L’autista di Dio

L'autista di Dio - Giada Trebeschi

L’autista di Dio di Giada Trebeschi –

Vincitore del premio Giallo Garda 2017 –
Vincitore del premio Garfagnana in giallo 2018 –

L’autista di Dio è un romanzo giallo di spionaggio basato su fatti veri e costruito su linee parallele in cui hanno un ruolo importante personaggi realmente esistiti come Rodolfo Siviero, il famoso agente segreto, Giorgio Castelfranco, il direttore del Pitti, l’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa e il grande campione Gino Bartali.

Nel 2013 nella casa dei Gurlitt a Monaco, viene ritrovato parte del favoloso tesoro d’opere d’arte degenerata requisite dai nazisti. Fra queste, c’è una tela di De Chirico e l’unica in grado di autenticare il quadro è la bolognese Alba Naddi, consulente esterna dei carabinieri del nucleo per la tutela del patrimonio culturale. Un giorno uno dei possibili eredi contatta Alba informandola d’aver recentemente trovato un diario in cui vi sono indizi utili per rintracciare i legittimi proprietari. Il diario è destabilizzante, Alba si ritroverà a rischiare la vita a causa di un segreto vecchio di 75 anni e scoprirà la storia del temerario pilota Angelo Tiraboschi, sospettato di traffici illeciti e dell’omicidio di un imprenditore dell’acciaio. Su Tiraboschi investigano congiuntamente l’Ovra e la Gestapo in un gioco di specchi dove nulla è come sembra, dove molte sono le spie e dove la bellezza dell’arte si mischia a quella delle spettacolari automobili che partecipano alla Milla Miglia del 1938.
I nodi di quanto accadde in quel lontano 1938 verranno sciolti da Alba nel 2013 ma per farlo sarà necessario addentrarsi nelle viscere del periodo fascista, dove il confine fra giusto e sbagliato è quasi invisibile e tutti hanno qualcosa da nascondere.

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L’autista di Dio:

I

Giovedì 31 ottobre 2013
Via dell’Inferno, Bologna
Ore 23:10

Il suo ultimo amante abitava dietro a piazza San Martino e quella sera Alba Naddi, una delle galleriste più note di Bologna, era andata a trovarlo.
Di nascosto.
Era solo un amante, uno dei tanti, e dirlo in giro le sembrava altrettanto ridicolo quanto affiggere un manifesto alla porta della galleria ogni volta che vendeva un quadro
Per l’ennesima volta e sperava anche quella definitiva, da poco più di sei mesi aveva troncato la claustrofobica relazione con il tenente dei carabinieri del gruppo d’intervento speciale Tommaso Grifalco e non aveva per il momento nessuna intenzione di farsi vedere con un altro uomo.
Non ancora almeno.
I due si erano conosciuti cinque anni prima, d’estate, sul treno Bologna-Livorno. Alba stava andando da una sua amica al mare, a Cecina, mentre Tommaso rientrava al comando da una missione speciale in chissà quale parte del mondo certamente dimenticata da Dio ma, purtroppo, non dagli uomini.
Quando raccontavano agli amici che la loro storia era cominciata sul treno, i due intendevano la cosa letteralmente, perché proprio su quel treno, spinti da un desiderio violento e incontrollabile, avevano fatto l’amore. La relazione era andata avanti fra momenti di estasi e tormenti infernali, in un susseguirsi di alti e bassi continui, in una situazione sentimentale che sfuggiva al loro controllo e li lasciava stremati.
L’amore non avrebbe dovuto essere così faticoso.
Si amavano, di questo Alba era certa, ma la loro inquietudine, lo spirito ribelle di lei e la gelosia malata di lui li stavano spingendo alla dannazione. Eppure Tommaso era l’unico uomo dal quale Alba avesse mai desiderato avere figli.
Quando glielo aveva detto, anzi no, solo accennato, lui aveva reagito con durezza, ai limiti della brutalità: non voleva legami definitivi, e soprattutto non poteva permettersi una famiglia. Una moglie gli avrebbe ipotecato il futuro, mentre lui viveva nel presente, consapevole che ogni volta che partiva per una missione aveva molte probabilità di non tornare vivo. Purtroppo però, a dispetto di quella rude sincerità, Tommaso continuava a chiamarla, a cercarla e a ritenerla la sua donna.
