Amore ai tempi del com’era

Amore ai tempi del com’era di Emiliano Gambelli

Un giallo ambientato nel teatro dell’assurdo.

Si può morire per amore?

A Ceraunavolta, luogo e non solo tempo, la risposta sembra essere sì. Alla Saluteria del paese i destini degli abitanti s’incrociano per poi svilupparsi in trame vive e narranti, tra pensieri e flussi di coscienza.

Brancolo indaga sulle morti apparenti, Rullino sogna di combattere il sistema e la popolazione attende solo il prossimo funerale. Nel frattempo, il principe Toffolo è alla ricerca del suo azzurro perduto e tutti sembrano aver smarrito il proprio istinto primordiale.

Amore ai tempi del com’era è una favola per adulti in cui potersi perdere tra le parole scritte ma soprattutto tra quelle da scrivere.

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Amore ai tempi del com’era:

Postfazione

D’altronde scrivere una prefazione è cosa ovvia, una post invece è di certo compito più arduo. Una prefazione spiega, illustra, incuriosisce e invoglia il lettore. Una postfazione invece mette in guardia, già. Perché sembra incredibile ma sì, io l’ho già letto e non lo so se fa per voi.

Come dite? Ormai lo avete pagato quindi la postfazione andrebbe inserita in quarta di copertina e non dentro, per una questione di onestà? Che bella la parola onestà vero? Prendiamo l’amore per esempio: amore onesto. Sincero, vero, limpido. Quanti di voi possono dire di averlo provato ma soprattutto donato? Ogni giorno, pedissequamente, con metodo. Quanti? Alzino la mano tutti gli onesti. Non vi vedo. Come dite? Siete sdraiati nel letto con la mano alzata? Ma una mano alzata, da sdraiati è veramente alzata?

Se è tesa al cielo, in posizione eretta, sarebbe perpendicolare al vostro corpo, dunque tesa difronte a voi. Se invece la state tenendo parallela al letto, poggiata dunque al vostro orecchio nella vostra attuale posizione supina beh, mi duole dirvelo ma non sarà alzata finché non lo sarete anche voi. In entrambi i casi siete stati onesti ma solo ad una prima lettura della situazione e soprattutto secondo il punto di vista vostro e mio. Così è l’amore.

Un punto di vista che cambia prospettiva a seconda della posizione che occupiamo, dello spazio, del tempo e della percezione. Ovviamente non solo nostra ma anche di chi lo riceve e a sua volta, forse, lo dona. Come dite? Cosa c’entra tutto questo con l’onestà? Ottima domanda. Ebbene anche lei, come l’amore, è il tentativo personale di mettere in paro i nostri voleri con le nostre intenzioni, convincendoci del giusto e dell’azione tesa a fare bene. In soldoni (valuta che vale più di tutte) l’amore onesto è quello che raccontiamo e ci raccontiamo. Spesso è ciò che ci raccontano ma non è mai quello che è.

Nota dell’autore:

Alla fine di Amore ai tempi del com’era, troverete una pagina bianca. Usatela, create parole nuove, il mondo ne ha bisogno. Il mondo ha urgente bisogno di un nuovo Vocamorario che ridefinisca i concetti sull’Amore. Il piccolo racconto in appendice è dedicato alla dedica del primo libro di questo mio nuovo viaggio, ovvero Racconti assurdi ma non troppo.

Genesi

Ventordici anni fa un piccolo paese di nome Ceraunavolta fu sconvolto da una serie di morti apparenti e da una sequela di apparentemente morti, a cui però nessuno fece caso.

Almeno inizialmente, visto che la faccenda diventò presto un vero e proprio caso. Io c’ero e sono certo che andò tutto più o meno così.

1

«È ancora freddo.»

«Ci credo. È morto.»

«Ah, ecco.»

Si pensò subito a un omicidio per vendetta, visto che la vittima era stata servita fredda. Il detective Brancolo osservò il corpo inerme e dopo un’attenta ispezione escluse fosse morto per noia, otite perforante, rottura del suo-cardio, ittero, congiuntivite astrale e prurito vaginale. Quest’ultima causa fu eliminata per esclusione anatomica. Infatti, la vittima si chiamava Semo Lino: maschio, di razza caucasica, avanti con l’età ma non troppo, alto poco più di un basso, calvo ma con la frangetta e le spalle caduche.

