Alice

Alice di Mattia Bonandi

Si può scappare dal Bianconiglio?

Alice vuole uscire.

Non sa perché è stata rinchiusa lì dentro.

Non sa perché parla col suo riflesso.

Non sa perché l’affetto degli altri la spaventi.

Non sa perché dondolare la tranquillizzi.

Alice non sa.

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Alice:

1

Sveglia.

Sono sveglia.

«Alice, è ora di alzarsi.»

L’ormai solita candida voce accompagna il mio risveglio e lo rende leggero, consentendomi di distendere le gambe tra uno sbadiglio e l’altro.

Avverto una strana sensazione appena la sua mano si posa sui miei capelli: paura, terrore, ansia.

«Lasciami stare» bofonchio all’istante.

Il suo palmo si scansa, permettendomi di sedermi sulla sponda del letto.

«Preparati con tranquillità» ribatte lei. «Ti aspetto qui fuori.»

Le faccio cenno di andarsene e porto le ginocchia al petto, iniziando a oscillare su me stessa.

Questo docile movimento è la mia via di fuga, la mia serenità, la mia tranquillità, è la medicina in grado di abbattere la mia tensione, la mia ansia, ma non la mia pazzia, più pericolosa di ogni malattia, più potente di ogni antibiotico e nascosta nel luogo più riservato, più sensibile dell’essere umano: il cuore.

La avverto a ogni battito, sento la sua presenza ora dopo ora, giorno dopo giorno e la sua potenza aumenta senza placarsi, rendendola un ordigno pronto a scoppiare in qualunque momento.

Le sue potenzialità sono sconosciute e su di lei regna l’ignoto, alimentato dai membri dell’istituto che si ostinano a sottovalutarla pur conoscendone l’esistenza.

Sì, proprio loro, che si proclamano aiutanti, a volte anche salvatori o addirittura amici, lasciano il compito più arduo a noi, i loro alunni, isolandoci in una battaglia destinata a non finire.

E noi lottiamo come soldati in trincea, siamo guerrieri senza armatura, fragili reclute arrendevoli scaraventate in una guerra che non ci appartiene, ignare del nostro destino e delle capacità del nostro rivale, libero di prenderci alla sprovvista con mosse mirate per portarci alla rovina, prendendosi gioco di noi dinanzi ai nostri occhi.

Stringo le braccia davanti alle gambe e mi dondolo con forza, abbassando il capo verso il pavimento.

Bianco.

Le piastrelle che lo compongono sono incastrate scrupolosamente, sembra siano state progettate da un matematico e non da un comune architetto.

Si distinguono rombi, quadrati, rettangoli e triangoli, dipinti con un sottile strato di bianco.

Rialzo la testa e mi sento sperduta nella mia stanza, riconoscendone solo le pareti, tinte di bianco.

Afferro il mio cuscino dalla federa bianca e scivolo sul materasso, anch’esso bianco.

La lampada bianca posata sul bianco comodino accanto al bianco armadietto illumina l’ambiente con luce fioca, mentre i miei occhi roteano e cercano di evadere dalla stanza monocromatica, portando la mia attenzione verso un’unica via di scampo.

Poso controvoglia i piedi a terra e indosso una maglietta a maniche corte abbinata a un morbido pantalone, ritrovandomi a fissare con curiosità l’unica finestra a cui posso accedere.

Esamino il mio riflesso e vi faccio comparire un debole sorriso, incrociando le braccia in segno di attesa.

«Buongiorno, Alice» saluta lei.

«Ciao» ricambio.

«Oggi solita routine?»

Rifletto sulle attività che dovrò svolgere, annuendo.

Mi risponde con uno sbuffo.

«Sei noiosa» commenta. «Non so davvero come riesca a sopportarti.»

Io annuisco, comprendendo la sua reazione.

La ragazza invece si limita a lanciarmi un’occhiataccia.

«La scuola vuole che io compia sempre le stesse attività» mi giustifico.

«Scuola?» mi chiede scettica. «Tu credi davvero di essere in una scuola? Alice, apri gli occhi!»

