Anacronia

Anacronia – Sceneggiatura di un incendio di Antonio Lauriola

Fantascienza e teatro classico per salvare l’umanità.

Anno 2110. L’umanità, sopravvissuta a guerre, pandemie e catastrofi naturali del ventunesimo secolo, è divisa.

Gli Immuni vivono in Megapoli tecnologicamente avanzate, e la vita è regolata dalle Leggi Sovranazionali dell’Ecologia e della Salute Pubblica. I Depressi vivono nei Ricoveri, città ghetto in cui il tempo si è fermato ai primi anni del millennio.

Ma un incubo incombe sulla vita dorata della megapoli gioiello sulla costa del Continente, Fenice3. I ricoveri sono in rivolta e la guerra sembra imminente.

Il Direttorio di Fenice3 decide di inviare al Ricovero 17 una task force di esperti di diversi ambiti, per arginare diplomaticamente la protesta. Tra loro, c’è Stilo Descartes, regista teatrale emergente, figlio del potente Direttore della Comunicazione.

A un passo dalla consacrazione artistica definitiva, Stilo viene precettato per dirigere la Stagione Culturale del Ricovero. Riluttante, parte con l’unico obiettivo di concludere il lavoro e tornare a casa al più presto.

Stilo viene catapultato in una realtà parallela, cruda, a tratti violenta. Eppure, incredibilmente viva. Forma una squadra di artisti fuori dagli schemi e decide di portare in scena un Romeo e Giulietta provocatorio, multietnico. Un affronto per il Ricovero dove vige l’apartheid e non sono ammesse unioni tra diverse etnie.

La scelta di una protagonista, mulatta, muta e sulla sedia a rotelle, alimenta lo scandalo. Lo spettacolo diventa il simbolo della lotta per l’integrazione di un’intera generazione.

Si verificano inquietanti episodi intimidatori. E una scia di sangue funesta le prove dello spettacolo. Chi vuole la guerra?



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Anacronia:

ANTEFATTO

Astra fissò la donna nel suo unico occhio blu. E sostenne lo sguardo di quel freddo bulbo oculare, che non batté ciglio per una quantità indefinibile di secondi. Obbligò i polmoni ad un respiro regolare. Perché Oxy, la donna dall’occhio solo, non era un soggetto col quale giocare d’azzardo.

Il buio attorno a loro sembrò farsi ancora più compatto.

«Gli accordi erano diversi» sillabarono le labbra carnose sotto l’occhio blu.

«La domanda di mercato cresce di ora in ora» rispose Astra, cercando di imprimere alla sua voce quell’asprezza che normalmente non aveva.

«Mi stai chiedendo il doppio.»

«Le banche hanno elevato i protocolli di sicurezza. E per noi è sempre più rischioso recuperare la merce.»

Oxy sentì il formicolio sotto la benda dell’occhio cieco, che la invitava a riflettere e a non prendere decisioni affrettate. Sapeva che Astra era la migliore in quel genere di faccende. Aveva già concluso affari con lei, in passato, e non se ne era mai dovuta pentire.

Ma quella richiesta era troppo esosa.

«Posso darti il venti percento in più – disse calma – È la mia ultima offerta.»

Una folata di aria calda spazzò quella sperduta porzione di Landa e alzò una nuvola di polvere che provocò qualche colpo di tosse, tra gli uomini di Astra. Questa si voltò e intimò loro di tacere, con un secco gesto della mano.

«D’accordo – disse, dopo qualche secondo, serrando i denti – Ma per il prossimo lavoro, le cifre saliranno. Non mi accontenterò.»

«Voglio vedere la merce» si limitò a dire Oxy.

Astra schioccò le dita. Un giovane di colore, anch’egli vestito di nero come i compagni, azionò un comando a distanza che spalancò la sliding door di una carrozza magnetica blindata.

Oxy si avvicinò al veicolo e con il suo unico occhio blu ne ispezionò il contenuto. Contò rapidamente le casse traboccanti di sacchi, sapendo di potersi fidare. Incurvò le labbra in un accenno di sorriso, soddisfatta dell’affare. Fece un cenno ad un’ombra nascosta dietro l’unica siepe del parco abbandonato, altrimenti spoglio, e si voltò verso la sua controparte.

«Sei appena stata pagata, Astra» le disse.

L’altra mosse impercettibilmente il capo.

