Come inizio non c’è male

Come inizio non c’è male di Nicola Skert

Un giallo metaletterario sempre sopra le righe e con un’ironia che non fa sconti a nessuno!

Quanto contribuisce la finzione a creare la realtà? E quanto realtà e finzione sono interdipendenti?

Sono queste le domande che pone questo romanzo tutto giocato sopra le righe, denso di un’ironia pungente che dileggia senza misericordia le meschinità di certuni. I protagonisti raccontano senza pudore fino a che punto si possa arrivare pur di raggiungere l’agognata fama, il successo senza per questo meritarsi più di un nomignolo, a ben vedere, neanche troppo edificante: Discorotto, Sesto, Puntogì, Harotò e Pigiamino.

Al centro del mirino Discorotto, giornalista free lance dissestato e precario, la cui vita viene sconvolta dal ritrovamento per casa di oggetti femminili che non gli appartengono e di cui non riesce a capire la provenienza. Questi oggetti conducono lungo la narrazione a una serie di falsi piani narrativi che ricorda ai personaggi e al lettore quanto la vita sia un indissolubile intreccio di contrasti che passano dall’eccesso di ambizione a quello di umiltà, dalla realtà alla finzione.

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Come inizio non c’è male:

Prologo

Sera tarda, il cielo è una distesa d’asfalto disseminata di buche scure dove le stelle vengono inghiottite. Si mimetizza bene col marciapiede là sotto, percorso a passo sostenuto da un uomo racchiuso nel suo impermeabile, il bavero alzato e il cappello a tesa larga che nascondono un volto teso. In mano stringe una ventiquattr’ore che oscilla come un pendolo nel cui arco risuona il ticchettio di un conto alla rovescia.

Tic Tac Tic Tac Tic Tac.

Il silenzio totale amplifica lo scalpicciare dei tacchi da risuolare. Tac tac tac. Tac. Un ritmo sincopato da discoteca completamente denudato dalla sezione armonica.

Ma manca il Tic.

Arriva presto. La musica cambia, il deejay della notte mixa un altro pezzo. A quello dell’uomo in impermeabile si aggiunge un altro scalpiccìo, più frettoloso, più strascicato, come di chi trascina la gamba sull’asfalto. Ha fretta, molta fretta, vuole raggiungere l’uomo in impermeabile ed entrare nello stesso registro ritmico. Jeans lisi e felpa sgualcita, la testa infilata nel cappuccio abbassato fino al mento. Nella sua mano non oscilla una ventiquattr’ore, ma un coltello che emana un bagliore eccitato.

L’uomo in impermeabile non aumenta il passo, ostenta sicurezza, ma appena scarta l’angolo di un condominio abbandonato comincia a correre. Il suono dei suoi passi aumenta di intensità e frequenza, lo strascichio della gamba pure. E si avvicina. Ma è impossibile capirne la direzione.

Tic Tac Tic Tac Tic Tac, sempre più frenetico, si unisce al battito di due cuori che pompano sangue e paura al cervello a un ritmo crescente fino a… Tac! Il pendolo si arresta all’improvviso, la ventiquattr’ore smette di oscillare e rimane appesa a un invisibile filo temporale, pronto a spezzarsi al primo movimento.

L’uomo in impermeabile incrocia i bagliori di una lama di coltello riflessa da un lampione vicino, troppo vicino. Fende il buio cercando carne, inizia una lotta di strategia fatta di affondi e scarti. Nessuno dei due grida, tutti e due sono troppo impegnati a raggiungere i propri inconciliabili scopi. Il primo affondo, il coltello lacera la pelle dell’avambraccio e penetra in profondità. Questa volta l’uomo in impermeabile grida. E grida forte.

La ventiquattr’ore cade a terra con un suono secco e metallico.

Caccio un urlo della madonna e sobbalzo con un sussulto violento, vergognandomi nel contempo di me stesso. Abbasso il volume della televisione imprecando e mi maledico per la mia innata capacità di immedesimazione con qualunque cosa entri a contatto con la mia sfera emotiva.