Aggrotto le sopracciglia, non capendo il suo discorso.

«Studiamo molta psicologia» rifletto ad alta voce.

La ragazza si dà una pacca sulla fronte.

«Tu vai dallo psicologo, non studi psicologia.»

La odio quando si diverte a correggere le imprecisioni: sa che non sono un asso in italiano e potrebbe evitare di evidenziare le mie difficoltà nell’esprimermi.

«Vuoi aprire la finestra?» cancella i miei pensieri l’usuale voce, sbucando dietro la porta.

La ragazza nel riflesso scuote la testa ma io accetto la proposta e indietreggio con cautela, tornando seduta sul materasso.

«Ci rivedremo presto» dice, un attimo prima che la donna dalla voce soave sollevi la tapparella.

Osservo con curiosità i passaggi compiuti dalla donna e la vedo mentre estrae dalle sue tasche una sottile chiave dorata che si incastra alla perfezione nel lucchetto posto davanti alla persiana.

Noto anche un’insolita preoccupazione nel rimuoverlo, come se fosse spaventata dal mondo esterno, come se non potessi vedere cosa c’è al di là di queste quattro mura.

«Vieni pure» si scansa di lato. «Stai attenta però a non sporgerti troppo.»

Poso i gomiti sul sottile strato di cemento a ridosso della finestra e la ringrazio, abbandonando la testa alla salda presa delle mani.

Adoro il cielo.

Da quando sono qui, il cielo è sempre stato unico.

Porte, magliette, sedie, scaffali, letti, in questa scuola è tutto bianco; tranne il cielo.

Forse è un pittore a dipingerlo ogni giorno, adattando le nuvole al panorama circostante, facendo filtrare i raggi solari, creando fantastici tramonti e fantastiche albe e terminando le giornate con spicchi di luna, accompagnata ogni notte dalle fedeli stelle ormai suo marchio di fabbrica.

Le sue creazioni mi distraggono dalla realtà e mi consentono di viaggiare con la mente fuori da questa struttura, verso un futuro colmo di gioia e speranza.

Non ho mai criticato una sua opera, neanche le più tristi o le più cupe, a causa delle forti emozioni che mi trasmettono; i suoi stati d’animo sono chiari, oserei dire cristallini e non necessitano di particolari interpretazioni.

Oggi pare essere allegro, con uno sgargiante sole intento a illuminare le candide nuvole che lo attorniano e un cielo chiaro, tinto con un azzurro lievemente misto a un bianco traslucido.

La sua allegria mi contagia, rendendomi felice.

«Alice, dobbiamo andare» mi richiama la donna rimasta al mio fianco. «La colazione rischia di raffreddarsi.»

«Arrivo» temporeggio, coprendomi con una felpa qualunque.

«Okay, sono pronta.»

Dedico un ultimo sguardo alla composizione prima che il mio sorriso scompaia al palesarsi del consueto lucchetto, intento a tenere prigioniero l’artista più maestoso e incompreso di tutti i tempi.

Attendo con impazienza la donna e mi dirigo con lei verso il luogo più affollato della scuola, ovvero la sala da pranzo.

Passo dopo passo avverto una mancanza e il battito del mio cuore si snatura, gonfiando e sgonfiando il petto con cattiveria e furore.

La donna si ferma, la mia testa si spegne, la percezione della realtà intorno a me svanisce.

Resto in piedi a fatica mentre il corridoio si priva della sua essenza, dei suoi colori, delle sue pareti.

«Tranquilla» mi rassicura all’orecchio. «Sta arrivando, si sentono i suoi passi.»

«Eccomi, eccomi!»

È la sua voce.

«Serena, la puntualità è importante in questo edificio» viene immediatamente rimproverata.

«Lo so lo so, scusami tanto, la sveglia non ha suonato, ho fatto il più in fretta possibile ma…»

«Tieni per te le tue scuse» non la avevo mai sentita con una voce così rauca, così aggressiva. «Che sia l’ultima volta. Tu sai di cosa parlo.»

«Si. Ho capito.»

Il silenzio grava su di noi come un macigno, appesantendo ulteriormente la situazione.

