Gli otto elementi – tomo II

Gli otto elementi – tomo II di Antonio Porro

E se dovessi combattere per proteggere chi ami, quanto dolore riusciresti a sopportare?

  • Titolo: Gli otto elementi – tomo II
  • Autore: Antonio Porro
  • Lingua: Italiano
  • Formati: kindle, copertina flessibile
  • Editore: Oakmond Publishing (2021)
  • Generi: Romanzo, Fantasy

L’operazione Nuovo Mondo ha ormai avuto inizio ma un nuovo pericolo minaccia l’imperatore di Egril nel suo progetto di conquista e creazione.

Otto elementi reggono il mondo: ghiaccio, vento, tuono, luce, fuoco, terra, acqua e oscurità.

Otto reliquie reggono l’equilibrio del mondo e dieci araldi hanno giurato di mantenere questo equilibrio.

Molte sono le nazioni che hanno sguainato le loro armi in nome delle sacre reliquie del mantenimento o dello sconvolgimento dell’equilibrio mentre il generale Zephyr è alla spasmodica ricerca del nono elemento, la chiave che potrebbe cambiare le sorti della magia di Nesia.

Tra intrighi, indagini, battaglie, magia, sangue e dolore nessuno è al sicuro e tutti dovranno combattere per proteggere coloro che amano.

E tu da che parte starai?

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Gli otto elementi – tomo II:

1
Decisione importante

Uccidilo.

Non riusciva a togliersi quell’ordine dalla testa. Era come un marchio a fuoco, che una volta impresso, non andava più via in alcun modo. Non riusciva a credere di aver ricevuto un ordine del genere. Quando gli aveva inviato il messaggio, era sicuro che gli avrebbe richiesto al massimo di osservare la situazione, o di verificare che potesse rappresentare un pericolo effettivo.

Uccidilo.

A Trozar non piaceva per niente l’idea. Certamente, era un comandante dell’esercito di Egril, per cui togliere una o più vite, era una cosa che faceva parte del suo mestiere. Ma cercava in tutti i modi di evitarlo, quando poteva. Si sentiva in colpa ogni volta. Pensava alle centinaia di vite che aveva spezzato, alle famiglie che aveva distrutto, ai figli che aveva lasciato orfani e le coppie a cui aveva strappato l’amore, per colpa delle sue azioni. Ogniqualvolta andava in guerra, per non rimanere paralizzato dalla paura e dal senso di colpa, pensava che se non avesse ucciso lui per primo, avrebbero fatto lo stesso con la sua famiglia, i suoi figli, i suoi amici. Sarebbe andato contro l’imperatore stesso, se solo qualcuno avesse sfiorato i suoi cari. Era più facile, quando dall’altra parte c’era un cattivo senza volto che avrebbe infestato il mondo con il suo male. Era una maniera estremamente semplice di vedere le cose, forse anche infantile, o ingannevole, ma quel pensiero lo spingeva ad andare avanti. Si sentiva meglio quando pensava a sé stesso come un protettore, colui che difendeva il proprio paese e i propri cari da malvagi sconosciuti che avrebbero potuto ucciderli. Quel pensiero lo risollevava, persino quando era sicuro che dall’altra parte fosse lui ad interpretare quel ruolo.

Uccidilo.

Adesso era costretto a farlo. Non voleva, ma ormai l’ordine gli era stato dato. Rhodes IV non l’avrebbe mai perdonato, se avesse fallito e la sua vendetta sarebbe stata tremenda. Avrebbe avuto un’unica opportunità e non poteva permettersi di sprecarla.

Aveva attraversato il portone di pietra in testa alla carica. Gli egriliani davanti a lui stavano cadendo uno dopo l’altro, i loro scudi si stavano riducendo in piccoli e inutili cubetti di ghiaccio. I raqiani li stavano accerchiando e i loro attacchi diventavano sempre più numerosi e furiosi. Le sfere infuocate e le vampate di fiamme divampavano tutte intorno alle armature nere. Non avrebbero resistito ancora a lungo. Al centro, difeso da quattro soldati egriliani, c’era lui, accasciato a terra con la tunica nera che era solito indossare.