O perlomeno una delle sue donne, sospettava Alba.
Si erano lasciati e ripresi centinaia di volte, si amavano e si facevano del male, lui la respingeva e poi si ripresentava bruciato da una gelosia intollerabile, lei lo cacciava via, lontano, per poi cedere non appena lui tornava a guardarla.
Quella sera, dopo aver chiuso la sua Galleria d’Arte in San Vitale, per placare quell’irrequietezza che le masticava i pensieri o meglio, per tentare di anestetizzarla almeno per qualche ora, Alba aveva chiamato il giovane architetto pugliese che la stava aiutando nella ristrutturazione di casa e gli si era infilata nel letto. Non che lui avesse avuto nulla in contrario, anzi l’aveva accolta persino con più slancio di quanto si aspettasse.
Durante la serata si era ampiamente servita quello che desiderava, adesso però voleva tornarsene a casa sua. Così, mentre il suo amante dormiva si era rivestita ed era uscita senza fare rumore incamminandosi verso via San Vitale.
Aveva lasciato la macchina nel cortile interno del palazzo che ospitava la Galleria d’Arte, per tornare a prenderla non ci avrebbe messo più di dieci minuti. Si infilò sotto il portico che portava verso la piazzetta intitolata a Marco Biagi, il giuslavorista assassinato nel 2002 dalle nuove Brigate Rosse, dirigendosi poi a passo sicuro verso via dell’Inferno.
Era piuttosto freddo ormai e Alba si strinse nella striminzita giacca di pelle che indossava sopra a un paio di jeans aderenti e una camicia dal taglio maschile. Camminava velocemente e sovrappensiero ascoltando distrattamente il ticchettio dei suoi stiletti quando, in via dell’Inferno, ebbe la netta sensazione di essere seguita.
Si fermò un momento e si guardò attorno senza però scorgere nessuno.
Se fosse stata ancora insieme a Tommaso avrebbe pensato subito a lui, ma Grifalco era probabilmente dall’altra parte del mondo impegnato a combattere i terroristi e non a controllare lei. Non quella volta almeno.
Riprese a camminare e lo fece a passo sostenuto.
Di nuovo ebbe l’impressione che delle ombre si muovessero dietro di lei.
«Chi è? Chi c’è lì? Tommaso, sei tu?» chiese ascoltando la propria voce spegnersi sui sampietrini deserti.
Il respiro accelerò così come i battiti del cuore.
Se solo fosse stata in macchina avrebbe saputo cosa fare. Alba era stata una pilota di rally piuttosto brava e quando si trovava al volante, riusciva a compensare le sue insicurezze, le sue paure come se percepisse in modo alterato i confini del suo corpo e delle sue possibilità. Ora però non era in macchina e la paura cominciava a farsi sentire.
«Tommaso non farmi stupidi scherzi. Vieni fuori che tanto lo so che sei tu» disse con un tono deciso che non tradiva l’agitazione che la rimescolava da dentro.
Nessuno rispose.
Se fosse stato Grifalco a quel punto si sarebbe manifestato.
Alba si guardò intorno cercando nella borsetta il tirapugni che portava sempre con sé fin dai tempi dell’università e riprese a camminare veloce, a correre quasi.
Correva nel cuore del ghetto dove settant’anni prima altri passi, altre corse e altre paure avevano riempito quel labirinto di stradine con pochi portici ma con molti passaggi sopraelevati che mettevano in comunicazione le diverse abitazioni. Per chi come Alba ne conosceva i segreti, i passaggi nascosti, le false entrate e i molti cancelli, quel dedalo di viuzze poteva significare la salvezza, anche se cominciava a temere che non le sarebbe servito a nulla, così come non era servito ai molti ebrei bolognesi rastrellati nel ghetto e deportati dai nazifascisti.
Ma a che diavolo stava pensando? Doveva star calma senza lasciarsi suggestionare dal luogo in cui si trovava e poi, di che cosa aveva paura? Di una sensazione? E comunque avrebbe presto incontrato qualcuno cui chiedere aiuto nel caso ne avesse avuto bisogno. Bologna non era mai deserta nemmeno di notte, era un caso che in quel momento non ci fosse nessuno, solo un caso. Girò per via de’ Giudei e incrociò un gruppo di Punkabbestia con i loro cani, non erano proprio rassicuranti ma erano già qualcosa.
