La scelta di Planté

La scelta di Plante - Franco Monero

La scelta di Planté di Franco Monero –
Un giallo parigino che vi trascinerà nell’ombra senza possibilità di riuscire a resisterle.

Luci e ombre che si contrappongono nell’atmosfera parigina degli anni del boom economico, luci e ombre che si affrontano nello scontro quotidiano della vita; luci che abbagliano e ombre che salgono in superficie destabilizzando l’opinione pubblica. Nel mezzo, il commissario Planté che si trova in bilico ad affrontare l’orrore collettivo generato da alcune misteriose sparizioni di bambini e lo sgomento per gli attacchi diretti e violenti rivolti al corpo di polizia.

Tutti gli agenti della città sono in allerta ma girano, agiscono e si muovono a vuoto, ostaggi bendati di un caso che sembra impossibile da risolvere fino al momento in cui Planté non comprende che l’unica soluzione possibile è usare l’ombra, la stessa nella quale si nasconde il nemico, a proprio vantaggio.

Planté non esita e si cala nelle profondità di quell’abisso oscuro. Resterà intrappolato nel buio o riuscirà a risalire a riveder la luce?

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La scelta di Planté:

I

31 dicembre 1958

La voce di Edith Piaf si spandeva nell’aria stantia di casa, mescolandosi ai cattivi pensieri che affollavano la mente di Julien, alle paure e al dolore insostenibile che portava nel cuore. Fuori, spinte dal vento gelido di nord-ovest, le nuvole color petrolio avevano ormai coperto gran parte del cielo di Parigi. Si muovevano in fretta, roteando e aggrovigliandosi fino a formare un corpo unico e irregolare.

Dopo qualche minuto Julien alzò finalmente lo sguardo dal pavimento. Sentiva la testa pesante, gli occhi gonfi e le labbra asciutte. Respirò. Aveva poca voglia di vivere e cercava di liberarsi dal senso di oppressione che gli comprimeva il petto. Non aveva idea di che ore fossero o di quanto tempo fosse passato da quando era rientrato a casa e si era lasciato cadere sulla poltrona, ma il suo stomaco brontolava. Avrebbe dovuto preparare qualcosa da mettere sotto i denti, ma non quella sera, la notte di Capodanno.

Nei mesi successivi alla tragedia che aveva colpito la sua famiglia, aveva provato a farsi aiutare, ma nessuno dei medici a cui si era rivolto aveva capito davvero quanto fosse grande e insuperabile il suo supplizio. Lo avevano riempito di farmaci e frasi di circostanza, come se quello potesse bastare a farlo dimenticare. A dargli la forza di riprendere a vivere, a lavorare. Presto aveva abbandonato le medicine e ripudiato gli psicanalisti che lo avevano in cura, iniziando a bere e a pensare a come vendicare la morte di sua moglie e di sua figlia.

Chiuse gli occhi sulle ultime note della canzone. La puntina del giradischi continuò a grattare sul disco in vinile anche quando la musica era scemata fino a svanire, riportando il silenzio nella stanza.

Il buio, per lui, era un luogo sicuro. Al buio si sentiva sereno. Solo lì poteva rivedere Madeleine che ogni mattina lo salutava dalla finestra di casa, quando lui andava al lavoro.  E assaporare i baci e le carezze di Jeannette nei pochi momenti in cui erano soli.

Al buio, Julien si sentiva ancora vivo.

Il commissario Planté afferrò la tazza di tè, ci soffiò sopra e la portò alla bocca. Il tempo di toccare le labbra e la ritrasse: era caldissima. La febbre lo aveva costretto a rimanere chiuso in casa anche quella sera. Si rimproverò di aver aspettato troppo a spegnere il fuoco sotto al bollitore e di essersi perso ricordando il passato.