Adesso non era il momento di pensare, ma di agire.

Trozar, seguito a ruota dal resto dell’esercito, corse più veloce che poté, armato di un gigantesco scudo nero e la sua fidata ascia bipenne, che riusciva a brandire con una mano, malgrado fosse molto pesante. Il suo elmo gli schiacciava il naso, ma lo aveva protetto in decine di battaglie a cui aveva preso parte. Il suo passo non risentiva minimamente del peso che si portava addosso. Il suo cervello era fisso verso un solo pensiero.

Uccidilo.

Quella breve distanza, quei dannatissimi trenta metri da percorrere tra l’entrata e il punto in cui il generale era caduto, sembravano come un infinito corridoio di cui non si sarebbe mai vista la fine.

Non riusciva a sentire il calore che proveniva dai proiettili di fuoco, il cui vento sprigionato gli sferzava il volto. Non sentiva la durezza del pavimento di pietra, contro cui i suoi piedi picchiavano violentemente con i suoi passi pesanti. Non percepiva nemmeno i compagni alle sue spalle che correvano come dei forsennati, seguendo l’esempio del loro comandante. Le loro urla d’incitamento e d’esaltazione erano deboli, ovattate e le loro parole erano vuote. L’unica cosa che riusciva a percepire era solo la sua testa che pulsava con violenza e il suo corpo che sembrava muoversi da solo.

Dopo quello che sembrò un’eternità, aveva finalmente raggiunto il generale.

Adesso, o mai più! fu l’unica cosa che riuscì a pensare in quel momento.

Sguainò l’ascia e con tutta la forza che aveva in corpo, mulinò un fendente e lo colpì sul braccio, staccandoglielo di netto.

Il raqiano colpito non poté che urlare dal dolore. Trozar rincarò la dose, menandogli un altro fendente in pieno volto, sfigurandolo e facendolo cadere a destra con una piroetta. Dopodiché si rivolse all’altro raqiano che stava assaltando il generale alla sua sinistra e lo respinse con irruenza con lo scudo, facendolo indietreggiare, poi con un movimento fluido gli piantò l’ascia dritto in testa, in mezzo alla fronte.

«Dannati sorci di fogna! Non vi azzardate a toccare il nostro generale! Soldati! Caricate a testa bassa! Per l’impero! Per Egril!» urlò, posizionandosi in maniera da proteggere Zephyr con il suo corpo. Un’ondata nera s’infranse sulle fiamme raqiane, dividendosi e sparpagliandosi come il delta di un fiume, inarrestabile, vigoroso e senza ostacoli. Trozar si girò verso il generale svenuto Ti prego, dimmi che sei ancora vivo, dimmi che sono arrivato in tempo! Lo girò verso l’alto, vide che aveva la faccia paonazza. No! No! No! Sentiva la disperazione crescere in lui, incurante della battaglia che poco più avanti si stava ancora svolgendo, dimentico dell’obiettivo che gli era stato affidato. Subito mise due dita sotto al collo e pose l’orecchio sul suo petto.

Respirava ancora.

Meno male… è ancora vivo! pensò con enorme sollievo.

Si rialzò immediatamente. Chiamò i due soldati sopravvissuti davanti a sé, che avevano fatto da scudo al generale e che stremati dalle fatiche, non potevano ulteriormente combattere. «Voi due! Venite qui!» tuonò con decisione. Loro si precipitarono, non appena si resero conto della situazione. «Comandi signore!»

«Soldati, avete reso un buon servizio al vostro esercito, ma ora vi si richiede un ultimo sacrificio, per il bene di tutti noi. Il generale è vivo, ma non può rimanere qui. Portatelo immediatamente da un ufficiale medico e fatelo curare. Tenetelo al sicuro, è la vostra massima priorità. Ci siamo intesi?»

