Nightshade: Missione Cuba

Nightshade: Missione Cuba - Andrea Carlo Cappi

Nightshade – La serie – di Andrea Carlo Cappi –

Mercy Contreras, bella e giovane ballerina di flamenco a Siviglia, nasconde molti lati oscuri. Cresciuta in una scuola di guerriglia in Honduras, reclutata dalla CIA dopo l’11 settembre con il nome in codice “Nightshade”, viaggia per il mondo eliminando su commissione possibili minacce. Ma nel 2002 una missione a Cuba si rivela una trappola. Ora Mercy deve dubitare di tutti, stringere alleanze impensabili e affrontare un trauma del passato, prima che tra Miami e l’Avana si scateni l’inferno. za precedenti.

Ballerina, spia, assassina, guerriera.
Mercy Contreras è cresciuta con il padre in un centro di addestramento in Honduras, dove è diventata esperta di kali escrima e tecniche dei corpi d’élite. Tornata nella città natale, Siviglia, ha ripercorso i passi della madre, diventando una ballerina di flamenco, in cerca di una vita normale. Ma non si sfugge al passato: assunta come contractor dalla CIA dopo l’11 settembre, sotto il nome in codice Nightshade, Mercy si trova ben presto al centro di un gioco che aveva cercato di evitare, in cui regole, alleati e avversari cambiano ogni minuto.
Solo una donna per natura ribelle e combattiva come lei può affrontare trame, intrighi e giochi di potere dei nostri tempi. Torna in cartaceo e e-book la serie thriller che appassiona lettrici e lettori ininterrottamente dal 2002: la storia segreta del XXI secolo vissuta da un’eroina senza precedenti.