Maledetto film thriller.

L’uomo con la felpa recupera dal marciapiede la ventiquattr’ore come io dal pavimento il ferro da stiro che mi era caduto dalla tavola, e il paragone non liscia affatto il pelo ispido del mio ego.

Afferro con rabbia un paio di jeans dalla cesta della biancheria e mi paralizzo all’improvviso, folgorato da una rivelazione che mi lascia completamente disorientato.

Altro che film thriller.

1

Tutto ciò è davvero imbarazzante.

Non è possibile che un evento così banale mi provochi un tale disorientamento interiore. Non è da me. Ho due spalle così, io. Per non parlare delle palle, anche se ultimamente me le hanno prese ripetutamente a calci.

È da un bel pezzo che osservo quel paio di jeans, estratti dal cesto della biancheria pulita e ora distesi sulla tavola da stiro in posizione disarticolata. Ho avvertito subito e con chiarezza una sensazione di disagio che tracimava la naturale avversione per questa pratica domestica. Ma non ci posso fare niente, vivo da solo e non guadagno a sufficienza per permettermi che qualcun altro lo faccia al posto mio. Come per le comuni operazioni di riordino o pulizia d’altronde, il che mi costringe a svolgere di malavoglia un’attività che eseguo esclusivamente per un vuoto senso del dovere. Gli indumenti sono solo diversamente spiegazzati, la sporcizia viene al più spostata da un punto all’altro della casa, se c’è un calzetto per terra ci sarà di sicuro una buona ragione per cui è lì e lì deve rimanere per il periodo sufficiente a scalare le impervie vette della mia indolenza.

Il fatto è che non riesco proprio a catalogarlo, quel maledetto paio di jeans. Mentre dalla televisione sento la ventiquattr’ore continuare il suo viaggio di mano a coltello, lo afferro, lo giro e rigiro tra le mani valutandone le dimensioni ma il risultato è sempre lo stesso: sembra troppo piccolo per la mia taglia e troppo grande per mio figlio dodicenne con il quale condivido il letto matrimoniale un paio di giorni alla settimana. Sì, vivo in un miniappartamento dotato di un salotto con angolo cucina e uno spazio notte, dove due letti singoli uniti assieme da un collante di lenzuola improvvisano un letto matrimoniale per una coppia separata dalla faglia delle losanghe. È che al momento, se non si è ancora capito bene, non posso permettermi molto altro, tutto qua.

Ad alimentare lo smarrimento interiore è un elaborato ricamo di perline applicato alla tasca posteriore destra, il che riconduce il paio di jeans a una donna di media statura dal fisico longilineo. Il pensiero va a mia sorella, purtroppo. Non perché l’abbia a male, non fraintendiamoci, il fatto è che si tratta del solo rappresentante femminile che negli ultimi sei mesi abbia mai varcato questa soglia e che ho ospitato a dormire sul mio letto matrimoniale per coppie separate, il che non rende certo onore alla mia mascolinità. D’altronde non c’è da stupirsi, dopo la separazione per alto tradimento la mia autostima è retrocessa dalla serie Alpha dei maschi a quella Omega degli eunuchi. Un tradimento inaspettato ti strappa le palle con unghie lunghe e affilate, te le ficca in bocca e ti abbandona sul selciato dell’orgoglio con un’espressione inorridita e incredula sul volto.

Non ho alcuna intenzione di lasciare la questione in sospeso, quindi afferro il cellulare che si stava squagliando accanto al ferro da stiro e chiamo mia sorella, sperando che come al solito non sia di guardia o in palestra. Sembra più un ufficiale medico che vive in una caserma dalla quale non esce mai, invece che in un ospedale da cui non esce mai comunque.

«Pronto» risponde con un sussurro confermando i miei timori.

«Palestra o guardia?» le chiedo a bruciapelo.

«In bagno, deficiente. Che succede?»