Ancora qualche passo e sentì dei mugugni alle sue spalle, poi delle ombre ammantate di nero l’accerchiarono mettendosi a urlare.
Erano in sette, forse otto.
Sette o otto ragazzotti mezzi ubriachi, in costume da vampiro completo di mantellaccio e denti finti che le urlavano «dolcetto o scherzetto» rotolandosi dal ridere per essere riusciti a spaventarla in quel modo.
Scoppiò in una risata liberatoria e accettò volentieri la birra che le offrirono per festeggiare Halloween.
Dovette ammetterlo, era stato uno scherzo ben riuscito.
Che stupida che era stata. Si era lasciata suggestionare dalle vecchie storie rimaste appiccicate ai muri del ghetto cibando le sue paure.
Quando, finalmente arrivò alla macchina e sentì il motore della sua Aston Martin DB9, smise di pensare a certe sciocchezze, di avere paura, di sentire la mancanza di Tommaso o di desiderare le mani di un uomo addosso. Certe macchine erano innegabilmente terapeutiche.
Percorse Strada Maggiore senza quasi accorgersene e si ritrovò sui viali. Sorrise ripensando allo stupido scherzo che le avevano fatto e capì che era riuscito così bene non solo perché via dell’Inferno si trovava proprio nel cuore dell’antico ghetto ma soprattutto perché, da qualche giorno, era impegnata nello studio delle requisizioni d’arte perpetrate dai nazifascisti.
A Monaco di Baviera erano state ritrovate 1.406 opere d’arte dal valore inestimabile confiscate a un certo Cornelius Gurlitt in un appartamento del centro cittadino. Per non compromettere le indagini e mettere al sicuro le opere, la notizia era stata resa nota dal settimanale Focus quasi tre anni dopo il ritrovamento, ma si continuava a indagare sulla provenienza e la proprietà dei quadri. Alba avrebbe fatto parte della squadra di esperti che ancora lavoravano al caso.
A quanto pareva, il padre di Cornelius, Hildebrand Gurlitt, che era un mercante d’arte, durante il periodo nazista aveva dovuto lasciare la direzione del museo di Zwickau in Sassonia poiché sua nonna paterna era ebrea. L’uomo aveva però continuato a lavorare per il regime protetto personalmente dal ministro della propaganda Göbbels. Gurlitt vantava, infatti, ottimi contatti all’estero dove si poteva vendere quell’arte contemporanea che Hitler riteneva degenerata. Arte proibita e considerata sovversiva in Germania ma che poteva fruttare vere fortune se venduta fuori dal paese.
Dopo la fine della guerra quelle opere, insieme a molte altre, erano state dichiarate perdute o distrutte nel bombardamento di Dresda. Invece i quadri erano stati nascosti dai Gurlitt, e Cornelius aveva vissuto vendendo tele della sua collezione nell’arco di cinquant’anni, con grande prudenza e sempre con il contagocce, così da non attirare l’attenzione. L’ultima di quelle vendite era stata quella de Il domatore di leoni di Max Beckmann per 725 mila euro, battuti all’asta da Lempertz a Colonia.
Probabilmente alcune di quelle opere erano state regolarmente acquistate da Hildebrand Gurlitt, ma la maggior parte proveniva dalle confische del regime nazista compiute nei musei dei paesi occupati o sottratte a famiglie e collezionisti ebrei prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. L’aspetto più inverosimile della vicenda stava nel fatto che Gurlitt figlio aveva sempre venduto i quadri in maniera del tutto legale, attraverso case d’asta, e che per l’ultimo, quello di Beckmann, che aveva dichiarato di aver ereditato dalla madre, erano addirittura state fatte scrupolose ricerche. La casa d’aste Lempertz aveva persino trovato gli eredi del precedente proprietario con i quali Gurlitt si era accordato, versando loro 325.000 euro dei 725.000 ottenuti.
Alba sapeva bene che fra le opere ritrovate a casa di Gurlitt vi erano alcuni dei dipinti che erano stati esposti a Monaco nel luglio 1937 alla mostra di Arte degenerata, cioè quell’arte facente parte di correnti come il cubismo, l’espressionismo, il fauvismo o il surrealismo, che il Führer riteneva avesse caratteristiche devianti. Fra le opere ritrovate, alcuni lavori di Franz Marc, Otto Dix, Max Beckmann, Klee, Mondrian e Kokoschka e, inaspettatamente, anche un De Chirico per il quale era stata richiesta proprio l’expertise di Alba.