Aspettando che si raffreddasse, ripose la tazza sul lavello della cucina e andò alla finestra. In quell’attimo un brivido lo fece tremare. La febbre era ancora alta e il malessere gli impediva di prendere sonno e riposare. Fiaccamente voltò lo sguardo verso la pendola. Mancava ormai poco al brindisi di mezzanotte, ma a lui non importava del Capodanno. Desiderava solamente chiudere gli occhi e riuscire a riposare.

La giornata al 36 del Quai des Orfèvres era passata piuttosto tranquilla, a parte qualche chiamata per piccoli furti avvenuti perlopiù in periferia ai danni di sprovveduti turisti, e lui si era limitato a battere con la Lettera 22 vecchi rapporti lasciati in sospeso e a impartire ordini ai collaboratori presenti al lavoro.

Guardò fuori. Parigi, vista dall’alto della collina di Montmartre, appariva come un gigantesco quadro su cui il pittore si era sbizzarrito a inserire i più stravaganti colori. Ricordò la prima volta che aveva visto Christine, la donna che qualche anno dopo sarebbe diventata sua moglie e madre della loro bambina. Ricordò lucidamente la sera del loro primo incontro, poco più di cinque anni prima. Quegli sguardi scambiati di nascosto, mentre lei scendeva dalla lussuosa auto di Juan Pablo Fuentes per partecipare, al fianco dell’anziano armatore spagnolo, alla cena di gala offerta dal sindaco di Parigi. Christine aveva infilato il proprio corpo statuario in un abito turchese, stretto, lungo fino a terra, che ne evidenziava le grazie e lo charme. Era meravigliosa. Perfetta. Tutti i presenti, nel vederla salire le scale de l’Hôtel de Ville, erano rimasti a bocca aperta, smaniosi di poterla avere presto al loro fianco. E soprattutto nel loro letto. Christine, infatti, era una prostituta d’alto borgo che gli uomini più facoltosi di Parigi, e non solo, si contendevano a suon di franchi e costosissimi regali. Planté sapeva che per anni Christine aveva fatto credere a tutti di essere felice e che quella fosse la vita che voleva.

Fino all’incontro con lui, presente alla serata come ispettore di polizia. Si era subito innamorato di quella donna sensuale e dagli occhi malinconici. Nei giorni seguenti, non era riuscito a dimenticarla: l’aveva cercata, inseguita, amata.

Per Julien era impossibile dimenticare, perdonare e riprendere in mano la propria vita. Quante volte aveva desiderato morire come in quel momento? Una volta raggiunto il cielo avrebbe riabbracciato le donne della sua vita. Sarebbero tornati insieme. Tutti e tre. Per l’eternità.

Il gracchiare della puntina lo riportò prepotentemente alla realtà, costringendolo ad aprire gli occhi. Era solo. Maledettamente solo. Così, mentre tutto riprendeva forma e colore, tornò a pensare unicamente alla vendetta. Allungò la mano e alzò la levetta, ponendo fine all’insopportabile ronzio. L’ascoltava ogni giorno La vie en rose, una canzone scritta dalla stessa Edith Piaf qualche anno prima, dedicata a chi crede in un futuro migliore. Jeannette la ascoltava tutte le mattine al risveglio, sorridendo alla vita.

Subito dopo la tragedia Julien aveva distrutto il giradischi che lui stesso aveva comprato per l’anniversario di nozze, cercando di fuggire allo strazio che quelle note provocavano. Poi aveva capito che quella canzone e il ricordo di Jeannette e Madeleine erano strumenti necessari per riuscire a vendicarsi. Così, girovagando per Parigi, si era imbattuto nella vetrina di un negozio che aveva messo in vendita una vecchia radio valvolare con giradischi Eraux France del 1950. E aveva iniziato a riascoltarla.

Aveva scelto proprio quel giorno particolare per agire: Capodanno. Un giorno di festa, come quella volta, anni prima, in cui il suo destino cambiò per sempre.

Fermo alla finestra affacciata su rue des Saules, il commissario Planté scrollò la testa accompagnato nella sua insonnia dall’ansiogeno ticchettio dell’orologio. Respirò faticosamente come se un peso sul torace gli togliesse il fiato e le forze residue. Non abbastanza, tuttavia, da consentirgli di chiudere gli occhi e raggiungere nel mondo dei sogni Christine e la piccola Sophie.

