Il venerdì sera Piero rientrò a casa e trovò Anita seduta sul divano, intenta a leggere un libro.

Si salutarono con un cenno, ma a lui non sfuggì una scintilla di cattiveria negli occhi della donna, che intanto si era rituffata nella lettura, o così aveva finto.

Percepiva un’attesa nell’aria, ma non sapeva spiegarsi di cosa.

Posò la sua borsa piena dei fogli di appunti delle lezioni e di testi scolastici, si tolse la giacca, allentò la cravatta e si sedette accanto a lei.

Anita abbassò il libro e scoprì il viso.

Stava sorridendo, beffarda.

La sua voce era tagliente come vetro rotto. Probabilmente aveva bevuto un bicchiere o due.

«Così ti senti superiore, vero? Credi di essere meglio di me?»

Piero non capiva, ma un brutto presentimento cominciava a farsi strada nella sua anima.

«Che dici Anita? Come ti viene in mente?»

Lei rise.

«Che ometto bizzarro che sei! Non ti scompone nulla, vero? Sei sempre calmo, tu. Io combatto tutti i giorni per emergere, ma a te non frega niente. Non t’interessa essere un mediocre, non hai aspirazioni, tu. Eppure ti senti migliore di me.»

«Anita, forse è meglio rimandare la discussione a domani. Vuoi, per piacere?»

Lei lo fissò, e se il suo sguardo fosse stato in grado di ferire, lui avrebbe sanguinato.

«Ma certo. Ora tu hai da fare cose più importanti, vero? Magari vuoi scrivere qualche versetto del cazzo in quei tuoi stupidi diari!»

A Piero si congelò il sangue. Scattò in piedi.

«No Anita! Tu non hai, non hai…»

Non seppe terminare la frase.

Lei iniziò a ridere così sguaiatamente da non riuscire quasi a parlare.

«Vai, vai a vedere…»

Piero corse in quella che era stata la sua cameretta.

Spalancò la porta e rimase impietrito.

La puzza di carta bruciata aveva impregnato le pareti, nonostante le finestre fossero aperte.

Sulla scrivania era appoggiato un braciere, simile a quelli che si vedono nelle illustrazioni dei libri di storia, che per ironia della sorte proprio lui aveva acquistato anni addietro in un mercatino di antiquariato. Lo spostamento d’aria che aveva provocato aprendo la porta fece vorticare su di esso sottili volute di cenere grigia, tutto quanto rimaneva dei suoi diari.

Sentiva le risate aumentare d’intensità alle sue spalle, poi percepì anche il suono del suo cuore che pompava furiosamente il sangue dal petto verso le tempie, fin dietro gli occhi.

Si voltò lentamente e la vide ridere a crepapelle, proprio davanti a lui.

Le serrò le mani intorno alla gola, inizialmente solo per farla smettere di ridere.

E lei smise.

Lesse nel suo sguardo per la prima volta in tanti anni un sentimento nuovo nei suoi confronti.

Non più commiserazione, scherno, meschinità.

Vi scorse la paura.

Ne fu galvanizzato.

Strinse ancora più forte, legando i suoi occhi a quelli di lei.

Stringeva e spingeva verso il basso, costringendola in ginocchio.

Lei provò a divincolarsi, lo graffiò, scalciò, lo colpì. Ma l’odio che Piero sentiva fluire attraverso le sue mani strette era più forte e più appagante di qualsiasi sensazione conosciuta fino allora.

Anche quando le labbra della moglie divennero nere e la lingua penzolò umida sul mento, quando gli occhi ormai spenti furono sul punto di schizzare dalle orbite, quando tutto il suo corpo inerte pesò nelle sue braccia, lui non mollò la presa.

Non seppe dire quanto tempo rimase così, prima di far precipitare il cadavere di Anita sul pavimento.

Quel venerdì Ivan rincasò di buon’ora.

Si sarebbe fatto una doccia, avrebbe mangiato qualcosa, uno spuntino, non troppo pesante, poi sarebbe andato a giocare a calcetto con gli amici, come tutti i venerdì che il Signore nella sua gloria aveva messo sulla terra.

Si accorse che qualcosa gli avrebbe intralciato i piani nel momento in cui scorse lo sguardo terrorizzato di Chiara quando aprì la porta di casa.

Quella donna per lui era un libro aperto.

Sicuramente ne aveva combinata una delle sue, particolarmente grave a giudicare dallo sgomento che le leggeva in viso, e ora temeva la giusta punizione.

Ivan sapeva anche essere magnanimo, era bendisposto al pensiero della serata e se avesse dovuto punirla, lo avrebbe fatto solo per ricordarle, la prossima volta, di prestare più attenzione ai suoi doveri.

Il mezzo sorriso comparve sul viso dell’uomo mentre stringeva i pugni.

«Che c’è tesoro. Sembra tu abbia visto un fantasma.»

Chiara balbettava.

«Io… oggi è venerdì.»

«Ma certo tesoro. Oggi è venerdì, significa che il tuo maritino ha lavorato tutta la settimana e oggi si merita un po’ di svago. Cosa c’è che non va?»

Tentò di sorridere, ma non c’era più abituata e le venne fuori una smorfia.

«Io… mi sono dimenticata di preparare la borsa del calcio.»

Ora Ivan capiva la paura della moglie. In effetti la cosa era piuttosto grave.

Si avvicinò lentamente mentre lei indietreggiava con le spalle rivolte alla cucina.

«Tu ti sei dimenticata.»

Ripeté quella frase masticandola, quasi fosse un cibo esotico, per decifrarne il gusto.

Chiara era sul punto di piangere. Si ritrovò in cucina, suo marito di fronte e il banco alle spalle.

Non aveva via di fuga.

Tentò di rimediare, ma le mani e la voce tremavano.

«Ti ho preparato la cena. Tu mangia, io vado subito a prepararla, non farai tardi.»

Lui le accarezzò il volto, lei quasi urlò al contatto della mano sulla pelle.

Ivan parlò con calma, come sempre faceva prima di colpire.

«Certo. E magari domani ti dimenticherai di preparare il pranzo, o di fare la spesa o di quelle due o tre cose che devi fare quando io sono al lavoro, a farmi il culo. Perché noi siamo una famiglia, ricordi? E abbiamo ognuno i nostri compiti.»

Lei lo implorò.

«Ti prego, non capiterà più, vedrai.»

Lo schiaffo in faccia le fece ruotare il busto.

Era cominciata.

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