Accanto al povero Semo Lino c’era una busta che conteneva un foglio. Sul foglio c’era scritto fragile. Brancolo allora indossò dei guanti di zucchero filato per toccare con dolcezza, e scorse il dito velocemente su e giù per lo scritto. Era un testamento in cui erano espresse le ultime volontà della vittima che così recitava. No, era morto veramente, non era una messa in scena. Il testamento recitava, tra l’altro benissimo pur non muovendo le labbra. Ad ogni modo, Brancolo lo lesse ad alta voce: «Per prima cosa vorrei non morire, se possibile. Mi rendo conto però che l’immortalità è stata barattata secoli orsono secoli e ormai sono secoli orsono, secoli orsono che questi secoli orsono, dunque, i secoli sono orsecoli anche ora! Orseccoli dunque gli orsi, o i secoli, non lo capisco comunque eccoli, ora devo scappare altrimenti mi prenderanno a forza di dire orsecoli e stare qui impalato.

Dicevamo dell’immortalità, barattata con l’immoralità, con le fiabe senza morale dove i bambini imparano ad aggirare le difficoltà e dove i grandi si trasformano in ostacoli. Lascio a mio figlio Ditalino una finestra e una minestra. Può sembrare poco ma è pur sempre una scelta e non è mai poco. A mia moglie Scotta tutta la mia collezione di mezze maniche mai indossate, pipe mai fumate, linguine mai parlate, scogli mai veduti, rigatoni a quadretti e quadrucci tristi perché mai immersi nel brodo di giuggiole. Lascio al mio secondogenito, nonché secondo gemito, tutto quello che non ho mai provato: scarpe larghe, maglioni di Seta, ovvero la nostra vicina sarta ma con un dubbio gusto estetico, elmetti da lavoro per disoccupati, occhiali da svista e soprattutto lascio le aritmie cardiache. Ora sono arittue figlio mio. Lascio inoltre detto che se mai dovessi morire per Amore vorrei che fosse per asfissia, così d’avere il tempo di guardarla negli occhi ma senza rimpianti.

Detto questo lascio il mio bagaglio culturale al deposito valige della stazione d’Iberna, cosicché, congelato, per il mio sapere il tempo non passi mai. Lascio in ultimo la mia paura di volare, di cadere, di correre e di non muovermi mai dal mio essere, tenute per paura di non riconoscermi più.

Sulla scena del crimine non c’erano tracce di colluttazione ma di collutorio. Era chiaro che l’assassino aveva compiuto un lavoro pulito.

Non c’erano, dicevo, tracce, trecce, frecce, pellerossa, pelle bianca o pelletterie di genere. Non c’erano impronte digitali e nemmeno analogiche; non si trovarono analogie né anatemi o analisi logiche.

«Aiuto ho perso il filo!» gridò la ragazza della porta accanto di nome Arianna. La ragazza, non la porta. Cioè nessuno la porta, è già lì, fisicamente. Voglio dire che è il nome di colei che vive nella porta accanto, non nella inteso come dentro, tra le fibre del legno, bensì inteso oltre la porta.

La polizia arrivò senza le sirene spiegate poiché il Comitato di Protezione esseri Marini e Sali vari aveva minacciato azioni legali se solo una, e dico solo una, e dico solo una, e dico solo una (ora STOP perché avevo detto solo una e andava già bene così) sirena fosse stata nuovamente spiegata.

Così nessuno si accorse della volante, solo due anziani che in preda a un delirio di curiosità senile si chiesero l’un l’altro: «Ma se vanno sulle ruote, perché si chiamano volanti?»

Il poliziotto udita la frase scese dall’auto e in tono autoritario disse: «Boh!»

Era una mattina come tante, tant’è che se non mi fossi svegliato non me ne sarei nemmeno accorto. Come ogni giorno, per prima cosa, rimisi nell’ovile le pecore contate, riposi i sogni nel cassetto, mi stirai per bene così da non sgualcirmi da lì a breve, mi lavai la faccia e le mani stando attento a non invertire l’ordine ma ovviamente non ci riuscii.

