L’artista è un essere speciale

L'artista e un essere speciale - Fernando Muraca

L’artista è un essere speciale di Fernando Muraca

Un saggio imperdibile per tutti gli artisti e, soprattutto, per coloro che artisti non sono.

  • Titolo: L’artista è un essere speciale
  • Autore: Fernando Muraca
  • Lingua: Italiano
  • Formati: kindle, copertina flessibile (113 pagine)
  • Editore: Oakmond Publishing (2019)
  • Generi: Saggistica

Capitolo per capitolo, attraverso lo scandaglio della figura dell’artista e della sua funzione sociale, che è cosa diversa dalla funzione sociale dell’arte, Fernando Muraca conduce per mano il lettore nel cuore dell’esperienza artistica. L’autore si mette a nudo, cioè mette generosamente a disposizione la propria esperienza e la propria sofferenza per indicare una via possibile di uscita dall’anomia attraverso l’esaltazione dell’artista inteso come una guida del tutto particolare: «è un essere superiore che qualcosa guida all’impossibile. È una specie particolare di profeta».

Acquista qui – Formato KindleCopertina flessibile

Comincia a leggere qui gratuitamente l’incipit del libro
L’artista è un essere speciale:

Prefazione

a cura di Daniele Vicari[1]

L’artista in rivolta

In un’epoca cinica e priva di freni inibitori come la nostra, nella quale ci sono persone comuni e capi di stato che rivendicano apertamente le nefandezze di regimi politici del recente passato basati su presupposti razzisti e violenti, negando e attaccando contemporaneamente la funzione della cultura, della formazione, della ricerca e dell’arte, Fernando Muraca sente il bisogno di affermare che «l’artista è il più vicino al santo», sfidando così il generale sentimento anti-intellettualistico. Per questo fa ricorso ai mistici, agli antropologi e agli studiosi che, soprattutto nel ‘900, al confronto con il dissolvimento del senso stesso dell’esperienza umana raggiunto da quei regimi, hanno dovuto mettere in chiaro la funzione e l’importanza di questa figura così singolare e sfuggente che solitamente non produce ricchezza materiale e certezze ma al contrario dubbi e immateriale bellezza.

Leggendo il libro chiunque potrà trovarvi appigli per ogni tipo di critica, per ogni genere di disapprovazione estetica e filosofica, persino etica, perché le tesi proposte dell’autore sono ardite, dadaiste le definisce egli stesso, anche se sarebbe più appropriato l’aggettivo polemiche per circoscriverne la esplicita intenzione. Comunque si tratta di tesi senz’altro vivaci e persino risentite per via della sottovalutazione sociale che l’autore stesso vive sulla propria pelle, al punto da dare sfogo a una chiara rivendicazione: «L’importanza dell’azione degli artisti nel mondo, però, non è facile da cogliere e valorizzare, come non è facile contraccambiare adeguatamente i loro sacrifici. Gli artisti, benché siano capaci di innescare rivoluzioni culturali per mezzo delle loro opere, difficilmente riscuotono (a parte pochi casi) un adeguato compenso al proprio lavoro. Essi non sono mossi in modo primario dall’intento di ottenere una ricompensa anche se, come tutti, la desiderano».

L’artista si carica sulle spalle tutti i mali dell’umanità, non per l’aspirazione a una redenzione universale ma per una generale agnizione che permetta agli uomini di riconoscere in se stessi la loro più semplice, cruda, fragile umanità: «Così gli artisti vincono le loro paure e aiutano tutti a farlo. Per questo motivo, ogni falso profeta, ogni idolatra, si affretta a zittirlo. Se non lo facesse, la purezza e la verità delle idee che l’opera di un artista fedele alla sua vocazione è capace di produrre smaschererebbero l’ipocrisia di tutti quei creativi che al posto dell’anima hanno impiantato il successo, al posto del cuore l’indifferenza per gli uomini». Qui, come si vede, c’è una polemica ricorrente nel libro contro il tempo presente, che disconosce l’artista e la sua funzione, lo vilipende, lo schernisce in favore dell’unico riconoscimento vigente, quello del successo che premia il più delle volte la disinvoltura e il cinismo. Il desiderio del successo, l’idolatria del vincente sono attitudini respinte dall’autore con veemenza, quasi con sdegno.