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II

Giovedì, 3 marzo 1938
Lumezzane (Brescia)
Funerale di Giovan Battista Negri
Ore 11:00

La bambina avrebbe dovuto raggiungere le sue compagne per seguire il feretro all’uscita della chiesa ma non riusciva a staccare lo sguardo dal viso dell’uomo. Non aveva ascoltato quello che aveva detto il prete, non aveva pregato per l’anima del morto, limitandosi a muovere le labbra; se ne stava lì, ferma accanto ai suoi genitori, dimentica persino della sua bella uniforme da piccola italiana con il berretto in maglia di seta nera e le scarpette con il laccio abbottonato di cui andava tanto fiera.
Sua madre possedeva un prezioso pendente d’opale che metteva nelle occasioni importanti, una pietra dal colore indefinibile, iridescente e screziato, di un verde ghiaccio che non avrebbe mai creduto di poter vedere negli occhi di un uomo. Era così assorta nella contemplazione di quegli occhi che, se non fosse stato per la spinta leggera che le aveva dato suo padre per indirizzarla verso le compagne, non si sarebbe nemmeno accorta che stavano già portando fuori la bara.
Gli occhi d’opale la guardarono un momento e le sorrisero. Forse l’uomo si era accorto di essere osservato o forse aveva notato la ragazzina che non si era ancora mossa per andare a formare il corteo, non avrebbe potuto dirlo, ma si sentì colta in flagrante e, mentre si muoveva maldestramente verso le amiche, era arrossita fino alle orecchie.
C’era l’intero paese al funerale di Giovan Battista Negri e almeno un centinaio di persone, per lo più industriali e notabili, erano arrivate da Brescia e da Milano. Lo stimato imprenditore dell’acciaio, tesserato del partito fascista, era stato brutalmente assassinato a casa sua due sere prima e circolava voce che fosse stato vittima di una vendetta da parte di alcuni sovversivi della zona.
Negri era un uomo importante, un bravo fascista a quanto pareva; la sua fabbrica dava lavoro a quasi tutta Lumezzane. Il suo acciaio finiva nei cantieri di mezza Italia, nelle stufe di ghisa, nelle armi di Beretta e in molto altro ancora. Era una perdita enorme per la comunità e in molti confidavano che la figlia più grande, Anna, avrebbe avuto il buon senso di sposare qualcuno in grado di portare avanti gli affari del padre: la signorina Negri non avrebbe dovuto permettere, in quei tempi difficili, che la fabbrica andasse in malora affamando l’intero paese.
La bara era stata portata a braccia dagli amici e dai parenti più stretti del defunto, fra cui spiccava il conte Aymo Maggi, e poi sistemata sulla carrozza funeraria trainata da sei cavalli neri. Raramente si erano viste da quelle parti esequie tanto sontuose. C’era persino un fotografo chiamato apposta da Salò a occuparsi dell’album in ricordo del funerale, com’era d’uso nelle famiglie più importanti e certamente più di uno scatto sarebbe  finito sui  giornali.
Quando i cavalli si avviarono, cominciò a muoversi anche quell’impressionante processione. Dietro al feretro le due figlie, Anna e Lidia, la sorella del morto Elisa, con la figlia Lia, il marito Francesco Rota e il podestà di Brescia, Pietro Bersi, insieme alle più alte autorità della zona, i rappresentanti del corpo degli agenti di pubblica sicurezza, la banda del paese, i bambini e i ragazzi dell’Opera Nazionale Balilla in fila per sei e poi, a seguire, tutti gli altri.
L’uomo dagli occhi d’opale, che non era passato inosservato ai più, si era accodato alla processione mantenendo un silenzio contrito. Nessuno aveva osato avvicinarlo; si bisbigliava che si trattasse di uno degli amici nazisti di Negri perché, almeno su un punto non potevano esserci dubbi, lo sconosciuto era tedesco.
La sua altezza, che doveva superare il metro e novanta, la pelle lattea e i capelli di un biondo aureo, per non parlare di quegli occhi sorprendenti, avrebbero fatto vincere a chiunque la scommessa: si trattava di un ariano di purissima razza nordica.