Ritorno a distinguere le figure, a delineare i contorni e mi ritrovo faccia a faccia con due colpevoli occhi azzurri di cui Serena è la sola e unica custode.

Mi chiedono perdono, un perdono che non esito un istante a concedere, preoccupata al pensiero di non poter rivedere Serena il mattino seguente.

Ormai è entrata a far parte della mia vita e perderla significherebbe abbandonare una parte di me, cosa che non posso permettere né ora né mai.

La donna sospira e si congeda, rivolgendoci un saluto d’obbligo, per nulla sentito.

Serena si getta su di me e mi stringe tra le sue braccia, accarezzandomi la schiena con le sue piccole mani.

«Scusami» bisbiglia mentre mi irrigidisco per il contatto.

Nonostante la sensazione di fastidio, il petto mi vieta di sciogliere l’abbraccio e cerca di costringermi a ricambiarlo, avvolgendomi di un piacevole calore ma le braccia non collaborano e rimangono distese lungo il mio corpo.

Serena si allontana dopo alcuni secondi e mi rivolge un candido sorriso, indicando con lo sguardo la nostra meta.

«Andiamo a fare colazione?» domanda, trascinandomi senza attendere risposta.

La sua pancia brontola rumorosamente, tingendole le guance con un lieve rossore.

Questa ragazza deve avere dei problemi di stomaco: il forte brontolio è giornaliero e si palesa prima e dopo ogni pasto.

Raggiungiamo la grande tavolata con rapidità e ci accomodiamo l’una accanto all’altra, scambiandoci svariate occhiate prima di occuparci del buffet dinanzi a noi.

M’incammino verso la montagna di pietanze e inizio ad appropriarmi dei biscotti al cioccolato (i più contesi alla mattina) tenendone da parte alcuni per Serena, rimasta seduta al tavolo a causa della sua svogliatezza.

La scorgo fissare le fette biscottate con la marmellata e ne poso alcune sul piatto, impugnando con una mano gli ultimi bicchieri di aranciata.

Ritorno a sedere e ricevo un bacio sulla guancia per averla accontentata, mentre la invito a servirsi per prima.

«Mangia le fette biscottate» le consiglio. «Non hai mai finito tutto ciò che hai preso»

«Lo so» risponde. «Infatti oggi la colazione l’hai presa tu.»

Addento un biscotto sotto le occhiate invidiose degli altri ragazzi, bevendo poi un sorso dell’ultimo bicchiere di succo d’arancia.

Serena mangia lentamente, godendosi forse troppo la colazione e spostando l’aranciata.

«Dopo la rimetto a posto» risponde alla mia domanda implicita. «Non ho sete stamattina.»

Scuoto il capo in segno di disapprovazione.

Finisco la mia parte di biscotti in alcuni minuti e rilasso il corpo contro lo schienale, guardando Serena alle prese con il cibo.

Non capisco come mai mangiare le crei sempre una miriade di problemi; qualche giorno fa ho chiesto spiegazioni alla donna che si prende cura di me e mi ha detto solo un nome, peccato che non ne abbia capito il significato.

Vorrei parlarne con la diretta interessata ma ho paura di ferirla, potrebbe trattarsi di un argomento delicato e no, non me la sento di rischiare.

Se dovesse prendersela o intristirsi per qualunque motivo non me lo perdonerei mai.

Meglio evitare e rimanere nel dubbio.

«A cosa stai pensando?» mi distrae proprio lei, preoccupata.

Resto in silenzio, trattenendo a stento la verità.

«Oggi fa freddo» rispondo.

«Vero» concorda. «Comunque, avevi ragione: non riesco a mangiare tutto. Finisci pure i biscotti, io sono piena.»

Annuisco, aspettando un’ulteriore conferma prima di svuotare il piatto con facilità.

A volte temo che la semplicità con cui riesco a mangiare possa disturbarla, ricordandole i suoi limiti, le sue difficoltà.

Proprio come quando gusto i biscotti davanti agli altri, mostrando loro cosa non possono mangiare, temo di infastidire Serena sbattendole in faccia ciò che non può fare, ovvero saziarsi con serenità e spensieratezza.