Tuttavia, sotto la scorza polemica dell’argomen-tazione si nasconde un fiume carsico che è la travolgente passione per la trasmissione della conoscenza, per l’insegnamento e nello specifico per la formazione quale modalità di costruzione del futuro. Infatti, anche da una prima lettura emerge con forza il desiderio dell’autore di lasciare una testimonianza fautrice, che spinga il lettore a misurarsi con le provocazioni proposte: «Nell’esperienza creativa ci sono lacrime di tanti tipi. Lacrime di solitudine. Lacrime di tenerezza nell’osservare un allievo (a cui hai trasmesso qualcosa) generare un’opera.» È così che il libro, capitolo per capitolo, attraverso lo scandaglio della figura dell’artista e della sua funzione sociale, che è cosa diversa dalla funzione sociale dell’arte, conduce per mano il lettore nel cuore dell’esperienza artistica e mistica dello stesso autore che si mette a nudo, cioè mette generosamente a disposizione la propria esperienza e la propria sofferenza per indicare una via possibile di uscita dall’anomia attraverso l’esaltazione dell’artista inteso come una guida del tutto particolare: «è un essere superiore che qualcosa guida all’impossibile. È una specie particolare di profeta.»

Cosa possa aver condotto Fernando verso questa idea palingenetica della figura dell’artista, un uomo cresciuto nella materialità dell’esistenza, del lavoro, della fatica, potrebbe essere difficile da comprendere non conoscendo la sua fede praticata con impegno assoluto, una fede che anche nel non credente come me suscita ammirazione e rispetto proprio per la dedizione all’altro che nei suoi esiti estremi porta quasi alla sublimazione del proprio io nel prossimo. Un io che, invece, nell’esperienza artistica assoluta, indicata come unica pienamente legittima forma trascendente i bisogni materiali stessi dell’artista, dovrebbe trovare la sua massima esaltazione estatica. Una contraddizione feconda che nel libro è variamente scandagliata.

Insomma questo volume, nella sua disarmante sincerità e avventatezza, ha il sapore del testamento di un maestro di strada che lascia ai suoi allievi il compito di negare l’essenza stessa della riflessione elaborata in una vita. Che poi è, al fondo, la più grande aspirazione dell’Uomo in rivolta dell’amato Camus che non a caso trova in questo libro un posto d’elezione.

Se volete farmi un grande piacerevi supplico, per amore del cielo, di non considerarmi un maestro o un predicatore che vi voglia fare una lezione. […]nessuno può fare più di quello che è nelle sue forze e capacità.[2] Fëdor Dostoevskij

Ogni atto natale esige il coraggio di abbandonare qualcosa, di abbandonare l’utero, di abbandonare il seno, di abbandonare il grembo, di sciogliersi dalla mano che lo tiene, di abbandonare alla fine tutte le certezze e di affidarsi a una cosa sola: ai propri poteri di essere consapevole e di rispondere, vale a dire alla propria creatività.[3] Erich Fromm

Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice sì, fin dal suo primo muoversi.[4]Albert Camus

Prologo

Qualche anno fa ho scritto un libro dal titolo, La strada cammina con me[5] nel quale, per prudenza, ho voluto definire i poeti e i loro simili come artigiani creativi. Ora invece mi accingo a raccontare le cose che ho capito, vissuto e studiato con tutta l’imprudenza necessaria e, quindi, parlerò senza pudore degli artisti, di me stesso e del mondo in cui siamo immersi. Per farmi coraggio ho deciso di seguire il consiglio di Fëdor Dostoevskij: «È indispensabile anche riscaldarsi un po’, fustigare talvolta l’avversario, scendere a livello di certi particolari […] Questo conferisce alla pubblicazione […] il tono di assoluta urgenza e necessità.»[6]

Questo libro non è un saggio che offre una trattazione che fonda le sue intenzioni in un atteggiamento pseudo-scientifico, non è una dissertazione di natura accademica o qualcosa di assimilabile ad essa che vuole dare un contributo a una disciplina del pensiero, qualunque essa sia. In queste pagine cerco piuttosto di dichiarare quello che penso sull’artista in un’epoca nella quale è perfino impossibile chiarire chi egli sia. Se si vuole, si può definire questo tentativo come una performance dadaista. Sono certo che molti obietteranno che le posizioni che esprimerò sono superate e che fanno riferimento a idee romantiche travolte dalla storia. Altri penseranno, invece, che in esso è resa visibile la frustrazione dell’autore. Scrivere un libro è sempre un’assunzione di responsabilità ed espone chi lo fa al ridicolo e al ludibrio. È un rischio che sento di dovere correre e che, in fondo, fa parte intrinsecamente di ciò che faccio nella vita, nel mio lavoro.