«Possibile che ogni volta che ti chiamo sei impegnata in qualcosa?»

«Voi maschi siete sempre abili a scegliere il momento giusto, eh?»

«Stai per caso salpando per l’isola della disperazione?»

«Spiritoso. No, non ho il ciclo.»

 «Poi sai che odio i termini mai e sempre, sono il preludio della fine di un rapporto di coppia. Tu sei sempre così, non fai mai quello e via dicendo.»

«Dimmi che vuoi e lasciami in pace, ti prego.»

«Hai lasciato per caso un paio di jeans a casa mia quando ti ho ospitato?»

«E tu mi chiami per questo?» replica dopo un breve silenzio.

«Beh… li ho trovati nella biancheria pulita e sinceramente mi hanno…»

«Ho una pausa di cinque minuti mentre sono di guardia da otto ore, dopo aver salvato almeno cinque vite umane» ecco che mi rifila la predica, penso tra me portando gli occhi al cielo maledicendomi per la chiamata. «E tu mi chiami per un paio di jeans?»

«Beh… per me è importante» mi difendo con la poca convinzione di chi non ha argomenti forti.

«Bene, visto che mettiamo sullo stesso piatto il mistero di un paio di jeans rispetto a quello di cinque vite umane» ma che cazzo c’entra, penso tra me, «ti risolvo subito la questione: no, non ho dimenticato nulla da te. Io non dimentico mai nulla perché ho sempre la testa sulle spalle, al contrario della tua che non sai mai esattamente dove stia rotolando. E cerca di dare una rispolverata alla tua scala di valori, a quanto pare non ci sali spesso. Ora ti saluto. Cristo, è il momento buono» la sento concludere stringendo le parole tra i denti.

Mi chiude il telefono in faccia, la tentazione di mettermi sull’attenti di fronte a un graduato che mi ha colto con una mostrina in disordine è davvero forte, tuttavia riesco a mantenere il controllo preservando la dignità interiore. Lancio il cellulare sul divano e riporto gli occhi sui pantaloni che stringo ancora nella mano libera. A ulteriore controprova decido di indossarli. Mi sfilo i miei di dosso e provo a infilarli ma sono troppo stretti, si arrestano all’improvviso incastrandomi le dita all’altezza delle cosce. Squilla il cellulare sul divano e rispondo al richiamo irresistibile della melodia rock con un balzo che voleva essere felino. Perdo l’equilibrio, sento il baricentro sgretolarsi sotto l’effetto di una gravitazione alla quale non posso resistere e mi inclino in avanti come un albero pronto a schiantarsi al suolo. Il tempo rallenta, la mente lavora disperatamente per rimandare il momento dell’impatto scavando buchi temporali che riempio di ricordi e momenti inutili. Faccio solo in tempo a voltare la testa di novanta gradi per proteggere il naso. Sento lo zigomo appiattirsi sul pavimento mentre uno sbuffo ottuso viene espulso dalla cassa toracica compressa. Prima che il dolore emerga in tutta la sua rabbia, nella mia mente compare la locandina del quotidiano locale nel quale scrivo come freelance a dieci euro al pezzo: collaboratore trovato a casa morto con addosso un paio di jeans da donna calati e segni di colluttazione sul viso. Un gioco erotico finito male o un tentativo di depistaggio? La magistratura indaga.

Il cellulare smette di squillare come se intuisse di averla combinata grossa e mi giro lentamente di lato riprendendo fiato. Il dolore al petto si mescola al pulsare dello zigomo al quale porto una mano. Avverto un gonfiore turgido che aumenta percettibilmente. A fatica mi porto sul divano tastandomi le costole e lo sterno. A quanto pare nulla di rotto, per fortuna, sarebbe stato terribilmente imbarazzante richiamare mia sorella in cerca di aiuto nel pieno delle sue attività peristaltiche. Porto lo sguardo ai jeans che hanno cercato di ammazzarmi, li sfilo con rabbia e li scaglio lontano colpendo l’abatjour che rovina a terra con gran fragore di porcellana infranta.