I due uomini risposero «Signorsì, signore!» e presero il generale per le gambe e le braccia. Trozar a quel punto si guardò attorno e chiamò a raccolta altri soldati ancora in grado di muoversi, ma che non avevano ingaggiato battaglia. «Ehi! Ehi! Tu… sì, tu laggiù… e tu e anche tu!» Lo raggiunsero più in fretta che poterono, urtati e spinti dall’irruenza dei loro compagni. Una volta chiamate a raccolta una decina di persone, Trozar ordinò «Voi, aiutate questi due giovani a trasportare il nostro generale, fategli da scudo e apritegli la strada, assisteteli in ogni modo, intesi?»

L’intero gruppo esclamò «Signorsì, signore!» e mentre alcuni aiutarono al trasporto del generale, altri si misero davanti al corteo e cominciarono a urlare «Ufficiale ferito! Fate largo! Ufficiale ferito!» e si posizionarono come scudo attorno a coloro che lo stavano trasportando, avviandosi in maniera lenta, ma compatta verso il portone sfondato. Trozar trovò alquanto bizzarro che uno di quei soldati non indossasse l’armatura in una situazione di pericolo. Ma non era il momento per stare a cavillare su questioni di divisa. Era giunta l’ora anche per lui di passare all’azione. Si rialzò in piedi imbracciando l’ascia e lo scudo, serrò la guardia e si unì anche lui all’avanzata.

I raqiani opponevano una fiera resistenza, gli arcieri e i maghi nascosti tra le macerie e all’interno degli edifici, facevano il grosso del lavoro. Ma per ogni egriliano che uccidevano, ne uscivano fuori altri due che attaccavano. Trozar aveva dato disposizioni ai maghi di riunirsi attorno agli edifici e congelarli dalle fondamenta. Piccole squadre che sfuggivano alla vista dei tiratori scelti, si posizionavano rasenti alle mura, mettevano le loro braccia sulle pareti e le congelavano dal basso verso l’alto. Era una misura un po’ estrema, considerato che una volta ridotto l’edificio in un’enorme stalagmite ghiacciata, i maghi avrebbero dovuto essere soccorsi immediatamente, per evitare che venissero uccisi mentre erano inermi. Però questo metodo era di gran lunga più rapido rispetto alle ispezioni edificio per edificio, a caccia di nemici. Chiunque fosse stato abbastanza folle da nascondersi all’interno di quelle case, sarebbe morto congelato. I maghi erano sempre accompagnati da un’esigua scorta, o quando non era possibile, costruivano delle barriere di ghiaccio per coprire le loro teste. Nel malaugurato caso in cui fossero stati uccisi e il loro lavoro non fosse stato portato a compimento, avrebbero comunque rappresentato una tregua per la linea del fronte che sarebbe avanzata ancora più velocemente. Si combatteva strada per strada e gli egriliani infestavano le vie come locuste. Arrivavano rapidamente, sbaragliavano le linee di difesa e avanzavano altrettanto rapidamente, pronti per affrontare le successive linee nemiche. Lo stesso Trozar, avendo recuperato terreno dopo la sosta iniziale, si trovò nuovamente a guidare la carica nella sezione centrale del fronte. Grazie al suo fido scudo e alla potenza della sua ascia, riusciva in poco tempo a sbaragliare un gran numero di nemici. Respingeva ogni fendente di scimitarra con lo scudo, per incedere nel cuore di Shasarq fendeva l’ascia con una rapidità impressionante. I suoi affondi non conoscevano pietà, molti raqiani si trovavano con l’addome reciso in due, oppure la testa spaccata dal vigore della sua forza. Le lance dei compagni alle sue spalle lo proteggevano e tenevano a bada gli eventuali punti ciechi che si creavano a causa della sua furia. Una linea serrata, continua e invincibile. Dopo oltre un’ora di combattimenti, la carica di Trozar aveva fatto arrivare la linea del fronte a circa metà della capitale. Trovavano sempre meno resistenza nel loro percorso e saliva visibilmente il numero dei fuggiaschi. L’onda nera di Egril stritolava Shasarq e non le lasciava più neanche un margine di respiro.