Tornò al lavello e riprese la tazza. Il tè si era finalmente intiepidito e lo sorseggiò, gustandone l’aroma dolciastro e delicato. Poi camminò per la soffitta in punta di piedi, e senza rendersene conto, si ritrovò fermo sull’uscio della camera da letto a osservare le sue donne unite amorevolmente in un sonno profondo. Entrambe avevano la pelle chiara, quasi trasparente, i capelli d’oro, sparsi disordinatamente sul cuscino e lineamenti raffinati, privi di difetti. Parevano due angeli del Signore scesi in terra per riportare la pace nel suo cuore, sempre in bilico tra il bene e il male, tra il passato e il presente. Si domandò cosa mai avesse fatto nella vita per meritarsi quella fortuna.

Planté chiuse gli occhi e la sua mente lo riportò all’ultimo Capodanno passato con i genitori, alla gioia per l’attesa, a quella voglia di nuovo che si ripeteva ogni anno.

«Pierre, hai messo al fresco la bottiglia di Moët & Chandon che ho portato stamattina?» aveva domandato mentre sua madre, chiusa in cucina fin dalle prime ore della giornata, terminava di preparare la cena e di imbandire la tavola.

«Certo papà!» aveva risposto lui, poco più che ragazzino, impaziente per l’avvicinarsi della mezzanotte.

Suo padre era spesso lontano da casa per lavoro, e il piccolo Pierre non lo aveva mollato un solo istante, tempestandolo di domande e richieste.

«Calmati, figliolo. E ricordati sempre che l’attesa è il momento più bello.»

«Ma il tempo non passa mai quando vuoi qualcosa!»

«Il tempo scorre più in fretta di quanto pensiamo.»

«Tutti a tavola!» era poi intervenuta la mamma, servendo un enorme piatto pieno di prelibatezze. «E basta discorsi da adulti.»

Così, tra una portata e l’altra, era arrivata la mezzanotte: il momento di brindare e fare buoni propositi per l’anno nuovo.

«Il prossimo anno farò in modo di essere più buono e generoso e anche più paziente» aveva sottolineato riferendosi soprattutto alle sue continue insistenze perché il padre trovasse il modo di passare un po’ più di tempo con lui.

Il padre aveva brindato alzando il calice di vino. Poi aveva dato un bacio alla moglie e uno al figlio.

«Io prometto che il prossimo anno passerò più tempo con voi. Anzi, prometto di passare un’intera giornata con voi. Faremo compere al mercato e un giro in centro. Magari pranzeremo in un bel ristorante sugli Champs-Elysées, che ne dite?»

Lo aveva detto, anche se sapeva che difficilmente avrebbe potuto mantenere la promessa. Il lavoro di commissario di polizia lo portava spesso a condurre lunghe ed estenuanti indagini che lo allontanavano per settimane da casa e dalla famiglia. Ma una promessa era una promessa e Claude, da uomo d’onore qual era, la mantenne.

Era il 15 agosto del 1930.

Quella mattina, come ogni altra della sua giovane vita, Pierre era stato svegliato dalla carezza della madre. Aveva fatto finta di dormire per continuare a ricevere quelle attenzioni, e lei aveva proseguito a coccolarlo per qualche altro minuto. Il loro era un rapporto speciale. In quegli anni vissuti insieme, nel loro piccolo appartamento nel quartiere del Marais in attesa del ritorno del padre, avevano cementato la loro unione, diventando una cosa sola.

Poi Pierre si era finalmente alzato, si era infilato una maglietta e un paio di pantaloni ed era corso a svegliare il padre, che per una volta aveva prolungato la sua permanenza tra le lenzuola.

«Alzati papà!» gli aveva urlato entrando nella stanza, portandosi appresso una ventata di entusiasmo che immediatamente aveva contagiato il genitore.