«Bene» sfilo tra i denti serrati dal dolore «Molto bene, bella mattinata di merda!»

Porto lo sguardo al display del cellulare che muto accanto a me fa finta di non esserci. Lo afferro con decisione e indago su chi ha complottato per la mia ridicola dipartita. «PuntoGì, telefonata persa» leggo sullo schermo. Cazzo vuole a quest’ora, mi chiedo, ma decido di richiamarlo, potrebbe essere una questione di lavoro. È lui che dalla redazione mi sbologna i servizi coi quali arrotondo la mia attività di traduttore. Digito il tasto di richiamo e attendo col fiato corto.

«Prontooooo?» risponde con un tono piagnucoloso e distaccato. Avverto il tamburellare di una tastiera in sottofondo.

«Piange il telefono…» canticchio con un filo di voce, nonostante tutto, ma è più forte di me.

«Domenico Modugno. Discorotto, potresti almeno rinnovare il repertorio? Non lo sai che hanno prodotto ancora musica dopo gli anni settanta?»

«Smettila di chiamarmi Discorotto.»

«Non è colpa mia se ci sono parole che ti scatenano il jukebox interiore. Sembra che nella tua testa siano esplosi un milione di vinili che si sono poi ricomposti casualmente in un unico disco a trentatremila giri. Ora vaga nella tua mente come un disco volante alla ricerca di una puntina cui connettersi. Il problema è che la trova sempre, quella cazzo di puntina.»

«Spiritoso.»

«Comunque sei pure stonato e ora hai una voce che fa schifo. Tutto bene?»

«No, un paio di jeans di una donna fantasma hanno appena provato a uccidermi.»

«Mi spiegherai stasera da Sesto, ora non ho tempo, devo chiudere un pezzo e a proposito, ti chiamavo per ricordarti di andare all’incontro sui rischi alcol correlati. Te ne eri dimenticato, vero?»

«No» mento schiaffeggiandomi la fronte con la mano libera dandomi del coglione.

«Certo, come no, ti credo» ironizza «Te lo ricordo solo perché fra un paio di ore avrei un buco libero, e non in senso figurato. Ho bisogno del tuo appartamento per colmarlo.»

«Però, sempre più sottili ed eleganti le tue battute, eh?»

«Le tue invece sono proprio brillanti.»

«E poi ti lamenti se ti chiamo PuntoGì: hai un terzo testicolo al posto del cervello.»

«Fra due ore sono da te. Non farti trovare.»

Chiude la comunicazione così, come al suo solito, da vero duro che non concede replica, il che mi fa sempre sorridere. Adoro il suo atteggiamento cinematografico da consumato giornalista d’inchiesta della Chicago anni trenta. Osservo i jeans in posizione disarticolata tra i cocci di porcellana.

«Noi ce la vediamo dopo» li minaccio deciso puntando l’indice.

A fatica raccatto i pantaloni neri che mi ero sfilato e la T-shirt bianca con cui ho dormito, pronto per uscire a fare il pezzo. D’altronde, un giornalista freelance per un quotidiano locale ha solo due divise: quella da reporter di guerra, per dirigersi nel luogo dove una vecchina in bicicletta è stata investita da un Apecar guidato da un avvinazzato di paese, oppure quella da reporter parlamentare per andare alla giunta comunale che discute per la realizzazione di una micro rotatoria nell’unico incrocio al centro del paese.

Mi dirigo in bagno e controllo lo stato dell’ecchimosi sul volto. Sembra proprio che abbia preso un bel cazzotto, solo che sono stato steso da un comune paio di jeans da donna che devo ancora appurare a chi appartengano. Vestito da reporter di guerra e con un volto tumefatto che mi rende più credibile, afferro portafoglio e pacchetto di cicche ed esco di casa con l’aria di chi si trova nel centro di Hanoi durante la guerra in Vietnam, giusto in tempo per assistere all’offensiva del Teth.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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