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Nightshade: Missione Cuba

Prologo

La Ceiba, Honduras, 1993

Il giovane camminò silenziosamente verso la finestra e, senza scostare troppo le tende, guardò fuori. Niente di sospetto. Prese una delle sue sigarette americane e l’accese. Tra una boccata e l’altra, passò in esame la strada, le finestre delle vecchie case sull’altro lato, i passanti.
Todo tranquilo. Non poteva essere altrimenti: nessuno poteva averli seguiti, nessuno poteva localizzarli. Forse stava diventando paranoico. L’addestramento ricevuto all’Avana, la tensione della doppia vita a Miami e i mesi trascorsi a Cayo Almirante gli avevano insegnato a diffidare, sempre.
Qualcuno aveva detto che la Guerra Fredda era finita. Per lui era appena cominciata. E i due uomini che aveva ucciso la notte precedente non l’avevano trovata tanto fredda. In ogni caso, non doveva preoccuparsi: tutto era andato nel migliore dei modi. Tranne che per un errore, un suo errore.
La ragazza.
Si sentiva responsabile per lei. Coinvolgerla nella propria fuga era stata una mossa avventata, anche se inevitabile. Lei aveva solo diciotto anni, era ancora troppo giovane e innocente per vivere in mezzo a quella banda di assassini.
No, non era quello il motivo. La ragazza aveva, sì, diciotto anni, ma aveva anche un corpo fantastico e una carica sessuale che attendeva solo di essere fatta detonare. Non era riuscito a staccarsene, questa era la verità. Ed era stato facile convincerla: per lei quella era l’unica occasione di essere libera. Per lui, un rischio, che non aveva potuto fare a meno di correre. Avrebbe potuto avere le donne più belle di Cuba, ma nessuna sarebbe mai riuscita a fargli scordare lei.
Così l’aveva fatto. L’aveva portata con sé. L’aveva portata via.
C’era un lato positivo: la situazione era così assurda che anche il padre avrebbe potuto credere che non fosse altro che una fuga d’amore. Sarebbe stata la spiegazione più logica. El Almirante non avrebbe mai sospettato che ci fosse un infiltrato nella sua organizzazione. E un infiltrato non avrebbe mai commesso un’azione così clamorosa come rapirgli la figlia. Naturalmente, questo non avrebbe mitigato la sua sete di vendetta.
Qualcuno bussò alla porta.
La ragazza si svegliò, mettendosi a sedere sul letto. Lui le fece cenno di stare tranquilla, ma per sicurezza prese la Glock. Senza dire una parola, la ragazza scivolò fuori dalle lenzuola e si rivestì.
«Sì?» fece lui, avvicinandosi alla porta.
«La camarera, señor», fece una voce femminile dall’altra parte. «Traigo la comida
Il pranzo, come aveva promesso Froilán. Il giovane infilò la calibro nove nell’elastico dei boxer. La pistola scivolò fredda sulla pelle sudata. Aprì la porta.
La donna indossava una stinta uniforme a righe e reggeva un vassoio con due tovaglioli, due piatti coperti e una bottiglia di rum.
«Señor…»
Lui fece un cenno affermativo e la fece passare, mentre accanto al comodino la ragazza impallidiva, le labbra che disegnavano silenziosamente la parola no.
Il giovane non fece in tempo a reagire. Il proiettile uscì da sotto i tovaglioli, lasciandosi dietro un foro annerito nella tela. L’impatto scagliò il giovane all’indietro, contro il cassettone addossato alla parete. La cameriera lasciò cadere a terra il vassoio, in un’esplosione di vetro, rum e ceramica. Strinse la pistola con entrambe le mani e prese la mira per il colpo successivo. Una professionista, razionalizzò lui in una frazione di secondo. Ignorando la finestra di sangue che gli si apriva sul ventre, portò la mano al calcio della Glock. Il secondo proiettile lo colpì al braccio, poco sotto la spalla destra.
Sul lato opposto della stanza, la ragazza afferrò la lampada sopra il comodino, strappando il cavo elettrico dalla presa nella parete. L’arma improvvisata colpì la killer alla testa prima che potesse procedere al colpo di grazia.
Il giovane scivolò a terra al rallentatore, le dita che cercavano faticosamente il calcio della pistola. Perse il contatto con la realtà per qualche secondo. Quando riaprì gli occhi, vide la ragazza inginocchiarsi sopra di lui.
«Ti porto da un dottore», diceva lei.
Una sagoma apparve sulla porta, alle spalle della ragazza. Un uomo con una semiautomatica. Il giovane riuscì finalmente a sollevare la Glock e cercò di mirare verso l’intruso. Non riusciva a inquadrarlo: temeva di colpire lei. La ragazza strappò la pistola dalla mano della donna vestita da cameriera e, restando inginocchiata tra le schegge di vetro, ruotò il busto e sparò in direzione della porta. «Non ti possono colpire», le ricordò lui. «A te non possono fare del male.» O almeno credette di dirlo, mentre la nebbia rossastra davanti ai suoi occhi lasciava il posto a un sipario nero.