Mi sono deciso a intraprendere questa sfida perché penso che ogni cosa ha il suo momento ed è arrivato per me quello di essere spregiudicato, fino a rischiare la presunzione. L’artista conosce bene questo cammino perché ogni qual volta si accinge a realizzare un’opera, deve supporre di essere capace di questo compito. In questo senso traccia una linea invisibile – ma profonda come un abisso – fra se stesso e quelli che non possono o non vogliono rischiare quanto lui il fallimento, la derisione, l’indigenza. L’artista è un uomo come tutti gli altri, ma è anche un essere speciale, superiore, uno che mettendo a rischio l’anima è capace di scuotere il cielo e, se gli viene concesso, gli uomini. Nessuno si offenda per l’uso delle parole che ho fatto. L’artista è superiore perché oltrepassa una misura considerata come limite e non per una volontà luciferina di rendere inferiori gli altri, in quanto, per sua natura, non si occupa di azioni volte ad aumentare il proprio potere. Non è da sé che raggiunge la posizione che assume nella comunità. Infatti, in senso materiale, il più della volte egli è umiliato e povero. È sfidando il limite per generosa compromissione con la vita e con i suoi talenti che il suo profilo diviene lucente. Per effetto del dono di sé, fra tutte le creature, è il più vicino al santo. E a queste conclusioni non sono approdato io, ma i mistici[7]. Il fastidio che si prova a riconoscere questa superiorità degli artisti ha radici culturali nella presunzione delle discipline cognitive, dalla teologia alla filosofia. Infatti, nelle università, gli studi artistici, quando non sono del tutto assenti, sono relegati in dipartimenti a cui è attribuita scarsa rilevanza. L’arte viene magnificata nelle culture occidentali in zona museale, dove la pericolosità dell’artista è controllabile, anche perché quando egli vi approda con le proprie opere, il più delle volte è già morto.

Questo libro è un encomio, un risarcimento morale per tutti quelli che non hanno tenuto in conto un eventuale piano B per la vita. Sia bene inteso che rivolgo questa mia attenzione a coloro che hanno talenti veri e non solo vacue ambizioni o velleità, anche se discriminare in modo esatto dentro questa materia è un problema impossibile da risolvere. Sono perfettamente cosciente che non esiste un sistema di misura per rendicontare la grandezza degli artisti. Solo Dio è capace di tanto e quindi lasciamo a Lui il compito nell’aldilà. Nell’aldiquà noi possiamo solo tentare di capire, impegnandoci con tutta la nostra buona volontà. Quello che gli artisti posseggono non si può comprare neanche con tutto l’oro del mondo. Il talento che il cielo ha loro concesso è un privilegio che viene da lassù, quaggiù nessuno lo può dispensare o fabbricare. Quindi si prendano queste pagine soprattutto come idee che traggono la loro linfa dalla mia esperienza particolare. In questo ogni lettore, soprattutto quello in cattiva fede, potrà derubricare ogni scomodo sussulto che avverte alla lettura come si fa con i deliri dei folli. Io non mi offenderò per questo, sono abituato alle diagnosi d’infermità. Ci tengo a precisare però, che ho fatto i conti con le mie frustrazioni da tempo, nelle giuste sedi e non avevo bisogno di un libro per sfogarle. Questo lo dico in piena coscienza senza imporre a nessuno di credermi.

L’elevazione e la base sono state a lungo per me la prospettiva lineare per rifuggire la banalità. Per consumare l’angoscia di non trovare persone come me assetate di relazione. Sulle direttrici che avevo creato per non restare immobile sono diventato un giullare, un trapezista, un acrobata, e alla fine, senza volerlo, ho trovato il piacere mistico del servizio, della dedizione senza compenso.

È il tempo dell’estasi vera, della mistica quotidiana, del tempo carnoso che raggiunge la persona senza merito, nonostante l’impudicizia. Ridotto al silenzio, al dono puro, si capisce meglio il senso dell’Infinito. La transumanza dello spirito ha compiuto il suo giro, ha nutrito di cose adatte al tempo interiore che scandisce la vita in un modo che non siamo in grado di misurare.

