Gli Ezzelino – Signori della guerra

Gli Ezzelino – Signori della guerra di Giada Trebeschi

A few Highlights like prices and/or location of plot.
about 50 words

Seguendo una delle più controverse e ambigue cronache ezzeliniane – cioè quella di Pietro Gerardo – questo romanzo racconta con nitidezza di particolari e grande partecipazione emotiva, la vita, gli intrighi e le guerre della dinastia degli Ezzelino da Romano che, tra XII e XIII secolo, ha dominato e tiranneggiato la marca Trevigiana.

Tramite il gioco del doppio narratore – che rimanda al topos antropologico delle serate attorno al fuoco della più antica tradizione orale – il giovane Pietro Gerardo riferisce le storie ascoltate dalla viva memoria della vecchia strega Erofile.

La strega ha conosciuto più di una generazione dei da Romano e ne ripercorre le gesta soffermandosi particolarmente sul diabolico Ezzelino III del quale si disse ogni peggior cosa e che, alleato dell’imperatore Federico II e come lui scomunicato dal papa, venne poi relegato da Dante all’inferno.

Il testo è avvincente e stimolante nella sua impostazione e, grazie a una coinvolgente e inappuntabile narrazione, l’autrice cesella affascinanti ritratti di vita medioevale sia nelle campagne sia nei palazzi del potere.

Una storia che viene dal passato per un libro modernissimo, da non perdere, per chi desideri vivere il romanzo della Storia raccontato con grande forza narrativa.

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Gli Ezzelino – Signori della guerra:

I

Casus belli

Quando chiesi il suo nome nessuno seppe rispondermi.

La vecchia non aveva più un nome. Il suo viso era segnato da solchi profondi che si confondevano fra loro, i capelli erano radi e bianchissimi, le labbra un taglio nella corteccia di un albero, eppure gli occhi scurissimi scintillavano accesi da un fuoco che ardeva da dentro. Il suo corpo era minuto e ricurvo e per tutto il tempo che passai, incantato, ad ascoltare la sua voce quieta e profonda, le sue mani, incessantemente, intrecciarono dei fili di seta.

Era l’inverno dell’anno del Signore 1273.

La mia famiglia mi aveva mandato a studiare diritto a Padova e la mia passione per le storie d’altri tempi mi aveva portato fino alle porte di Vicenza a casa di una vecchia che si diceva avesse conosciuto almeno quattro delle generazioni dei signori di Bassano. Molti pensavano fosse una strega e cercavano di impedire soprattutto ai bambini di andare ad ascoltarla, la maggior parte vi si recava di nascosto e qualcuno l’aveva persino denunciata all’inquisizione subito dopo l’emissione della bolla di papa Innocenzo IV Ad extirpanda sperando forse in una tortura e in una conseguente confessione per fortuna mai avvenute.

La mia curiosità di giovane era stata talmente stuzzicata dagli amici e compagni di studio che decisi, in una splendida mattina di dicembre di partire per andarla ad ascoltare.

Il sole era alto, l’aria fredda e secca eppure la nebbia non avrebbe tardato a posarsi sui campi imbiancati di neve. Il mio cavallo procedeva al passo e io pregustavo l’incontro, chiedendomi cosa avrei potuto dirle, quali domande avrei potuto farle.

Giunsi a Vicenza all’ora dei vespri.

Con una lettera avevo anticipato a un mio vecchio compagno la mia venuta. Aveva interrotto gli studi dopo l’improvvisa morte del padre, tornando a casa per occuparsi degli affari di famiglia; mi stava aspettando con un banchetto luculliano e un mare di ricordi.

Tutti i giorni, più o meno alla stessa ora, la vecchia raccontava una storia. Quando arrivammo da lei c’erano già parecchie persone che chiacchieravano davanti alla porta aspettando di entrare. Non appena una minuta figura vestita di nero si affacciò sulla soglia, fu silenzio e tutti, come in una specie d’insolita processione entrarono per andare a sedersi accanto al fuoco. Solitamente le portavano dei doni; il mio amico e io le avevamo portato un cesto di castagne. Come gli altri posai il cesto sul tavolo e mi diressi in un punto della stanza in penombra anche se non molto lontano dal fuoco.

