Dell’Apocalisse

Dell’Apocalisse di Nat Ridente

C’è un caldo infernale in tutto il mondo. E uno strano manufatto infernale. Che sia arrivata l’Apocalisse?

In un anno non precisato degli anni 2000 in una metropoli svuotata per le ferie estive, un aspirante scrittore è rimasto in casa da solo.

All’improvviso, un caldo non comune neanche per la stagione estiva attanaglia l’intero pianeta. Sembra avvolgere ogni cosa e ogni sostanza. Tutto coincide con lo strano evento verificatosi in America, dove una gigantesca roccia simile a una cattedrale primitiva è emersa nel deserto del Colorado.

Nessuno sa quale genere di fenomeno geologico abbia provocato la sua comparsa, l’unica cosa chiara è che il suo aspetto rimanda all’effige abbozzata di una testa con due guglie enormi ai lati: per molti è il ritratto del diavolo. Si scatenano così le più varie e fantasiose teorie, da quelle religiose a quelle pseudo-scientifiche.

Che sia davvero arrivata l’Apocalisse?



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Dell’Apocalisse:

1

Non lo so se lo so fare!

Un bambino di 6 anni molto orgoglioso

La strada sale dal mare diritta, senza indicazioni di nessun genere. Ho con me solo una cartina presa da un vecchio libro. Camminando, le case lasciano sempre più spazio alla campagna e dopo un chilometro l’asfalto termina in una radura. Intanto la luce del giorno diventa opaca e qualche contadino attempato lavora ancora la terra. Così mi avvicino per chiedere informazioni sul vecchio teatro greco.

Mi indica un viottolo che passa per le sue terre. Era la vecchia via usata dagli antichi greci e mi raccomanda di fare attenzione ai cani randagi che gironzolano da quelle parti perché sono molto aggressivi. Ringrazio e mi avvio per il sentiero.

Dopo un paio di chilometri ho il fiatone. Fa caldo, l’erba si fa sempre più alta e le case sono sparite, tranne un vecchio casolare attraversato dal tragitto. Sembra abbandonato. Scorgo per terra delle ossa di bue rosicchiate e mi tornano in mente i cani randagi. Non faccio in tempo a preoccuparmene che un vecchio bastardino mi ringhia davanti. Quasi mi viene un infarto, ma poi mi accorgo che è legato e a momenti si strozza mentre cerca di saltarmi addosso. Tiro un sospiro di sollievo e mi preparo ad affrontare l’eventuale proprietario del rudere; magari è altrettanto aggressivo solo che non è legato. Invece non c’è anima viva.

L’abbandono non è momentaneo, l’erba davanti all’ingresso della vecchia costruzione indica che non solo nessuno ci abita, ma che neanche ci viene tanto spesso o ne fa uso di alcun genere. Sembra un relitto marino lasciato a marcire al sole.

«E il cane… che ci fa qui? Sembra una fiera dantesca in versione comica. Forse si ciberà dei passanti» penso ridendo, mentre guardo le ossa rosicchiate mille volte.

Faccio il giro largo per evitarlo e andare avanti ma riprova ad azzuffarsi e questa volta rischia di spezzarsi il collo.

Il cielo è rosa e da queste parti l’estate è soffocante anche all’imbrunire. Proseguo nella mia ricerca e dopo un po’ non sento più i latrati della povera bestiola. Non ci sono segnaletiche che indicano la vicinanza di un sito archeologico e comincio a pensare di essermi perso. Avevo sentito parlare dello stato di abbandono e di disinteresse da parte dell’autorità, ma immaginavo non fino a questo punto. Magari le storie di fantasmi potevano avere allontanato la gente superstiziosa del posto, ma non il Ministero dei Beni Culturali! Era la solita storia dei fondi, dove l’unico fantasma era la burocrazia.

 Intanto, senza rendermi conto, la stradina va finire ai piedi di una collina circondata da ulivi e querce e dopo una breve arrampicata mi trovo difronte ad uno spettacolo inatteso: la porta del tempo sembra essersi spalancata davanti a me!

Il piccolo teatro greco si sdraia sul colle, sfruttandone l’inclinazione naturale. O meglio, sembra sia la collina con le radici dei suoi alberi secolari ad aggrapparsi ad esso. Decido di scendere con cautela fino alla scena perché la gradinata non è agibile. Nonostante la cavea sia quasi completamente distrutta il colpo d’occhio è ancora impressionante. Ci sono ancora le giare sotterrate che servivano da amplificatori acustici. Mi siedo e cerco di immaginare come poteva essere: gli attori con le loro maschere, gli spalti gremiti di greci dalle lunghe tuniche. Chiudo gli occhi. L’aria del tramonto è piacevole sulla pelle. Sento uno sfrigolio strano. Una folata di vento, breve ma intensa, mi sfiora. Li riapro mentre un fascio di luce si sta già affievolendo al centro dell’antico palcoscenico. Tre figure con il viso di terracotta modellata in strane smorfie, si stanno materializzando e…

«E…?»