Così, dopo la veloce colazione, poco prima che le campane della chiesa di St. Paul rintoccassero le nove, erano usciti di casa. Claude elegantissimo. Per l’occasione, aveva indossato la giacca marrone e cravatta scura, nonostante il gran caldo. Il Borsalino a tesa larga piegato di lato, come suggeriva la moda, poi, gli copriva il viso dai lineamenti segnati, mentre Corinne portava con grazia un vestito a fiori lungo fino al ginocchio e scarpe col tacco dello stesso colore della piccola borsetta.

Attraversarono a piedi il lussuoso quartiere del Marais, respirando l’aria calda, che aleggiava sulla città, condita da mille sapori. Quello dolciastro dei fiori che scendevano dai balconi dei palazzi di rue de Rivoli, quello amarognolo proveniente dai Café lungo rue Saint Antoine, fino a quello stuzzicante delle taverne di rue de Turenne, che i tre percorsero per arrivare a Place des Vosges, incrociando sulla loro strada alcuni rabbini ebrei che popolavano il ricco quartiere. Durante l’intero viaggio sentirono addosso gli sguardi incuriositi di chi riconosceva in Claude il capo della polizia investigativa di Parigi. Negli ultimi mesi, Claude Planté era salito alla ribalta delle cronache per essere riuscito a catturare il latitante Armand Lattisée, il più pericoloso e ricercato boss della malavita parigina, condannato all’ergastolo per svariati omicidi, furti e violenze. Al momento dell’arresto, il criminale aveva promesso che gliel’avrebbe fatta pagare, ma il commissario Planté non aveva dato peso a quelle parole.

Nel corso della passeggiata, interrogato dal padre, Pierre cominciò a raccontare quali fossero i suoi progetti per il futuro: voleva studiare e viaggiare per il mondo.

«Sono felice di sapere che non hai intenzione di seguire le mie orme» disse il padre.

All’improvviso la conversazione fu interrotta da uno stridio di gomme. Una Citroen AC4 color mattone si era fermata a pochi metri di distanza. Tre uomini corpulenti e a volto scoperto scesero imbracciando fucili e pistole. Fu un attimo. Claude spinse Pierre all’interno di un bistrot che, per via del caldo soffocante, aveva la porta d’ingresso aperta.

Cinque, dieci, quindici proiettili colpirono Claude e Corinne. Alle gambe, alle braccia, al cuore, alla testa. Nel parapiglia alcuni proiettili raggiunsero le vetrine dei negozi circostanti, i cui frammenti schizzarono in aria come zampilli d’acqua. Tra le urla dei presenti e la confusione generale Claude e Corinne crollarono a terra, mentre i loro assassini fuggivano indisturbati a bordo della macchina. Celato da ciò che rimaneva della vetrina del bistrot, Pierre aveva assistito alla scena, impietrito e spaventato. Guardò suo padre steso a terra in una pozza di sangue e poco più in là sua madre. Non pianse, né urlò. Si precipitò fuori dal locale raggiungendo il corpo del padre. Subito si tolse la maglietta e goffamente cercò di tamponare la fuoriuscita di sangue dalle ferite. Poi andò dalla madre, a pochi metri dal marito, ma anche per lei non c’era più nulla da fare.

L’esplosione che in un istante si portò via la piccola caserma di polizia di rue de Charonne, nell’11° arrondissement, fu così violenta da far tremare la terra nell’arco di qualche centinaio di metri, forse più di quanto avrebbe fatto un terremoto. Un boato assordante che mandò in frantumi i vetri di tutti gli appartamenti dei palazzi dell’intero isolato, quelli delle automobili parcheggiate lungo il marciapiede e quelli delle vetrine dei locali lungo la strada, fino al Café Chareons, dove i commensali si preparavano a festeggiare il Capodanno.

«Buon 1959» sogghignò Julien, seduto sulla poltrona di casa. Nei suoi occhi, arrossati e stanchi, c’era posto solamente per l’odio e la vendetta.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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