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1

Miami Beach, 2002

L’insegna a lettere gialle, sopra le palme, diceva PARADISE INN. Javier Zaforteza ne apprezzò l’ironia. Mentre bussava alla camera di Emilio Rojas, sentì oltre la porta voci concitate ed effetti sonori provenienti da un televisore.Venne ad aprire un uomo in doppiopetto blu, capelli corti scuri, naso schiacciato e sigaretta pendente dal labbro.
«Buenas tardes, jefe», lo accolse Pepe Montero.
Zaforteza richiuse la porta alle proprie spalle.
«Hai tutto il necessario?»
«Ho anche la valigia, nel furgone qui fuori.» La valigia. La maleta del adios, come la chiamava Montero.
«Bene», approvò Zaforteza.
Montero aveva atteso l’arrivo del capo prima di dare inizio allo spettacolo. Il prigioniero era saldamente legato mani e piedi a una sedia metallica, con un fazzoletto in bocca. Sulla spalliera della sedia era stato montato un singolare attrezzo di legno: la horca movil, la forca mobile. Dalla base orizzontale, fissata alla sedia con due morsetti regolabili, si alzava un’asse lunga una settantina di centimetri, con una scanalatura lungo la quale poteva scorrere una spoletta di legno. A un anello sulla spoletta era assicurato un laccio, stretto intorno al collo di Rojas. La posizione della spoletta era regolata da una leva sul retro dello strumento. In posizione di riposo, la spoletta era in basso, lasciando alla testa di Rojas una certa mobilità. Abbassando la leva, la spoletta sarebbe salita, aumentando la stretta sul collo dell’uomo.
Fino a mezz’ora prima Rojas pensava di essere al sicuro. Era sparito dalla circolazione da una settimana e aveva preso una stanza al Paradise sotto il nome di Fernando Gonzáles. Ma aveva commesso una svista imperdonabile: aveva telefonato alla sua donna.
Credeva di avere preso ogni precauzione. Si era servito di un telefono pubblico e l’aveva chiamata in negozio, dove ogni giorno arrivavano decine e decine di telefonate di clienti, sicuro che nessuno avrebbe avuto la pazienza di sorvegliare quella linea. Rojas aveva bisogno di contanti e aveva chiesto a Maria Lourdes di mandargli qualcuno con la borsa che lui le aveva lasciato in casa giorni prima. Stava al Paradise Inn, le aveva detto, sulla Harding Avenue, a un passo dalla spiaggia.
Due secondi dopo avere riagganciato, Maria Lourdes aveva telefonato a chi di dovere e aveva riferito l’informazione. Quando cinque giorni prima le era giunta la voce che Rojas aveva passato informazioni ai Federali, Maria Lourdes si era trovata in una posizione molto imbarazzante. Aveva lavorato duro per mettere in piedi la sua attività di parrucchiera a Little Havana e non poteva permettersi di sfidare l’autorità di Sierra. Tra la tienda e Rojas, aveva scelto la tienda.
Maria Lourdes era una ragazza intelligente.
Gli aveva risposto che avrebbe mandato Mariano, il fidanzato di una delle ragazze che lavoravano da lei, con una borsa piena di contanti.
Un’ora dopo la telefonata, Pepe Montero si era presentato al Paradise Inn con una valigetta. Aveva bussato alla porta di Rojas presentandosi come Mariano. Rojas gli aveva aperto. E quello era stato il suo secondo e ultimo errore.
Montero non era imponente. Malgrado il naso da pugile, nessuno, a prima vista, lo prendeva per un picchiatore. Salvo poi riprendere i sensi e trovarsi legato a una sedia con un paio di elettrodi appesi ai testicoli. O con il collo infilato nel cappio di una forca portatile.
Zaforteza si avvicinò a Rojas e con la mano destra gli strappò il fazzoletto dalla bocca, mentre con la sinistra esercitava una lieve pressione sulla leva.
«So che non griderai. Non avresti nemmeno il tempo di pentirtene», gli disse. «Se abbasso la leva di scatto, ti spezzo il collo e tu muori istantaneamente.»
Rojas lo fissava con gli occhi sbarrati. La stretta del laccio intorno al suo collo era minima, ma agiva come deterrente psicologico. Vecchi trucchi del mestiere che Zaforteza aveva imparato in una casa chiamata Villa Grimaldi, a Santiago del Cile, negli anni d’oro di Pinochet. Quando la maggior parte degli ospiti non restavano in vita abbastanza a lungo per lamentarsi del servizio.