Nonostante la stanchezza e il tempo trascorso, Trozar continuava a colpire duramente. Fracassava le loro teste, mozzava loro le braccia, mulinava l’ascia e respingeva i raqiani che osavano frapporsi nel suo cammino. La sua furia spronava i soldati sotto al suo comando a fare altrettanto. Archi dalle retrovie scoccavano frecce congelate, abbattendo le retrovie raqiane e un maggior numero di sfere di ghiaccio avevano preso il posto delle vampate di fiamme. Shasarq la capitale oltre il Rubino Rovente, avvolta dalla coltre di fiamme, in sole poche ore era diventato il luogo più freddo dell’intera Nesia, dopo Novgrad.

«Ritirata! Ritirata!» si sentivano le voci dei raqiani che ormai decimati, con i cadaveri ammassati per le strade e schiacciati dalle armature egriliane, stavano cedendo alla disperazione. Alcuni di loro decisero di immolarsi dandosi fuoco, ma il freddo ghiaccio li investiva prima che potessero fare danni cospicui. La maggior parte fuggiva nelle retrovie, verso le mura interne e implorava di entrare, chiedevano rifugio, urlavano disperati come dei cani e dei gatti che pregavano il loro padrone di aprire una porta. Le mura interne avevano lo stesso aspetto in tutto e per tutto di quelle esterne. L’unica differenza era il portone, non in pietra, ma in metallo, su cui era incisa sopra una fenice che volava verso l’alto con le ali aperte, circondata da otto stelle.

Alla vista di quella scena, Trozar diede l’ordine di fermarsi a tutte le truppe. I raqiani erano con le spalle al muro, se proprio avessero voluto combattere, li avrebbe uccisi seduta stante, senza pensarci due volte. Ma se ci fosse anche solo una minima possibilità, anche una soltanto, avrebbe dovuto provarci. Si schiarì la gola e gridò con il suo forte vocione ai soldati di fronte a sé.

«Popolo di Raqi! Ascoltatemi! Il mio nome è Trozar Bearpaw, comandante della brigata nera dell’esercito dell’Impero di Egril! Come avete potuto vedere, abbiamo preso possesso della vostra città!» Alla fine della frase un boato misto di euforia e rabbia si levò alle sue spalle, terrorizzando le centinaia di soldati oppressi dalle mura e dalla gelida minaccia che gli si parava davanti. «Tuttavia, non siamo bestie che rispondono semplicemente al richiamo del sangue. Non abbiamo niente contro il vostro popolo. Il nostro obiettivo si trova alle vostre spalle e adesso vi sta negando la sicurezza e la salvezza delle vostre vite. Se il vostro desiderio non è di ostilità e rancore, non c’è alcun bisogno di prendere anche le vostre vite. È vero, abbiamo ucciso molti dei vostri compagni e distrutto le vostre case. Ma i nostri sono stati solo gesti di giusta rivalsa nei confronti del vostro re, dispotico ed egoista, che non ha saputo onorare le alleanze stabilite ai tempi dell’antico patto, rifiutando di assisterci e fornirci supporto, ci ha messo gli uni contro gli altri, si è nascosto dietro di voi, il suo popolo, che avrebbe dovuto proteggere, pur di non lasciare le proprie ricchezze, pur di tenere le sue grinfie sul suo oro, ha permesso che noi uccidessimo i vostri fratelli e sorelle. Non era nostra volontà farlo, ma credetemi quando vi dico che lo abbiamo fatto con animo grave, spinti dalle circostanze. Io capisco benissimo cosa state passando. Nonostante sia un nobile e un alto ufficiale, vi capisco perfettamente. Perché come vedete, io sono in prima linea, assieme ai miei fratelli e le mie sorelle, a combattere, a soffrire e patire tutto ciò che loro subiscono. Dove si trovano i vostri ufficiali? I vostri nobili? Dov’è il vostro re? Ve lo dico io dove sono! Richiusi e al sicuro dietro le mura che vi stanno rifiutando. Le stesse mura per cui tutti voi avete barattato le vite dei vostri affetti più cari e le vostre per tenerle in piedi! Vale la pena combattere per un uomo che non si sporca le mani e che manda gli altri davanti? Io dico di no! Ma non pretenderò di decidere per voi raqiani, quindi lascerò a voi la scelta. Se deciderete di proseguire il combattimento, riprenderemo immediatamente le ostilità. Ma sappiate che se sceglierete di intraprendere questo percorso, non avremo alcuna pietà, vi decimeremo dal primo all’ultimo! E se credete che con la mia morte riuscirete a ottenere qualcosa, non farete altro che illudervi! La mia morte non significherà nulla. Altri uomini più spietati e violenti di me prenderanno il mio posto. Tuttavia, vi è un’altra via per risolvere le cose. Gettate le vostre armi e mettete le vostre mani dietro la testa. Arrendetevi. Giuro sul mio onore, che nessuno del nostro esercito vi torcerà un solo capello. Arrendetevi e avrete salva la vita. Spero in cuor mio che sia questa la strada che sceglierete. Non ho alcun desiderio di farvi del male. Cosa rispondete?» concluse, scrutandoli uno a uno per osservare le loro reazioni.