Vedo dietro di me le tracce di qualcosa di cui non avevo potuto immaginare l’esistenza. Impronte lasciate dall’esperienza che si è accumulata senza che me ne accorgessi, ingoiando tutto quello che sono stato, le cose che ho avuto dagli amici e dall’amore. Il resto è svanito perché non sapeva di niente. Era quello che dovevo lasciare per arrivare dove sono adesso.

Il tempo e l’eternità sono il terreno in cui mi trovo ora. L’avventura che ho cercato di non smarrire con le scelte irresponsabili di cui sono stato capace è stata travolgente. Sono arrivato qui con la compagnia di molti che hanno avuto verso di me il riguardo che ci voleva, la semplicità che sa raccogliere senza enfasi i doni. I voli di un uomo che rapisce sprazzi divini alla materia informe con le sue carezze. Ci volevano angeli con la loro leggerezza, con la loro allegra eleganza. Per merito di amicizie speciali mi sono salvato, ho compiuto fino in fondo il viaggio attraverso la solitudine senza affogare nell’angoscia, nel canto delle sirene, nell’amarezza.

Ho avuto ciò che bramavo in ogni forma desiderabile ma ho incontrato persone capaci di salvarsi perfino da me. A titolo di esempio dirò che le amiche che ho incontrato sul cammino non sono cadute nell’inganno delle amanti e io non le ho spinte a questo. Qualche volta ho desiderato che lo facessero per sentire tutto mio, per colmare le insicurezze, ma siamo stati – io e loro – preservati dalla stupidità, dalla sottomissione, dall’inganno in cui si può cadere rinforzando oltre misura i legami fino a trasformarli in ossessioni. Ma si può essere superiori a questi richiami dell’istinto, ed io lo sono stato grazie a una tenerezza che in me è riuscita, quando occorreva, a prendere il sopravvento su tutto. Un sentimento naturale che non ho né saputo, né potuto reprimere. Ci sono cose di cui non bisognerebbe mai appropriarsi indebitamente. Una persona nasce con la sua libertà e l’anima si identifica con essa. La libertà è il corpo dell’anima, la sua carne, il suo essere visibile nel mondo.

Quello che è avvenuto è radicato nelle relazioni che hanno rivelato qualcosa che ha a che fare con il mistero della natura umana, col suo essere segno di qualcosa di misteriosamente diverso. Queste relazioni si sono concretizzate su due direttrici: una tutta interna e soggettiva; l’altra con la persona[8] che si è cimentata nei rapporti con il mondo esterno e, soprattutto, con gli altri. Ma l’esito construens, l’effetto generativo, ha potuto rivelarsi in una terza relazione, la più importante: il dialogo incessante e sempre più produttivo fra questi due movimenti. Credo che, senza uno scambio continuo fra queste due dimensioni, senza un versamento di cognizioni ed emozioni, non possa compiersi alcuna evoluzione del sé, né possano progredire le amicizie.

 Questa osmosi definisce e identifica il segno, quel qualcosa di diverso che rende l’uomo parte del cosmo in cui vive e che gli dà forza per amarlo, studiarlo, riconoscerlo dentro e fuori di sé. Questa avventura non si compie una volta per tutte. È insieme un atto della volontà e della memoria, un gesto radicato nel mondo interiore che ha esiti tangibili sulle cose. Si tratta di un cammino ascetico che richiede un profondo e incessante confronto con il presente. Attraverso esso avviene una trasformazione delle radici storiche dell’essere e la sua proiezione nel futuro. Passato e futuro si riescono a riconoscere, in quanto memoria e progettualità, se l’uomo è reso capace di governare l’unico tempo nel quale esiste: l’attimo presente, quel frammento esistenziale fecondato che rende vigili le persone, capaci di ricapitolare l’esperienza. Essere immersi nell’attimo presente, comprenderne la rilevanza esistenziale, sviluppa l’attitudine alla sintesi progettuale, che diventa, nell’estasi creativa, capacità divinatoria, visionarietà, creazione autentica.