I pochi che si attardarono nel cimitero ne ebbero la conferma quando finalmente lo sentirono parlare. Si era avvicinato alle sorelle Negri per porgere le sue condoglianze e lo aveva fatto in un buon italiano, appena sporcato da inconfondibili suoni gutturali. Insieme ai parenti del morto e a pochi altri, aveva atteso che la bara fosse deposta nella tomba di famiglia, poi si era allontanato di buon passo con Egidio Fioravanti, il commissario a capo degli agenti di pubblica sicurezza di Brescia, incaricati di seguire il caso.
Da quando, solo due giorni prima, aveva trovato il corpo del padre in salotto e Lidia chiusa in un armadio, tremante, con gli abiti laceri e sporca di sangue, Anna Negri si trovava in uno stato di veglia forzata. Era come se il corpo e la mente si fossero scissi e, mentre l’uno pregava, stringeva mani, supportava la sorella, l’altra continuava a rivedere la scena del delitto, a domandarsi chi e perché, a osservare, con una lucidità che non si riconosceva, le persone che le erano attorno alla ricerca di un possibile assassino.
Quando il tedesco si era avvicinato per porgere le sue condoglianze era rimasta colpita come tutti dall’indubbia prestanza dell’uomo, eppure quel pensiero non la sfiorò che un istante mentre l’accento le suggerì che doveva trattarsi di uno degli industriali tedeschi con cui il padre era in affari. Non mancò di notare che era arrivato con Fioravanti, il commissario che le aveva giurato di catturare i responsabili di quel barbaro assassinio. Chissà, forse lo avrebbe dovuto interrogare sui suoi rapporti con Negri, forse… Non riuscì a concludere quel pensiero perché sua sorella svenne. Era aggrappata al suo braccio e il mancamento fu così improvviso che per poco non caddero entrambe. Fortunatamente, sua zia Elisa Negri e il conte Maggi le sorressero e aiutarono Lidia a sedersi sui gradini d’entrata del mausoleo di famiglia.
Lidia aveva solo sedici anni, ma quel corpo minuto ripiegato su se stesso, le mani sottili, i capelli raccolti dietro la nuca e il pallore cinereo sottolineato da due occhiaie profonde la rendevano più simile a chi sta per oltrepassare la soglia dell’ombra che a una giovane donna appena entrata nel pieno della vita.
«Prima la mamma e adesso anche papà. Quando toccherà a me promettimi che mi seppellirai con loro», sussurrò quando riprese i sensi.
«Non dire sciocchezze, Lidia. Non voglio sentirti parlare così. E poi sono più vecchia di te. Sarai tu a doverti occupare del mio di funerale.»
«Promettimelo, Anna.»
«Prometto, prometto. Ma adesso torniamo a casa, non ne posso più di stringere mani» tagliò corto Anna, facendo cenno al cugino di andare a prendere la macchina.
Lidia non sarebbe riuscita a sopportare oltre e forse nemmeno Anna. Avevano faticato a far entrare la bara nel loculo quasi suo padre non ne volesse sapere di finire in quel buco e adesso lo avrebbero murato lì dentro, per sempre.
Anna fece alzare Lidia e guardò sua zia Elisa che capì senza bisogno di parole. Ci avrebbe pensato lei a restare in rappresentanza della famiglia fino alla fine della tumulazione. Si sarebbero ritrovate a casa.
Non ci misero molto ad arrivare all’uscita del cimitero dove Aymo le stava aspettando, eppure ad Anna parve un’eternità. Lidia non parlava, non piangeva, si lasciava condurre come un automa, priva di volontà, leggera come una foglia spostata dal vento. Il capo chino, gli occhi fissi a terra, Anna, guardandola, non vedeva più la meravigliosa ragazza che era stata, ma soltanto la creatura terrorizzata che aveva ritrovato nell’armadio.