Interiormente Trozar si disse Non so nemmeno come siano uscite dalla mia bocca tutto questo cumulo di sciocchezze… Ma spero sul serio di non dover uccidere oltre oggi, al di fuori del mio obiettivo. Ho già dato abbastanza…

Per tutta la durata del discorso, i soldati di Egril avevano mantenuto le posizioni di guardia, con gli scudi serrati e le armi in pugno, pronti a qualunque reazione del nemico.

I raqiani tacquero pensierosi per alcuni minuti. Le parole di Trozar riecheggiavano ancora nelle loro teste e stavano valutando l’offerta appena ricevuta. Si guardavano incerti e spauriti, come se fossero stati lasciati in mezzo a una foresta senza una mappa. D’un tratto, uno dei soldati fece alcuni passi in avanti in direzione degli egriliani, con la scimitarra in mano. La prese con entrambe le mani, in modo che fosse ben visibile e la poggiò per terra davanti a sé. Subito dopo, si sfilò il turbante rosso, rivelando le sue lunghe orecchie triangolari all’ingiù color sabbia, un piccolo viso rotondo, con due occhi circolari neri, un paio di folte sopracciglia, un naso talmente piccolo, da essere a malapena visibile. Si inginocchiò e mise le mani dietro la testa. Il suo volto era atterrito, sconfortato, rassegnato. Trozar lo osservò con sollievo e annuì. Poi tornò a osservare tutti gli altri con uno sguardo autoritario. Uno dopo l’altro, gli altri raqiani fecero lo stesso. Ormai il loro spirito era stato spezzato. Avevano resistito finché avevano potuto, ma si erano scontrati con la dura realtà. Il loro avversario era stato più forte delle loro strategie. Avevano perso. Ed Egril aveva vinto. Trozar tirò un lungo sospiro di sollievo Meno male! È andata bene… È finita… «Soldati! Shasarq è caduta! Abbiamo vinto!» Un’esplosione di gioia si levò alle sue spalle, che quasi lo travolse. Doveva ancora prendere il palazzo reale, ma era certo che per compiere quest’impresa, non avrebbe impiegato molto tempo. Se l’esercito regolare non era riuscito a fermarli, la guardia reale non avrebbe rappresentato una sfida troppo impegnativa. Trozar tuonò nuovamente verso i raqiani «Avete scelto bene, me ne compiaccio. Chi, tra voi, è l’ufficiale più alto di grado?»