È in questa prospettiva che oggi riesco ad afferrare in modo più profondo le parole scritte da Erich Neumann nel 1954: «L’importanza dell’uomo creativo sembra determinata per l’appunto da due fattori: non solo, cioè, egli rappresenta il tipo umano che anticipa il modo di trasformazione più elevato possibile per i nostri tempi, ma il mondo da lui creato costituisce un’immagine adeguata alla realtà primaria, che è unità primaria non ancora rotta dalla coscienza: e questa realtà può farla venire alla luce solo una personalità che, creando, attinga alla sua totalità.»[9]

Neumann aveva già compreso a metà del secolo scorso che qualcosa di fondamentale stava cambiando per l’uomo e per il suo essere al mondo. Aveva compreso, cioè, che il principio creativo vive solo marginalmente in luoghi designati come sacri, e non risponde solo al simbolismo dei canoni culturali.

Il principio creativo agisce nel singolo che può esprimersi ovunque e in qualsiasi momento. Anche nella sua stanzetta. Da questa piena consapevolezza individuale, liberata dalle catene dell’asservimento ideologico, si può finalmente procedere a conquistare l’orizzonte della relazione, che è il luogo più propizio alla creatività. La relazione, l’unità conquistata nel riconoscimento di altri vicino a noi, è un paradigma più forte di quelli che ci lasciamo alle spalle. Chi ne ha fatto esperienza è consapevole di questo.[10]

Per attingere a ciò che può rigenerarci creativamente siamo chiamati ad essere vigili, altrimenti potrebbe capitarci di passare davanti a qualcuno che ha in sé questo dono da farci senza sapergli riconoscere il giusto valore. È per questo che i riti religiosi, le omelie, i comizi, non ci attraggono come un tempo. Dai luoghi dove essi avvengono spesso ha preso il largo il valore. Gli uomini che amministrano i riti sono smarriti, abbarbicati a simboli che hanno perso la loro forza, perché la forza è una dimensione mistica che si rigenera nell’esperienza viva, in una radicale relazione con se stessi e col mondo.

Questa compromissione ha carattere di rivelazione e la prosegue cooperando al suo compimento. Senza di essa il mondo non esiste. Non esiste né in senso percettivo, né soggettivo. Il mondo è ciò che noi siamo capaci di ricreare con l’esperienza dell’esserci dentro con i nostri sussulti. In essi vive un atto indefinibile nel quale l’Essere si rivela all’Esistere. E fu sera e fu mattina della Genesi significa questo: esistono i giorni in quanto in essi si crea qualcosa e dopo, osservando nella stanchezza quanto si è generato, si può anche riposare.


[1] Regista e sceneggiatore. Fondatore e direttore artistico della scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volonté.

[2] Agli studenti dell’Università di Mosca, 18 aprile 1878.

[3] Erich Fromm, Creativity and its Cultivation, Harper & Row, New York, 1959.

[4] Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano, 1998, p.17.

[5] Fernando Muraca, La strada cammina con me, Laruffa, Reggio Calabria, 2016.

[6] Lettera a Nicolaj N. Strachov, Firenze, 10 marzo 1869.

[7] «È l’anima umana, riflesso del Cielo, che l’artista trasfonde nell’opera, e in questa ‘creazione’, frutto del suo genio, l’artista trova una seconda immortalità: la prima in sé – nella sua anima -, come ogni altro uomo nato quaggiù; la seconda nelle sue opere, attraverso le quali si dona nel corso dei tempi all’umanità. L’artista è forse il più vicino al santo. Perché se il santo è tale portento che dona Dio al mondo, l’artista dona, in certo modo, la creatura più bella della terra: L’anima umana.» (Chiara Lubich, Scritti spirituali I, Città Nuova, Roma, 1978, p. 213).

[8] Scrivendo persona intendo, prima di ogni altro, me stesso.

[9] Erich Neumann, L’uomo creativo e la trasformazione, Marsilio, Venezia, 1981, p. 37.

[10] La reciprocità portata alle estreme conseguenze non assume i contorni (tipici in diplomazia) dello scambio bilaterale. Proietta piuttosto in una dimensione nuova dell’incontro umano e culturale. Qualcosa che ha a che fare con il mondo che deve venire. Ma questo argomento, benché cruciale, non è il tema di questo libro. Per approfondirlo  rimando al capitolo La creatività nelle relazioni culturali contenuto nel mio libro La strada cammina con me.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

Acquista qui – Formato KindleCopertina flessibile

I libri di Fernando Muraca