Così provai a lavare la faccia senza mani e mio cugino, Nestore il boia, chiese se servisse aiuto.

Gli dissi di non scomodarsi, che potevo fare tutto da solo. Lo ringraziai e anzi, gli promisi che se un giorno mai avessi deciso di perdere la testa per qualcuno lo avrei chiamato. Lo avrei fatto prima di essere giustiziato dall’amore.

Proprio in questo mentre, Rullino Brambilla se ne stava immobile a prendere l’ombra, sdraiato nella sua camera oscura priva di letto, priva di finestre, priva di comò e dunque senza le tre civette, priva di luce, priva di sodio e di grassi. Solo magri altrimenti non ci si stava poiché era priva di spazi. Open space diceva l’annuncio che aveva trovato su un sito per organizzazione di pesci d’aprile.

Una volta dentro capì che il pesce era riuscito benissimo. Però Rullino decise con orgoglio di non mollare e s’insediò in quella stanza per mettere radici. Una volta piantate lesse sulla confezione: necessitano di luce. A quel punto pianse ma non piante, non sarebbero mai cresciute. Entrò in un tunnel da cui non vedeva luce: era il bagno. Di quello non era privo ma i tentativi, prima di fare centro, furono molti.

Aveva cambiato vita dopo essere stato per trentatré anni all’oscuro di tutto.

Del sapere, dell’essere e dell’avere: sogni, aspirazioni, espirazioni e mete.

Una vita senza meta è come una lite senza cervelli: non ci si muove di un passo. Ti sembrerà di correre velocissimo tra i tralci, i tralicci e gli intralci dell’esistenza ma appena fermo, ti guarderai intorno senza sapere dove stai andando e l’esistenza non ti sarà più così certa.

Rullino aveva indossato capi d’accusa che non gli stavano bene. Rifiniti male sull’orlo del precipizio, dove il filo comune viene a mancare per assenza di Stato. Il filo che lega gli organi statali che formano i nostri apparati: il cardiocircolatorio, quello respiratorio e il digerente. Una serie di apparati divenuti ingerenti a causa di un’anoressia mentale. Sono decaduti i movimenti pro-teina e il mercato del tè ne è uscito sconfitto. Alle cinque dei pomeriggi beviamo aria fritta, che col passare degli anni è diventata liquida ma non liquidata. Sono decaduti i movimenti pro-testa e ora regna l’assenso. Quello silente e privo di conoscenza, un assenso sterile che si riproduce. Miracolo della Mio-genetica, materia egoista ed egoistica che foraggia i pro-fitti, loro sì, in ascesa.

Rullino fuggiva da tutto questo, cercando la luce o quantomeno un innesco. Un interruttore.

Cresciuto all’ombra del padre, Negativo, aveva sempre provato a portare una ventata di ottimismo con scarsi risultati.

In casa o era tutto bianco o era tutto nero. I colori, le sfumature e le gradazioni erano vietati. Bisognava essere realisti e la realtà è incolore poiché è come un bicchiere d’acqua, necessario ma che non provoca godimento. La realtà dei fatti è sicuramente più interessante di quella dei sobri. Rullino era sempre strafatto e a lui piaceva così. La mattina una dose di buon umore, a pranzo un’altra di ironia, per merenda una porzione di amore e dopo cena, prima di dormire, una striscia di sogni ad occhi aperti e chiusi. La realtà dei fatti è estremamente più interessante, quella sì che è in alta definizione. Non servono tanti pollici, ne basta uno ma puntato al cielo.

Rullino Brambilla aveva cambiato vita per Amore. Amore era una donna mozzafiato, killer seriale a cui veniva bene lasciare gli uomini a bocca aperta, occhi sgranati e cianotici. In città era il suo tempo, l’avevano definita Amore ai tempi del com’era.

Rullino al buio della sua stanza e io, all’oscuro della bolletta mai pagata, decidemmo consapevoli ma anche no, di esser noi le sue due prossime vittime.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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