Non mi importa più di tanto dei residenti nella struttura ma di Serena sì, e anche molto.

È stata la prima e unica persona ad avvicinarsi a me, a

 entrare nel mio mondo e a cercare di capirmi.

Molte volte non ci è riuscita e tuttora fatica a mettersi nei miei panni, ma apprezzo il tentativo e, a volte, la comprensione che mi trasmette.

Sono passati quasi dodici anni dal mio arrivo (sono qui da quando avevo cinque anni) e continuo a non comprendere come mai alcune persone vogliano evitarmi.

Forse mi reputano pazza oppure non degna delle loro attenzioni, eppure anche loro si trovano qui, proprio come me.

Invece di fare squadra preferiscono rovinarsi da soli, restando nel loro insulso gruppo di amichetti e peggiorando le loro condizioni minuto dopo minuto, lamentandosi poi degli scarsi risultati ottenuti a fine mese.

Ma per fortuna non sono tutti così; la maggior parte dei ragazzi si nasconde per timidezza e per panico, panico di esprimersi, di esternare le proprie emozioni a un completo sconosciuto.

Se Serena non mi avesse cercata con frequenza col passare degli anni, probabilmente avremmo fatto la stessa fine.

Lei è stata spostata nei pressi della nostra struttura all’età di tredici anni, quattro anni fa.

È arrivata spenta, priva di emozioni, e ha varcato la soglia con atteggiamento sprezzante, consapevole che non sarebbe uscita con la facilità con cui è entrata.

Mi ha cercata sin da subito, facendomi compagnia durante i pasti e accompagnandomi alla mia stanza, poco distante dalla sua.

Io ero diffidente, abituata a trascorrere le giornate per conto mio e a sperare finissero in fretta, ma mi sono ben presto resa conto che con lei provavo felicità, divertimento e a volte anche fiducia, sentimento all’epoca a me sconosciuto.

Quella chioma biondo ramata diventò un’abitudine, quell’insolita ragazza aveva deciso di far parte della mia vita senza alcun apparente motivo.

Mi accorgo di star fissando proprio lei, ricevendo un buffetto sulla guancia di rimando.

«I tuoi momenti di riflessione sono inquietanti» ride debolmente.

Guardo il tavolo e non vedo più il bicchiere di aranciata, ritrovandolo posato sul bancone insieme alle altre pietanze.

Lancio un’occhiataccia a Serena: anche oggi non ha finito la sua colazione.

«Che c’è?» si finge innocente. «Ti avevo detto che l’avrei rimesso a posto.»

Fingo di essere d’accordo con la sua decisione e mi alzo insieme a lei, spingendo la sedia sotto il tavolo con una mano.

Mi piacerebbe dimostrarle affetto, ricambiare i suoi abbracci e le sue carezze ma il mio corpo non reagisce agli impulsi del cuore, abbandonandolo a un monotono battito accelerato.

La figura slanciata di Serena mi taglia la strada, spostandosi alla mia sinistra.

È magra, davvero magra e lo era ancor di più qualche anno fa.

Se non altro sta migliorando.

Ci voltiamo contemporaneamente e ci scambiamo un mezzo sorriso, pronte ad affrontare anche questa giornata come se fosse l’ultima.

Ognuna di noi deve affrontare la sua battaglia, sconfiggere le proprie paure e abbattere gli ostacoli che si presenteranno col passare del tempo, ma stare insieme ci dà una speranza, trasmettendoci la forza che da sole non avremmo mai avuto.

Insieme, sentiamo che possiamo farcela.

2

Il tempo sembra non essere intenzionato a passare quest’oggi: le lancette dell’orologio appeso in salotto aspettano l’intimazione dei miei occhi per scorrere e toccare i numeri in rilievo; i docenti, la cui divisa è rigorosamente bianca come da regolamento, interrompono il loro passo spedito con inutili saluti e, di tanto in tanto, fingono di riconoscermi, fallendo nel novantanove percento dei casi.

Ma quella non è la schizofrenica?

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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