«Allora?» insistette Zaforteza.
Rojas tentò faticosamente di annuire.
Zaforteza riportò la leva nella posizione di riposo e andò a sedersi sulla sponda del letto. A un suo cenno, Montero si mise dietro la sedia di Rojas, la mano pronta sulla forca.
«Io non lavoro per Sierra, quindi non mi interessa sapere perché lo hai tradito», cominciò Zaforteza. «Non mi preoccupo di inutili questioni etiche. Mi interessa solamente sapere che cosa hai raccontato all’FBI.»
«Niente», mentì Rojas.
Zaforteza fece un cenno a Montero, che abbassò leggermente la leva.
«Niente di importante», si affrettò a correggere Rojas. «Ho venduto solo un paio di spacciatori di seconda categoria. Mi avevano beccato, dovevo dare qualcosa agli yanquis
A un cenno di Zaforteza, Montero allentò la stretta.
«Sei caduto in una trappola, Rojas», dovette deluderlo il cileno. «Sierra ti sospettava e ha fatto in modo che tu venissi a sapere di una vendita a South Miami, la settimana scorsa. Solo che non c’era nessuna vendita. C’erano solo due uomini in appostamento, che hanno visto da lontano i movimenti dell’FBI. A quel punto era chiaro che eri tu la spia.»
Rojas non aprì bocca.
«E, lo ripeto», riprese il cileno, «non m’importa se sei un chivato e se hai tradito la fiducia che Sierra ha riposto in te. Non è un mio problema. Il mio problema è sapere di che cosa hai parlato con l’FBI.»
«Io… gli ho detto solo di South Miami.»
Zaforteza scambiò un’occhiata con Montero. «E vuoi farci credere che loro si sono accontentati?»
Rojas esitò per un istante. «Poi è arrivato un altro. Uno che non aveva niente a che fare con i Federali.»
«Che cosa voleva?»
«Notizie di Conde.»
Zaforteza si protese in avanti. Questo era esattamente ciò che temeva. «Che cosa gli hai detto di Conde?»
«Niente. Sapeva già tutto. Mi ha chiesto solo di fargli arrivare un messaggio. A Conde. Come se fosse da parte mia.»
Il cileno lanciò un’occhiata al suo assistente, che strinse il laccio intorno al collo di Rojas.
«Voglio sapere esattamente che cosa diceva quel messaggio.»
Quella sera il signor Gonzáles saldò in contanti e lasciò il Paradise. Nessuno alla reception si accorse che l’uomo che aveva pagato il conto non era lo stesso che aveva preso la camera una settimana prima. Nessuno fece caso neppure al bagaglio caricato sulla vecchia Ford Escort: una grossa valigia su rotelle che avrebbe potuto benissimo contenere una persona.
Montero salì a bordo dell’auto di Rojas e mise in moto. Imboccò Collins Avenue e proseguì verso nord, per svoltare a ovest e immettersi nella 195. Proseguì fino all’intersezione con la 95, che prese in direzione Fort Lauderdale. Continuò verso nord fino all’altezza di Dania, svoltando poi verso ovest e raggiungendo la 75, la Alligator Alley, destinazione Everglades.
Un’ora più tardi, la Ford oltrepassava una cancellata arrugginita, inoltrandosi lungo un sentiero tra le mangrovie. Ormai era buio. Arrivato fin dove era possibile con un veicolo, Montero scese dall’auto, lasciando accesi i fari. Spalancò il bagagliaio e aprì l’enorme valigia in cui aveva ripiegato il cadavere del chivato. Guardandosi nervosamente intorno, tirò fuori il corpo di Rojas e lo trascinò tra il fogliame, fino all’orlo dell’acquitrino. Lo fece rotolare a calci nell’acqua e si affrettò a indietreggiare fino all’auto. Risalito a bordo, richiuse la portiera e attese. L’alligatore non tardò ad arrivare.
Bene. Montero non intendeva trattenersi oltre.
I fari illuminarono fugacemente le squame del rettile mentre la Ford ripartiva a marcia indietro lungo il sentiero.
La casa in stile spagnolesco di Sierra era sulla 31st Avenue, a North Miami Beach. Zaforteza supponeva che fosse appartenuta a un’antica famiglia ricca, finita in miseria e costretta a cedere le proprietà alle classi emergenti.