Rapide e silenziose, una decina di figure scure come la notte che le avvolgeva si diede da fare per trasferire il bottino dal veicolo ad un altro appostato nelle vicinanze.

Durante i dieci minuti che quell’operazione richiese, le due donne si fronteggiarono in silenzio.

Al termine di quella attesa, Astra e i suoi uomini montarono sul loro mezzo e sparirono silenziosi verso un orizzonte indistinguibile.

Oxy lanciò un ultimo sguardo al suo carico di plasma umano, poi diede ordine al conducente di partire.

PRIMA PARTE

FASE DI IGNIZIONE

1

Fumo. Colonne di fumo.

Neri e densi pilastri di fumo sorreggevano un cielo prossimo a diventare bruno.

Era l’inizio dell’ennesima notte di disordini al Campo di Ricovero 17, il più vicino a Fenice3, megapoli gioiello sulla costa est del continente.

I vettori dell’Unità operativa Iper-Veloce viaggiavano sui binari magnetici in direzione delle fiamme, carichi di truppe di contenimento, equipaggiate con strumenti di dissuasione acustici, a microonde o ad acqua.

Dall’alto, i convogli avevano l’aspetto di comete luminose che serpeggiavano tra costellazioni di luci urbane, in un piccolo firmamento terreno, prima di scomparire oltre la linea dell’oscurità che nascondeva i confini.

Nel cielo, gli Alter Ego saettavano nell’aria scambiandosi messaggi e abbracci impalpabili. Identità volatili e virtuali, volteggiando tentavano di esorcizzare la paura, in un carosello immateriale di effigi colorate e iridescenti. L’Alter Ego, presumibilmente quello di un adolescente, nelle vesti di un preistorico T-Rex, a cinque metri d’altezza baciava un pompiere in abiti succinti.

In un altro momento, meno caotico, quella coppia di AE avrebbe causato non pochi problemi ai loro incauti generatori, poiché da tempo l’adozione e l’utilizzo degli Alter Ego Virtuali erano regolati e disciplinati da severe leggi in materia di Comunicazione.

Ebbre di quelle luci e di quei suoni, persone in carne ed ossa erano affacciate alle finestre.

Nessuno sapeva di preciso cosa stesse accadendo al Ricovero 17.

Ogni tanto, qualcuno incrociava lo sguardo di un vicino e annuiva all’altro senza dire una parola. Come se il semplice movimento del capo potesse servire a lenire il senso di incertezza.

Da una settimana, il Campo di Ricovero 17 bruciava.

Stilo osservava le colonne di fumo dalla sua unità abitativa, al quarto piano della bio-residenza in cui viveva, alla periferia ovest di Fenice3.

La Tesi, onnisciente e onnipresente organo di informazione, nei suoi primi etero-messaggi aveva attribuito l’origine dei roghi a non meglio precisati incidenti, al confine tra il Ricovero e la Landa di Transito.

Pazzesco, tornò a riflettere Stilo, scuotendo la testa. Il Neo Mondo aveva battezzato i territori che separavano i Campi di Ricovero dalle Megapoli, Landa di Transito, mutuando il nome da un vecchio capolavoro letterario del Paleo Mondo, ora messo al bando.

Il fatto che le fiamme, una volta domate, fossero rinate sera dopo sera aveva indotto anche i più mentalmente mansueti a domandarsi se davvero si trattasse di episodi accidentali.

Ma nessun comunicato del Direttorio aveva fatto luce su ciò che stava succedendo.

Fenice3 distava poche decine di chilometri dall’epicentro degli incendi.

Fenomeno locale o qualcosa di più esteso?

Stilo, quasi a voler placare l’ansia nello stesso modo in cui si domano le fiamme, prese un’abbondante porzione d’acqua e le diede un morso. Istantaneamente la sensazione di freschezza gli esplose nella bocca procurandogli immediato piacere.

Durò poco.

Gli impulsi di una olo-chiamata lo distolsero da quell’effimero stato di grazia e lo ricondussero alla realtà. Il microchip presente nel polso attivò il suo dicta personale. Il Dispositivo Immersivo di Comunicazione Tridimensionale Avanzata riprodusse lo screen virtuale sulla pelle del suo avambraccio. E questo a sua volta materializzò la miniatura dell’immagine olografica della persona in attesa di risposta.

Il mittente della chiamata prometteva rogne.