Non riusciva a togliersi dagli occhi quel momento terribile. Il corpo senza vita di suo padre straziato dalle torture, quegli occhi sbarrati che ancora conservavano l’orrore cui erano stati costretti ad assistere l’avevano sconvolta; tuttavia non era niente a confronto di ciò che aveva provato quando, finalmente, aveva trovato sua sorella nascosta tra i cappotti appesi, gli abiti a brandelli, senza scarpe, muta, i capelli appiccicati sul volto e i seni scoperti. L’avevano picchiata, stuprata, forse in più d’uno e lo avevano fatto davanti agli occhi impotenti di suo padre. Il medico che aveva visitato Lidia ed esaminato il corpo di Negri aveva affermato che presumibilmente l’uomo era morto d’infarto in seguito alle torture subite. Invece Anna non aveva dubbi: il cuore di Giovan Battista si era fermato vedendo quello che stavano facendo alla sua bambina.
Un tarlo le mangiava il cervello chiedendole senza sosta perché. Perché? Anna non riusciva a farsene una ragione. Non era in grado di razionalizzare quell’evento e brancolava nel buio, nessun lumicino a rischiarare le tenebre. Giovan Battista Negri era un uomo per bene, non aveva nemici, o quantomeno non di quelli che avrebbero potuto commettere un tale crimine: dava lavoro a un’intera comunità, era un industriale conosciuto e apprezzato, aveva la tessera del partito e finanziava molte attività benefiche. Inoltre, da quando era rimasto vedovo, viveva per le sue figlie, il lavoro e per la sua grande passione: le automobili.
Almeno era questa l’immagine che ne aveva Anna.
Ma a volte il bianco è nero e il nero è bianco e non tutto è ciò che sembra.
Doveva esserci qualcosa di sconosciuto nella vita dell’uomo che aveva fatto arrivare i suoi nemici a quel punto. Anna non aveva idea di dove cominciare a cercare. Non possedeva appigli, eppure non si sarebbe data per vinta, avrebbe trovato gli aguzzini di sua sorella e gli assassini di suo padre e gliel’avrebbe fatta pagare. Qualsiasi fosse la verità e a qualsiasi costo.
Aymo le stava aspettando davanti al cimitero con la portiera della macchina già aperta. Avevano aiutato Lidia a sistemarsi sul sedile posteriore e Anna le si era seduta accanto stringendole le mani. Arrivati a casa la costrinse a bere un po’ di brodo caldo, poi l’avrebbe aiutata a mettersi a letto e sarebbe rimasta con lei fino a quando non si fosse addormentata, pregando che sua sorella potesse dormire un sonno pesante e senza incubi.
«Concediti ancora qualche giorno, Anna, ma sai che ti aspetta una decisione. Ti devi occupare del futuro della fabbrica» disse Aymo aiutando Lidia a sedersi alla tavola apparecchiata per uno.
«Lo so. Non preoccuparti, farò il mio dovere.»
«Sai che puoi contare sul mio aiuto. In un certo senso sono un imprenditore anch’io, e ho conoscenze che potrebbero tornarti utili.»
«Grazie, Aymo. Per tutto» rispose Anna sedendosi accanto alla sorella che non sembrava essere in grado nemmeno di portarsi il cucchiaio alla bocca.
Aymo guardò le due donne senza riuscire ad aggiungere altro. Si avviò verso il salotto grande dove, di lì a poco, avrebbe aiutato Anna a ricevere le visite di condoglianza. Passando accanto all’armadio in cui si era rifugiata Lidia in quella tragica notte, si rese conto di quanto insopportabile fosse il macigno che gli pesava sul petto.
Anna lo guardò allontanarsi a passo leggero, quasi avesse paura di disturbarle facendo rumore. Quell’uomo aveva un animo nobile e voleva davvero bene alla sua famiglia; su di lui avrebbero sempre potuto contare.
In realtà, la parentela era nata dal desiderio comune di Aymo e Giovan Battista Negri i quali, nonostante i quasi vent’anni di differenza, da quando si erano conosciuti si erano trovati talmente affini da sentirsi imparentati. Così, un po’ per gioco e un po’ per esprimere la loro reciproca ammirazione, avevano preso a chiamarsi cugino e nessuno aveva mai dubitato che lo fossero davvero.