«E… veramente devo finire di scriverla, ci sto pensando su , ma non mi viene in mente nulla…»

«E lei si presenta con una storia che ha appena iniziato e non sa dove va a parare? Ma roba da matti!»

 Ecco cosa mi sentirei rispondere se mi presentassi ad un editore con una storiella di fantasmi come questa, per di più incompleta. Il fatto è che non sono mai stato tirato per la narrativa; preferisco la poesia per la sua immediatezza, la vita autonoma che ogni verso ha. Mi s’addice di più perché è uno sfogo personale dove c’è tutta la follia e la libertà necessarie. Il romanzo invece è uno scocciatore che vuole sempre sapere tutto di se stesso, un impegno continuo.

Le poesie muoiono dopo due pagine e non hanno il tempo di chiederti niente, sono dei flirt. Ti lasciano un piacevole ricordo, ti cambiano magari, ma puoi voltare subito pagina e cominciare con un’altra. Forse i racconti brevi, quelli sì, mi piacciono, perché hanno il volo incostante delle farfalle e vivono altrettanto poco. Ma non si vendono dicono, come non si vendono le poesie. Quindi devi scrivere un bel romanzo per forza!

 Quella della scrittura è un’arte unica, come lo è la musica per la sua immaterialità. Devi compiere un processo inverso partendo da qualcosa di inventato, anche se basato su esperienze vere e poi riportarlo alla realtà, renderlo vivo e non tralasciare nessun particolare apparentemente insignificante della realtà che hai creato. Devi essere architetto se c’è una città dove si svolge la storia, devi essere soldato se parli di una guerra, scienziato se qualcuno va nello spazio, medico se qualcuno si fa male, ubriaco se qualcuno beve, anatomista, veterinario, matematico, psicologo e tutto il resto. Altrimenti il tuo romanzo non vive veramente, non è reale. Lo scrittore di romanzi è un compendio di tutti i mestieri. Per questo preferisco ridurre le descrizioni al minimo, mi piacciono le città senza nomi e i personaggi anonimi. Perché non ne sono capace. E perché ho fretta. Ma anche perché mi piace l’idea che chi legge si costruisca i personaggi e l’ambiente da sé.

 Sono sicuro che si possa scrivere su tutto. La Realtà, quella vera, a volte può essere più inventata di un romanzo ed è già bella e pronta così com’è. Ma non basta. Serve l’ispirazione per trasformarla in letteratura. Servono le mani che vanno da sole sulla tastiera, anche se non sai dove.

 Ecco cosa mi mancava. Mi sarebbe bastato solo uno spunto, ne ero sicuro. Qualcosa da cui cominciare.

2

Come vitrei gli stanchi occhi

Quando, fissando a ponente

Vidi qualcosa contro il cielo […]

S. T. Coleridge, La ballata del Vecchio Marinaio

Ci svegliavamo insieme e dopo esserci stiracchiati ci alzavamo per andare verso i luoghi della colazione. Lei sgabuzzino e croccantini, io cucina. Lei non fumava però. A parte il fumo passivo. Io invece seguivo il volere della mia bocca impuzzolentita dalle sigarette notturne alla ricerca di qualcosa che potesse darle sollievo. Pensavo che avrei dovuto fumare meno di notte. Lo penso sempre la mattina, che dovrei fumare meno la notte. Ma solo la mattina.

Il frigo era completamente vuoto, a parte l’acqua. Certe volte ho il frigo così vuoto che sarebbe saggio spegnerlo prima di andare a dormire. E non c’è nessuna storia romantica di scrittore maledetto al limite della sopravvivenza. Semplicemente rimango a strimpellare la chitarra oltre la chiusura dei supermercati o mi limito a comprare quello che mi serve per la giornata, perché non mi va di caricarmi di buste.

Un pigro bastardo e basta, nessun Jack Kerouac dietro il mio frigo vuoto.

Misi su il caffè. L’unica cosa che non manca mai. Neanche le sigarette mancano mai e quando questo evento più raro di un maremoto in Svizzera si verifica, non c’è orario, temperatura o distanza che mi scoraggi ad uscire.

Il caffè sta alla sigaretta come il geometra sta al muratore. Come l’organizzatore di concerti sta al cantante.

Il caffè è lo spacciatore di tabacco per antonomasia. Chi prende il caffè e non fuma è un pazzo infedele al quale è stata negata la rivelazione!

Faceva caldo. Si prospettava una delle estati più torride dell’ultimo secolo. L’afa era insopportabile, ero già sudato come James Brown.