Valdés, assistente personale di Rafael Sierra, accompagnò Zaforteza in una delle grandi sale affrescate, dove lo attendeva il padrone di casa. Ogni volta che faceva visita a Sierra, il cileno non poteva fare a meno di stupirsi di quanta strada avesse fatto in vent’anni quel marielito arrivato da Cuba su un canotto. Uno dei tanti disgraziati in cerca di fortuna che avevano approfittato dello slancio isterico di solidarietà dei cubani di Miami e degli anticomunisti americani, unito alla ferma volontà di Fidel Castro di liberarsi di alcuni dei membri meno utili della società. Il risultato era stato l’ondata di boat people che nel 1980 erano salpati da Puerto Mariel, Cuba, per sbarcare a Key West, Florida, convinti di poter trovare qualcosa di meglio di quello che si lasciavano alle spalle.
Molti erano rimasti delusi. Sierra era uno dei pochi che avessero realizzato il proprio sogno, attestato dalla grande villa in cui aveva preso residenza. Ma, una volta arrivato al successo, si era accorto che non gli bastava più. Voleva qualcosa di unico. Qualcosa che lo facesse passare alla storia.
I capelli brizzolati, perfettamente in ordine, e l’abbronzatura esaltata dal completo beige non lo facevano assomigliare per nulla al prototipo del gangster cubano di Miami. Niente camicie a collo largo, niente catene d’oro sul petto villoso come i classici mafiosi del cinema. Un autentico uomo d’affari, un gentiluomo che parlava inglese con un lieve accento latino, unica impercettibile traccia delle sue origini caraibiche.
Sierra attendeva il cileno seduto alla scrivania. Di fronte a lui c’era un grosso bicchiere colmo di un liquido denso, di colore rossastro.
«Sei venuto a portarmi notizie?» domandò.
Zaforteza annuì.
«Le buone notizie sono che Rojas è cibo per gli alligatori. Gli americani lo crederanno nascosto da qualche parte e non si preoccuperanno di cercarlo.»
Apparentemente, la situazione in Florida era sotto controllo. Gli agenti del DGI tra Miami e Key West erano stati arrestati dall’FBI, grazie a una serie di informazioni fornite dallo stesso Zaforteza. E la fuga di notizie dovuta al voltafaccia di Emilio Rojas era stata interrotta definitivamente. Il sole splendeva sull’operazione.
Sierra si accese un Cohiba e guardò il cileno, il cui volto lasciava presumere che ci fosse dell’altro.
«Se queste sono le buone notizie, vuol dire che ce ne sono anche di cattive?»
«Qualcuno sta curiosando», riprese Zaforteza. «Dopo che l’FBI ha finito di interrogare Rojas, è arrivato un altro uomo. Non era un Federale. Probabilmente era della CIA.»
Sierra s’irrigidì.
«Non dovrebbero essere dalla nostra parte?»
«Non tutti.»
Sierra bevve un sorso del suo cocktail alla frutta, il cui colore ricordava a Zaforteza il sangue umano.
«Potrebbe essere uno dei nostri venuto a mettere la storia sotto silenzio.»
Sierra appoggiò il bicchiere sul tavolino.
«Spero che non sia niente di grave.»
«Rimediabile», lo rassicurò il cileno. «L’uomo della CIA sapeva già dei tuoi legami con Conde. Rojas li ha confermati, ma non ha potuto dirgli molto di più. Da quanto ho capito, gli americani pensano che Conde sia l’uomo chiave del progetto. Rojas, per compiacerli, è stato al gioco, convincendoli definitivamente del ruolo di primo piano di Conde. Il che conferma quanto poco sanno di noi. Si sono serviti di Rojas per mandargli un messaggio. Gli hanno proposto un incontro.»
«Vogliono farlo parlare?»
Zaforteza sorrise.
«Credo che lo vogliano uccidere. Pensano che, sopprimendo Conde, non ci saranno più fattori… incontrollabili.»
«Quindi, eliminato lui…»
Zaforteza annuì.
«Gli americani staranno tranquilli per qualche giorno. E i cubani avranno qualcosa cui pensare. Quando si accorgeranno di averci sottovalutati, sarà troppo tardi per gli uni e per gli altri.»
«Spero solo che non ci siano altri imprevisti», si rassegnò Sierra. «Siamo in una fase troppo delicata.»
«Lo so. Ventiquattro giorni allo Zero», calcolò il cileno.

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