Il conte Aymo Maggi discendeva da un’antica famiglia dell’aristocrazia bresciana e, appassionato di automobili fin da piccolissimo, aveva partecipato alla sua prima competizione che non aveva ancora diciannove anni. Aveva conosciuto Negri ai tempi delle folli gare di velocità che, insieme al suo più caro amico, il conte Franco Mazzotti, intraprendeva contro il treno che percorreva la tratta da Brescia a Milano. Anche Negri era un appassionato d’automobilismo e, sebbene non fosse un pilota altrettanto spericolato, si difendeva bene. Così, quando Aymo, insieme a Mazzotti, nel 1927, aveva inventato la Mille Miglia, l’industriale non era mai mancato a quell’appuntamento che sosteneva e contribuiva a finanziare. Anche quell’anno, se non fosse stato barbaramente ucciso, avrebbe partecipato alla competizione che si sarebbe tenuta da lì a un mese esatto. Sarebbe stata una gara particolare quella, forse l’ultima per Negri, che cominciava a sentire il peso degli anni, ma indimenticabile, giacché aveva deciso di correrla insieme alla figlia maggiore.
«Ti prego, sorbiscine un altro po’» implorò Anna porgendo a Lidia un altro cucchiaio di brodo e cercando di accantonare il ricordo di suo padre che le insegnava a guidare.
Lidia scostò il viso.
«Vieni, ti accompagno in camera tua» le disse allora con dolcezza.
Lidia la seguì di sopra come una bambola rotta; lasciò che la sorella l’aiutasse a svestirsi e crollò sul letto prostrata. Anna chiuse le persiane e si sedette accanto a lei, rimanendovi fino a quando le sembrò che dormisse.
In fondo alle scale incontrò Rita, la governante: stava venendo a informarla che nel salone si erano radunate già molte persone per porgerle le condoglianze; con loro, a fare gli onori di casa, c’era il conte Aymo e sua zia Elisa con il marito e la figlia appena rientrati dal cimitero.
Anna non aveva voglia di vedere nessuno.
Avrebbe voluto soltanto rifugiarsi nella grande orangerie che suo padre aveva trasformato in garage, e restare in compagnia del suo ricordo fra quel metallo scintillante che lo aveva reso così felice. E chissà, forse sentendo l’odore familiare dei motori sarebbe persino riuscita a piangere. Ma non poteva farlo, non ancora. Prima l’attendevano i doveri del lutto.
Mentre faceva i pochi passi che la dividevano dal salone pensò che ne aveva già avuto abbastanza con la veglia. Erano venuti parenti e amici, conoscenti e curiosi che volevano vedere com’era un morto ammazzato. Con l’aiuto di Rita e di sua zia Elisa avevano ricomposto e adagiato il corpo del padre sul letto, lo avevano vestito con uno dei suoi impeccabili completi, gli avevano incrociato le mani sul petto, messo fra le dita un rosario, avevano acceso una grossa candela e oscurato gli specchi. Poi, insieme a una moltitudine di cui non ricordava quasi nessuno, lo avevano vegliato e avevano pregato e ancora vegliato perché gli spiriti maligni non cercassero di afferrarne l’anima. Che sciocchezza, aveva pensato Anna mentre recitava l’ennesimo Pater. Avrebbero dovuto essere lì la notte in cui lo avevano assassinato, avrebbero dovuto proteggerlo dai vivi piuttosto che dagli spiriti dei morti!
Il dolore le aveva indurito il cuore, ma quando entrò nel salone rimase profondamente turbata nel vedere gli operai di suo padre. Uomini grandi e grossi, con il cappello in mano e il capo chino, che non riuscivano a trattenere la commozione: c’era chi si asciugava una lacrima di soppiatto e chi, con gli occhi rossi, tormentava tra le mani nodose un fazzoletto. Tutti portavano all’occhiello della giacca un rametto di forsizia, che in quel periodo dell’anno fioriva proprio accanto al cancello d’entrata dell’acciaieria e tutti volevano stringere la mano di Anna per esprimere il proprio cordoglio. Non erano bravi con le parole, ma il calore di quel gesto, la sincerità del dolore che provavano, stampata sulle facce, le sciolse le lacrime.
Suo padre era stato un uomo importante, rispettato, amato persino e ora, quei rituali che in fondo all’anima aveva irriso e fino ad allora sopportato con mal celata rassegnazione, le sembravano l’unico modo possibile per sostenere il lutto. La veglia, le esequie, la visita a casa, i biglietti di cordoglio di chi era lontano, lo aveva finalmente capito, non erano solo per ricordare e omaggiare il morto, ma servivano soprattutto per sostenere i vivi che aveva abbandonato.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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