Stilo fu tentato di non accogliere la richiesta di contatto, così come aveva fatto nei giorni precedenti. Poi pensò che non se ne sarebbe liberato facilmente. Così dette, rassegnato, l’impulso vocale «Accetta chiamata» e si gettò sul suo divano in piñatex rosso biodegradabile.

«Salve, direttore» accolse senza entusiasmo l’immagine tridimensionale del suo ospite.

La figura alta e magra del padre si stagliò luminosa, lasciando intravedere alle spalle la sua villa a tre piani, immersa nel parco a sud della megapoli.

«Dove sei stato? È una settimana che ti cerco. Ti ho inviato dozzine di segnali.»

«Ho parecchio da fare in questo periodo, pater. Tu e i tuoi amici potete verificare in ogni momento.»

«Sai benissimo che la privacy viene accantonata solo per gravi motivi di sicurezza o di salute pubblica. Non avevo motivo di farti rintracciare.»

«Perché mi cerchi da una settimana?»

«Sai cosa sta succedendo al Ricovero 17?»

«No. Come non lo sa nessuno di noi poveri mortali.»

«Ho bisogno di parlarti. Di persona.»

«Di persona?» Stilo inarcò entrambe le sopracciglia, corrugando la fronte resa alta da un lontano accenno di stempiatura.

«Hai da fare domattina?»

«Lavoro. Ho le prove per lo spettacolo del TOI Festival di Libertario.»

«Puoi liberarti e dedicarmi la mattinata?» chiese il padre, sforzandosi di imprimere alla frase il tono di una domanda vagamente cortese.

«Se devo» si rassegnò il figlio.

«Devi.»

«D’accordo» sbuffò.

«Ci vediamo al Centro Direzionale.»

«Dev’essere davvero urgente, se non ti preoccupi di mostrarmi in pubblico.»

«A domani.»

La chiamata si interruppe senza saluti, come di consueto.

Stilo rimase seduto, immobile.

Cosa c’era di tanto importante, e segreto, da non poter essere discusso nel Q Space?

Da quando, anni prima, Stilo aveva rifiutato di lavorare per il Direttorio, non era mai stato invitato da suo padre al Centro Direzionale.

Stilo supponeva che il padre provasse imbarazzo per quello che il figlio faceva per vivere, anche se non lo aveva mai detto apertamente.

Molti rampolli del Neo Mondo erano, o erano stati, allievi di Stilo. Per le famiglie di un certo livello, far studiare ai propri figli Retorica e Stilistica applicate ai nuovi protocolli di recitazione era motivo di vanto. Ma per un importante membro del Direttorio di Fenice3, avere un figlio dedito all’arte non costituiva fonte di orgoglio.

Stilo era un regista teatrale. E come tale, era giudicato non produttivo.

Il teatro, se così ancora lo si poteva chiamare, non era più quello del vecchio mondo, che aveva imparato ad amare, grazie ai racconti del suo vecchio insegnante, scomparso nel nulla dall’oggi al domani quando Stilo era ancora adolescente.

Provò a distrarsi, accedendo alla sua Area Iconica Personale, nel Quantum Space. Tra le opzioni in cartello, scelse la galassia connettiva dei PC Sports. Quella sera era in programma una sfida di Performance Capture Football, tra due compagini continentali, nell’ambito dei Video Ludi di Primavera.

Le due squadre promettevano battaglia. Linda7 e Freedom10 avrebbero potuto ambire entrambe alla conquista del titolo. Dopo quella sera, solo una delle due avrebbe avuto accesso alla fase successiva.

Peccato, pensò Stilo, sgranocchiando una rondella di cactus e zizzania.

Altri impulsi, altra olo-chiamata.

«Ciao, Cal.»

«Che fai?» il fratello chiamava dal laboratorio della sua unità lavorativa.

«Stavo per guardarmi il PC Football.»

«Io finirò tardi.»

«Sai qualcosa dei fuochi d’artificio che si vedono dalla mia finestra?»

«Sì, ma non ne posso parlare.»

«Immaginavo. Mi ha chiamato pater.»

«Hai accettato?» chiese il fratello con una virgola di precipitazione nel tono.

«Mi ha detto che non poteva parlarne nel Q Space.»

«Credevo ti avesse accennato qualcosa. Ad ogni modo, ascoltalo.»

«E…?»

«Accetta. È un’occasione.»

«Vedremo.»

«Domani cerca di non litigare con pater. È sotto pressione.»