 Cercavo la mia ispirazione e avevo una gran voglia di scrivere; ma di idee neanche a parlarne. Così feci partire una lavatrice e rimasi a fissare l’oblò. Cercavo di concentrarmi.

Se non mi fosse venuto in mente qualcosa prima dell’inizio della centrifuga, mi sarei messo a fare i piatti. Prima andai in bagno; non riesco a fare colazione se non lavo i denti. Il peggior dispetto che possa subire è essere svegliato da qualcuno che mi porta la colazione in camera. Sarebbe una camera da letto con il caffè rovesciato sulle coperte e un vassoio spiaccicato sul muro. Dopo lo spazzolino passai al filo interdentale.

Ne avevo comprato uno nuovo della stessa marca, anche se pensavo che in un oggetto così comune non ci potessero essere differenze particolari tra un tipo o l’altro. Notai però come quello precedente fosse decisamente migliore per le mie povere gengive sanguinanti, mentre questo era buono per la pesca del marlin. Forse me n’era capitato uno difettoso.

Riflettei sulla qualità delle cose, non in senso filosofico, ma in senso proprio materiale. Pensai che strumenti così semplici come il filo interdentale o gli stuzzicadenti nascondessero una ricerca e un impiego di menti ingegnose che lavoravano per facilitarci anche questi piccoli inconvenienti quotidiani.

Sentivo di dover loro qualcosa. La tecnologia era arrivata davvero a tanto, altro che telefoni cellulari.

Quando la lavatrice arrivò alla centrifuga mi rassegnai al vuoto d’ispirazione. L’umidità doveva segnare livelli da record. Sembrava quel caldo da bosco incendiato che si dice preceda i terremoti.

Entrai in camera e puntai il telecomando verso la TV, aspettando di vedere apparire sullo schermo una tipica trasmissione pomeridiana. Quella dove le coppie litigano e l’amico gay prende le difese di lei. Mi sbagliavo.

«Dio mio, sarà scoppiata la guerra?» urlai nella mia testa. Ma i Paesi che contavano andavano d’accordo e quelli che non contavano nulla, a parte i morti, si ammazzavano tra loro già da tempo, senza suscitare tanto clamore.

Le immagini alle spalle della conduttrice fresca di trucco non facevano pensare alla terza guerra mondiale. La scrivo in minuscolo per scaramanzia. Si vedevano invece delle enormi nubi di polvere che avvolgevano una fantomatica struttura verticale simile ad una cattedrale di Gaudí in pieno deserto.

«Adesso ci colleghiamo di nuovo con la nostra inviata nel deserto del Colorado…» disse la conduttrice.

«Si… buongiorno, qui sono da poco passate le otto, poche ore fa all’alba, l’enorme struttura che vedete alle mie spalle è emersa con un boato assordante, lasciando una colonna di polvere che ancora non si è dissolta…»

Mentre ascoltavo feci una corsa in cucina per versarmi il resto del caffè e accendermi un’altra sigaretta; altro che ispirazione! Quello che stavo sentendo sembrava degno delle migliori storie di Lovecraft.

I toni dell’inviato erano apocalittici. I commenti e le impressioni che già avevano fatto il giro del mondo non erano da meno. Non mi feci influenzare. Era chiaro che dietro l’apparente distacco professionale c’era il tentativo di far notizia colpendo l’immaginario del telespettatore medio. La cosa di per sé era già abbastanza assurda, anche se non si capiva cosa diavolo potesse essere.

Rimasi a guardare in silenzio con la bocca spalancata l’immagine della strana roccia, senza neanche ascoltare più. Lo scenario era così surreale da far pensare che quella cosa fosse viva e stesse solo riprendendo fiato dopo la sua faticosa nascita, per annunciarci chissà cosa. Ti veniva da dire:

«Va bene, adesso state zitti e sentiamo cosa ha da dirci quell’essere!»

 Il giornalista sottolineò come l’ondata di caldo fosse coincisa con l’arrivo di quel mastodonte nel deserto del Colorado. Da Uppsala a Mexico City, da Bombay a Buenos Aires il caldo afoso, incurante degli emisferi, ci attanagliava tutti. E c’era la sensazione che qualcosa di inconoscibile si fosse mossa. Così diceva il telegiornale.

Guardai lentamente dalla finestra e l’unico segno di vita che vidi si manifestava nel palazzo di fronte ed era tutt’altro che incoraggiante. Gli Infedeli – mussulmani – pregavano in ginocchio, come di solito facevano, ma in maniera più compulsiva e frenetica. Il mondo stava già reagendo. Io no; avevo una lavatrice da stendere e l’ispirazione non si era fatta vedere!

«Ecco, adesso esce fuori che è arrivata la fine del mondo!» pensai.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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