La vecchia si sedette su una piccola sedia in mezzo ai bambini, salutò qualcuno e poi girò gli occhi verso di me. Pensai che mi avesse confuso con qualcun altro e feci finta di niente.

«Ti stavo aspettando» disse.

Non sapevo che cosa rispondere.

«Non sei tu, Pietro Gerardo?»

Il mio amico doveva averla avvisata del mio arrivo eppure, quando sentii pronunciare il mio nome, ebbi un brivido.

«Ti stavo aspettando. Sarai tu a raccogliere la mia testimonianza, sarai tu a raccontare le grida di dolore di queste terre e quando il tuo lavoro sarà finito io, finalmente, potrò riposare in pace. Vieni, siediti qui accanto a me e ascolta».

Ognuno dei presenti mi guardava con curiosità e timore, qualcuno mi fece spazio così mi sedetti dove mi aveva indicato la vecchia che cominciò a parlare.

Molto tempo fa, un uomo alla fine dei suoi giorni piangeva.

Sì, sul suo letto di morte egli piangeva.

Non era la paura dell’ormai prossimo incontro con Colui che tutti giudica, la sua coscienza non era turbata dalle azioni ch’egli aveva compiuto durante la sua lunghissima vita, no, era qualcos’altro a pungergli l’anima.

Il cuore gli pulsava così forte da parere dentro la testa e non nel petto, un orrendo presagio gli lacerava l’anima; la gola bruciava come stretta da un nodo scorsoio. Non riusciva a parlare né a muoversi e le palpebre erano bagnate da lacrime inarrestabili.

Quel vecchio rugoso e malato vedeva tutto ciò per cui aveva lottato e tutto ciò in cui aveva creduto, finire rovinosamente distrutto dalle mani di coloro che egli stesso aveva generato. Aprì gli occhi, vide sua moglie. Accennò un sorriso che sembrava una smorfia poi, finalmente, riuscì a parlare.

«Quando sono arrivato in questo paese dall’aria dolce e profumata. Ero con il mio signore, combattevo per lui e ne andavo molto fiero. Egli era giusto e forte come deve esserlo un imperatore. Sua madre, la principessa Teofano, gli aveva dato un’eccellente educazione bizantina ma il suo modo d’essere era stato largamente influenzato dal dottissimo Gerberto d’Aurillac… Acqua! Portatemi dell’acqua! Mi sento la gola bruciare!» disse con quella voce roca e calda che lo aveva sempre caratterizzato.

«Assumendo simbolicamente il nome di colui che aveva collaborato con l’imperatore Costantino, Gerberto divenne papa Silvestro II. Ma il mio signore, il grande Ottone III, aveva dei nemici che volevano distruggerlo; fu costretto a ritirarsi da Roma, vide infrangersi i suoi sogni di costituire un impero universale e si spense con loro. Io non volli tornare in Germania. Avevo avuto il titolo di conte e dei territori in Italia. Mi innamorai delle terre tra il Piave e il Brenta che mi erano state concesse.

Ho ancora molti amici a Padova ma il cuore mi si stringe al pensiero dei loro figli nemici dei miei; sento che le terre che amo saranno devastate, il mio nome bestemmiato, la carne della mia carne lacerata dai cani e la mia memoria ripudiata.

Ancora una volta Troia crollerà in ginocchio a causa di un’Elena bellissima! Vorrei non sapere, non sentire, non essere mai venuto in Italia né aver mai dimorato nel tuo ventre maledetto!» gridò a sua moglie.

Gli astrologi gli avevano preannunciato una progenie portatrice di disgrazie e un seme che avrebbe flagellato le sue terre. La sua mente offuscata dagli anni e dal dolore non conosceva più il presente, il passato era stato la sua vita e il futuro sarebbe stato così terribile che la morte gli pareva soltanto un sollievo.

Bevve.

E il fiele delle sue visioni si mescolò con l’acqua che gli avevano portato. Il cuore di Ezzelino il Tedesco cessò di battere ma nei suoi occhi, per qualche tempo ancora, qualcuno fu certo di veder scorrere le lacrime.

Suo figlio, Ezzelino il Balbo, così soprannominato per un difetto di pronuncia, gli strinse le mani prima di allontanarsi. Cominciò a dare le disposizioni per le esequie ma la sua attenzione fu quasi immediatamente richiamata dalle urla che venivano dalla stanza di sua moglie Auria.