«Ci proverò. Tu che fai?»

«Su e giù, tra Fenice3 e Fenice8. Come sempre.»

«Sillin come sta?»

«Bene. Ieri ha inaugurato un nuovo Beauty Open Floor, al Foro. Ti aveva invitato nella sua virt-room per la presentazione.»

«Avevo le prove sulla mia room-stage, per lo spettacolo di venerdì prossimo.»

«Per favore, chiama i giorni della settimana con i nomi corretti.»

«Ok, avevo le prove per lo spettacolo del prossimo vaxiday. Così va meglio?»

«Ci sentiamo domani» disse paziente Cal.

«Buona serata.»

E anche la figura non troppo alta, ma ben definita, del fratello svanì. Addio PC Football.

Uscì dall’Area Iconica.

«È un’occasione», gli aveva appena detto Cal. Stilo non ne era convinto.

Sapeva che il fratello, ingegnere nutrigenomico, agli antipodi rispetto a lui per forma mentis e atteggiamento nei confronti della vita, non lo avrebbe mai chiamato se non fosse stato convinto della bontà della proposta.

Il problema consisteva nel fatto che la bontà della proposta era valutata su unità di misura e di pensiero che a Stilo non calzavano.

Sicuramente Cal era in buona fede. Non lo era probabilmente il padre.

Si alzò e si diresse nuovamente alla finestra.

Le colonne di fumo rimanevano alte. L’Iper-Veloce viaggiava ancora sulle rotaie magnetiche, saettando silenziosa verso il Ricovero 17. Gli AE erano scomparsi, lasciandosi dietro il vuoto della volta celeste ormai buia. Anche il pubblico alle finestre era diminuito.

Il pubblico.

La mente di Stilo svoltò in un’altra digressione e volò verso gli attori del passato.

Chissà che sensazione doveva essere quella di trovarsi su un palco vero, di fronte ad una platea di persone stipate e sedute l’una accanto all’altra, con gli occhi rivolti verso la scena.

Attori in carne ed ossa che si muovevano e si toccavano, duellavano, amavano e odiavano.

Il suo vecchio insegnante, Lito, l’aveva vissuto quel teatro. Gli aveva raccontato dell’intensità, dell’adrenalina. Della paura prima di varcare la soglia delle quinte.

«Si sudava, Stilo, non hai idea di quanto si sudasse sotto i riflettori. Sentivi il cuore che picchiava pugni in gola, quasi volesse sfondarla e uscire. Poi varcavi quella soglia, le luci ti accecavano, guardavi il pubblico negli occhi e iniziava la magia.

Ho insegnato a bambini piccoli, che a malapena sapevano leggere, a salire sul palco, a guardare in faccia il pubblico. A sfidarlo, a domarlo, a condurlo.

Il teatro era energia allo stato puro. Era imperfezione che diveniva arte.

Quello di adesso è pura rappresentazione. È perfezione tecnica. Non è più magia.»

Il teatro ologrammatico era l’evoluzione del teatro olografico, affacciatosi sulla scena mondiale negli ultimi anni del pre-pandemia, prima che i Tre Lustri Neri dell’Umanità sconvolgessero il mondo. Al pari di altre manifestazioni ludico-sportive e di intrattenimento, era stato concepito per evitare affollamenti e calche, e scongiurare il rischio di contaminazioni.

Il pubblico accedeva direttamente dalle proprie abitazioni, attraverso sale connettive dotate di pareti ricettive, e si ritrovava proiettato in una platea virtuale architettonicamente perfetta, ricca e curata nei minimi dettagli. Ma finta.

Gli attori si esibivano a distanza. Un sistema avanzato ne catturava movimenti ed espressioni grazie a costumi scenici in fibra ottica. Gli spettacoli in HTM, Hologrammatic Technology Motion, erano tecnicamente perfetti, etero guidati, ma privi del pathos necessario a rendere quell’esperienza unica e indimenticabile.

Il teatro era sopravvissuto in quella forma ibrida, ma aveva immolato la sua essenza sull’altare della Medicina Assicurativa.

Il Neo Mondo, quello degli Immuni, non ammetteva falle nel suo sistema di prevenzione.

La Medicina Assicurativa era nata con lo scopo di fornire, a ciascun abitante della nuova era, un’adeguata copertura, sulla base delle aspettative di vita.