Fu allora che si alzò in piedi una donna dai lunghi capelli castano scuri raccolti in uno chignon, dalla faccia tonda e guance gonfie, un naso lungo e appuntito, due occhi sottili grigi e un paio di labbra larghe, sulla cui parte superiore era possibile già scorgere i segni dell’età. «Sono io, comandante Trozar» disse tenendo gli occhi bassi, ricolmi di disprezzo e le mani dietro la testa. Trozar vide che le tremava il labbro per la rabbia.

«Il tuo nome…?»

«Il mio nome è Faya Trimod, comandante» rispose secca la donna.

Trozar annuì «Ho deciso di fidarmi di te, Faya, ho un compito da affidarti. Non preoccuparti non è niente di complicato, né di umiliante. Devi recapitare un messaggio al tuo re da parte mia. Se entro dieci minuti non ti apriranno le porte, dopo aver portato te e i tuoi uomini al sicuro, come promesso, sfonderemo le mura interne e assalteremo con violenza il palazzo reale. Se dovessero aprirti ed entro un’ora non ti vedrò tornare con una risposta, sfonderemo le mura e assalteremo il palazzo con l’intero esercito e quando ti avrò trovata, ti giustizierò per alto tradimento, personalmente. Ma sinceramente, spero di non arrivare a quel punto, Faya. Siamo intesi?»

La donna annuì impercettibilmente. «Qual è il messaggio?» chiese con freddezza.

Fortunatamente dopo diversi tentativi da parte di Faya di farsi aprire, il portone interno si dischiuse, lasciando spazio appena sufficiente per farla passare, per poi richiudersi. Durante l’attesa, furono presi i prigionieri e furono condotti verso l’esterno delle mura. Trozar e un gran numero di soldati rimasero a breve distanza dalle mura interne, riposando e aspettando la risposta. Nonostante la noia, l’atmosfera era parecchio gioiosa e rilassata. I soldati erano contenti di come era andata a finire, erano riusciti a riempirsi di gloria in battaglia, non vedevano l’ora di ritornare a casa e dire addio a quel luogo dimenticato in mezzo al deserto. Anche Trozar sentì l’animo risollevarsi, finalmente avrebbe potuto riabbracciare la sua amata Izolda, avrebbe avuto del tempo da dedicare ai suoi figli, vederli crescere per un po’, riallacciare i suoi rapporti con la piccola Lucia, vedere le marachelle di suo figlio Ermac, interessarsi agli studi complicati di Edrian. Magari, se il generale non fosse stato inviato immediatamente a Omora e Mina fosse tornata in tempo, avrebbe avuto anche il piacere della loro compagnia. E magari anche Zaka si sarebbe unito, perché no… Avrebbe sicuramente voluto rincontrare Frederick e sua figlia Corah e anche fare una visita a Glenda e Bryce che non vedeva da lungo tempo, considerato che l’ultima volta che era tornato, non si erano potuti incontrare. Almeno per un po’ avrebbe potuto condurre una vita normale. Ma adesso doveva rimanere concentrato, aveva ancora una missione da compiere.

Allo scoccare dell’ora, nessuno aprì la porta. Trozar osservò con insistenza il portale, sperando con tutto sé stesso che si aprisse da un momento all’altro.

Attese altri dieci minuti, poi imprecò Dannazione, ho cantato vittoria troppo presto… non posso credere che siano così cocciuti. Questa resistenza è ridicola, oltre ogni dire!

Si alzò in piedi e tuonò «Soldati! In formazione!»

Tutti gli egriliani che fino a quel momento avevano festeggiato e creduto che tutto fosse finito, caddero improvvisamente dalle nuvole. Straniti e intontiti, osservarono con i loro occhi vacui il comandante.

Trozar vedendo così tanta indolenza impadronitasi dell’armata, decise di ribadire il concetto «Non avete sentito? Ho detto in formazione!»

A tutti i soldati si gelò il sorriso dalla faccia e a malincuore cominciarono ad alzarsi. Trozar riprese a parlare «Soldati! Abbiamo dato un’opportunità di resa ai reali di Raqi, ma loro hanno rifiutato il nostro invito. Non possiamo essere indulgenti, abbiamo preso la città, ma il re non ha intenzione di ascoltarci. L’unica legge che…»

Improvvisamente alcuni soldati sorrisero nuovamente e distolsero la loro attenzione «Comandante! Comandante! Le porte si stanno aprendo!» urlarono, indicando i portali.