A volte le coincidenze sembrano così incredibilmente irreali da crederle soltanto frutto dell’immaginazione degli uomini, ma quella notte di delirio e di dolore sembrò davvero segnare per sempre il corso degli eventi. Le allucinazioni del vecchio Ezzelino il Tedesco erano così devastanti da poter essere respirate attraverso l’aria scura e pesante del castello, così terribili da poter contaminare le menti.

Due anime parvero toccarsi quella notte. L’una affranta e angosciata usciva da un corpo ormai vecchio e consunto l’altra, quella di un bimbo, ne fu forse sfiorata e da questa segnata per sempre. Il cielo si chiudeva plumbeo sulla casa del vecchio morente e soltanto quando questi esalò il suo ultimo respiro un vagito, risuonò nelle stanze fredde e deserte del castello d’Onara.

Ezzelino il Balbo, forse in onore del padre morto proprio in quel giorno o forse spinto dalla mano del fato, volle che anche il suo unico figlio maschio fosse chiamato Ezzelino. La madre del bimbo, per qualche bizzarro motivo, aveva invano tentato di dissuaderlo da quel proposito, cercando di proporre per il figlio il nome del proprio padre, Riccardo da Baone, ma poco poté contro quella decisione una donna.

La vecchia smise di parlare colta da un forte attacco di tosse. Qualcuno dei presenti le portò un po’ d’acqua e la tosse si calmò. Passarono alcuni minuti prima che riprendesse il racconto ma nessuno osò fiatare né muoversi durante l’attesa.

Passarono gli anni, e il presagio nefasto di quella notte terribile sembrò solo un ricordo lontano fin quando un fatto da nulla in un giorno di gioia fece nuovamente trasalire l’anima di monna Auria.

Era il giorno delle nozze di Cunissa da Romano, figlia di Auria e di Ezzelino il Balbo il quale possedeva, oltre al feudo di Onara, anche quello di Romano più ricco e importante del primo e del quale lui e i suoi discendenti presero il nome.

Cunissa era una giovane graziosa e mite che fu donata in sposa al ricchissimo Tiso da Camposanpiero, un nobile molto conosciuto e rispettato sia nel padovano che nel veronese dove possedeva feudi importanti. Il Balbo aveva cercato di dare la figlia a un uomo non troppo vecchio benché ricchissimo e quando Cunissa lo vide per la prima volta, forse temendo di trovarsi di fronte un uomo dell’età di suo padre, sembrò soddisfatta di vedere un giovane dai modi gentili di poco più vecchio di lei. L’unione fu un’unione felice e da essa nacquero due figli: Gerardo e Tiso Novello da Camposanpiero.

Il giorno delle nozze, mentre attraversava il portale della cattedrale lasciando dietro di sé tutti i mostri creati dal maligno e plasmati come monito nella pietra, Cunissa si sentiva quasi felice, appoggiata al braccio del padre varcava quella soglia che avrebbe per sempre e indissolubilmente legato il suo ventre al destino cruento della sua famiglia.

Tutti i nobili di quelle terre erano al suo cospetto, invitati inconsapevoli della tragedia che li avrebbe devastati quand’ecco il presagio. Cunissa non aveva ancora percorso per intero la prima campata che la collana che si avvolgeva ai suoi capelli si ruppe lasciando cadere ogni perla. I suoi occhi si riempirono di lacrime, Auria si sentì mancare e con la mente tornò alla notte in cui nacque Ezzelino, riprovò i dolori del parto, ma fu un attimo, il figlio la sostenne e quando si riebbe Cunissa era già all’altare.

Anche il fratello di Cunissa, Ezzelino, dopo qualche anno decise di sposarsi e scelse come moglie Agnese, sorella del marchese Azzo d’Este che allora aveva feudi nel padovano. Ma Agnese era debole di costituzione e dopo appena un anno di matrimonio, mentre era in procinto di dare alla luce il suo primo figlio, morì portando con sé il bambino. Ezzelino si risposò ma la moglie che suo padre gli aveva scelto, una sorella di Deslemanino de Deslemanini di Padova, per quasi un mese aveva cercato di evitare il letto del marito adducendo le scuse più strane e quando Ezzelino, con la forza la costrinse a giacere con lui, si accorse che non era più vergine e la ripudiò.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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