Il connubio tra Scienze mediche e assicurazioni aveva portato ad un livello di efficienza, nella prevenzione dei rischi, mai riscontrato nella storia dell’Umanità.

Stilo, che nel suo ambito godeva di un discreto successo, aveva appreso le tecniche del vecchio teatro dal suo mentore, Lito Vetus, e provava ad applicarle al nuovo modo di fare spettacolo. Per tale motivo, i suoi lavori piacevano al pubblico più giovane e smaliziato.

Ma ogni sua sperimentazione veniva vista, dall’establishment accademico, come il tentativo di sovvertire le regole della nuova architettura artistica. E pertanto, spesso, veniva etichettato come ostentatamente e inutilmente eccentrico.

Per quanto la sua indole anelasse a cavalcare il dissenso e a sfidare la rigidità di un sistema che impediva forme di sperimentazione più coraggiose, per contro, l’ansia e il desiderio di essere apprezzato gli pesavano addosso come una zavorra e lo avevano costretto, nel recente passato, a clamorosi e dolorosi passi indietro.

2

Le note di una vecchissima canzone irruppero nel sogno di Stilo, nell’attimo esatto in cui il sogno si infilava in un vicolo senza uscita. Con un retrogusto di panico per l’incubo appena scampato, Stilo interruppe la musica col comando vocale. E, a fatica, si tirò fuori dall’ipno-scheletro, convinto di non aver riposato bene. Non si era ancora abituato a dormire in posizione semi verticale, benché ormai quella fosse la direttiva del Comitato Medico Assicurativo.

Schioccò le dita e sull’avambraccio si attivò lo screen di dialogo col domo processore.

«Caffè!» ordinò a voce alta.

Poi si infilò nella cabina igienizzante.

Un getto di vapore tiepido lo avvolse, sparato dai più di mille forellini che costellavano la parete circolare dell’igienizzatore. La bella sensazione rigenerante del vapore sulla pelle lasciò il posto a quella altrettanto piacevole del gel che lo inondava da capo a piedi. Una colata di lava al profumo di acqua marina gli scivolò lungo tutto il corpo e gli concesse, almeno per quei pochi istanti, l’illusione che la giornata potesse volgere al meglio. La frizione di risciacquo lo riportò bruscamente alla realtà e al fatto che dovesse affrettarsi per recarsi all’incontro col padre.

Terminati i suoi quattro minuti di igienizzazione, Stilo andò a prelevare il caffè dal suo erogatore in carbonio. Chiamarlo caffè era una generosa concessione nostalgica alla fantasia, gli avevano detto. La bevanda corroborante, come veniva definita nei documenti e negli scripta di Salute Pubblica, conservava solo il nome di quello che una volta doveva essere stato il caffè.

Suo padre diceva di averlo bevuto quando ancora era concesso. Assicurava che non fosse granché, e che la caffeina, bandita da ormai più di quarant’anni, era del tutto incompatibile con una vita sana e produttiva.

Il suo insegnante Lito, invece, parlava del caffè con nostalgia, decantandone il potere ipnotico e l’aroma penetrante.

Singolare, pensò Stilo.  Il suo vecchio insegnante definiva il caffè ipnotico, quando sui documenti di scienze alimentari di tutto il Neo Mondo era scritto a chiare lettere che la caffeina portasse ad un’alterazione innaturale del ritmo sonno-veglia e che la popolazione del Paleo Mondo bevesse caffè per rimanere sveglia.

La colazione, quella mattina, prevedeva anche un’abbondante porzione di polveri a base di proteine vegetali, che Stilo assunse di buon grado.

Suo fratello Cal, che studiava le influenze della nutrizione sull’attività dei geni umani, sarebbe stato fiero di lui.

Posizionatosi di fronte al body scanner per l’auto-diagnosi giornaliera, fece partire lo screening delle funzionalità psico-fisiche, in base al quale il domo processore concedeva o meno la licenza di lasciare l’unità abitativa. Dopo qualche secondo, trascorso di fronte alla parete di analisi, Stilo ottenne la sentenza di ottimo stato di salute. Nonostante i suoi quarantacinque genetliaci.

Qualche istante ed emerse, seccante, il dubbio su come vestirsi.

Abiti formali, per compiacere il padre ed evitare di offrire nuovi spunti di discussione?

O abiti più consoni al suo modo di vivere, ma passibili di riprovazione da parte dell’entourage di ben pensanti che circondava il genitore altolocato?

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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