Il comandante si girò e vide le ampie porte di metallo delle mura interne aprirsi. Uscirono due figure affiancate l’una all’altra. La figura a sinistra indossava un copricapo rosso che gli copriva anche i lati della faccia, con un gioiello viola al centro di un piccolo cerchietto dorato allacciato sulla testa. Aveva una testa squadrata dalla carnagione molto scura, due piccoli occhi verdi dal taglio sottile, un naso schiacciato e una bocca leggermente storta con delle brevi rientranze verso il centro. Su tutto il viso vi erano delle cicatrici orizzontali, che dividevano la faccia in quattro sezioni distinte: la prima tra la fronte e gli occhi, la seconda da sotto gli occhi fino alla parte inferiore del naso, la terza da sotto il naso all’estremità inferiore della bocca e tra la bocca e il mento quasi inesistente. Aveva un collo muscoloso e tozzo, anch’esso diviso in due sezioni simili a delle piastre di un’armatura. Indossava una tunica rossa, con un mantello che gli copriva totalmente le spalle e le braccia. Le sue grandi mani in vista, apparivano malformate rispetto a quelle umane. Le dita dal mignolo all’indice sembravano attaccate con uno strato di pelle spesso e solo il pollice era separato e libero di muoversi. Portava una cintura di cuoio marrone, sulla cui fibbia era riportato il simbolo di uno scorpione dorato, che tra le chele teneva una pietra di kunzite viola quadrata. Un paio di pantaloni larghi coprivano le sue lunghe gambe magre, ma altra particolarità era la sua coda. Non era molto flessibile ed era divisa a scaglioni neri e viola perfettamente rettangolari, come un carapace. Saliva curva dietro la sua schiena e arrivava sopra la testa, sulla punta si vedeva una specie di bulbo da cui fuoriusciva un aculeo dorato.

L’altra figura a destra aveva un copricapo simile, ma bianco con sfumature azzurre, il cerchietto era d’argento e non indossava alcuna gemma. Era più bassa del suo compagno e aveva il corpo, dalla carnagione molto scura, più grassoccio e meno muscoloso. La sua era una faccia tonda dalle morbide guance, con un paio di occhi grandi azzurri, che in quel momento sembravano arrossati dal pianto e due ciocche di capelli castani ricci scendevano ai lati. Le orecchie dai lunghi lobi penzolanti fuoriuscivano dai lati del copricapo, arrivando fino all’altezza del mento. Indossava una numerosa quantità di orecchini, gran parte cerchietti d’argento e dorati, che attorniavano per intero le sue orecchie ovali. Indossava una tunica a un pezzo bianca e vaporosa, sembrava morbida come lana al solo vederla. Sulla cintura di foglie intrecciate, spiccava una fibbia d’argento, raffigurante una stella. Al di sotto la tunica scendeva come una gonna, mettendo in mostra le sue gambe, stranamente secche per la sua corporatura. Non appena Trozar vide la donna, pensò Devo resistere all’impulso di stringerle le guance con le dita…

Il comandante andò incontro ai due bake a passi lenti, seguito a ruota dai suoi uomini.

A parlare fu la bake pecora che disse con voce rotta che assomigliava a un belato «Co-omandante Tro-ozar, suppo-ongo… Ci ha ma-anda-ato il re-e… Siamo due degli otto alti pro-otetto-ori di Raqi. Io sono Naima della ste-ella…»

Il suo compare intervenne spazientito «E io sono Smael del veleno. Il re ha deciso di incontrarvi, comandante Trozar, accetta le vostre condizioni, per quanto siano dure, a patto che lasciate stare il nostro popolo…»

Trozar annuì «Lady Naima, Lord Smael, avete la mia parola d’onore che a nessun raqiano sarà torto un solo capello.»

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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